M. Coccia, o Coccio, nacque a Vicovaro, nella Sabina, verso il 1436; in seguito cambiò il proprio cognome in S., secondo il gusto degli umanisti, per celebrare le sue origini. Ricevette una solida formazione umanistica a Roma, dove fu allievo di Pomponio Leto e di Domizio Calderini, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Nel 1473 fu chiamato a tenere un pubblico insegnamento a Udine per sostituire Bartolomeo Uranio dopo che, forse l’anno precedente, il S. si era mosso da Roma al seguito di Angelo Fasolo, vescovo di Feltre e vicario del patriarca di Aquileia. Gli anni trascorsi nella Patria lo videro impegnato nell’attività didattica e nella composizione di opere che trattavano la storia del Friuli: il De munitione Sontiaca, il De caede Sontiaca e il De incendio Carnico, dedicate all’invasione turca del 1477, e il De origine Hunnium e il De vetustate Aquileiensis patriae che narravano la storia del Friuli dalle origini ai suoi tempi. A Udine una donna rimasta ignota gli diede un figlio, Mario; attualmente viene respinta l’ipotesi che fu in conseguenza della morte di lei che il S. abbia preso la decisione di lasciare il Friuli per trasferirsi a Venezia e ricoprire, nel 1484, il prestigioso incarico di maestro nella scuola di S. Marco. Tra il gennaio 1485 e l’aprile 1486 redasse i primi trentadue libri delle Historiae rerum Venetiarum, note anche come Deche, successivamente portate a trentatré libri e pubblicate nel 1487. I tempi straordinariamente rapidi della composizione furono dovuti alle insistenti sollecitazioni della classe dirigente veneziana che voleva rompere con una tradizione storiografica fatta di cronache e annali per possedere una storia di impianto umanistico. ... leggi L’opera licenziata dal S. ebbe un destino contraddittorio: suscitò critiche da parte dei colleghi umanisti e l’entusiasmo incondizionato dei Veneziani. Infatti l’eleganza dello stile latino non riuscì a nascondere la debolezza metodologica del S. che aveva attinto a piene mani e con insufficiente acribia proprio da quelle cronache medievali che aveva criticato per la loro rozzezza stilistica. D’altro canto l’uso del modello di Tito Livio servì al S. per nobilitare la storia veneziana e per impostare il parallelo tra la storia di Roma e quella di Venezia che il S. riteneva essere l’erede di Roma; così nelle Deche sono messi sullo stesso piano, per esempio, la difesa di Rialto e quella del Campidoglio, Cartagine e Genova, Mitridate e Filippo Maria Visconti. Inoltre portò a maturità il topos della Repubblica di Venezia garante della libertà italiana, protettrice della fede cristiana e straordinaria per longevità, andando così incontro al gusto e all’ideologia della dirigenza veneziana e ottenendo uno straordinario successo personale. Il S. oltre alle Deche compose altre opere riguardanti Venezia, tra le altre il De Venetae urbis situ e il De Venetis magistratibus (1488). Dedicò ai fatti di storia veneziana una parte ragguardevole anche nelle Enneades sive rhapsodia historiarum (1498), una storia universale. Il S. compose, inoltre, un trattato di filologia, il De latinae linguae reparatione, edito da Guglielmo Bottori ed inoltre: edizioni di autori classici, orazioni, poesie, brevi trattati e biografie. Le opere del S. non suscitarono tra gli umanisti il medesimo successo che riscossero presso un pubblico più vasto e meno preparato: le sue insufficienze come storiografo vennero subito notate e, come filologo, subì gli attacchi di Giovanni Battista Egnazio, un umanista più giovane e scientificamente più aggiornato con il quale si riconciliò in punto di morte. Nonostante ciò fu membro dell’Accademia Aldina, godé di grande credito per il talento didattico e nel 1500 sostituì Giorgio Valla sulla cattedra superiore di retorica della scuola di S. Marco; fu, inoltre, custode della Libreria Nicena, ovvero responsabile della preziosa collezione di libri donata dal cardinal Bessarione alla Serenissima. Nel 1505, afflitto dalla vecchiaia e dalla cattiva salute, richiese e ottenne di potersi ritirare dall’insegnamento, ricevendo dalla Repubblica riconoscente una pensione, pari allo stipendio, di 200 ducati. Morì il 20 maggio 1506, lasciando la sua ricca biblioteca ad un congiunto, essendo morto, forse nel 1504, il figlio. Il periodo udinese fu passaggio fondamentale nella vita del S. perché durante esso avviò la costruzione di una carriera di successo: in quegli anni, infatti, riuscì ad allacciare relazioni con protettori potenti come i Savorgnan e Benedetto Trevisan, iniziò il suo – non disinteressato – tirocinio di storico e divenne un maestro di fama. Benché non fosse ancora molto noto quando giunse in Friuli fu rapidamente apprezzato per il suo metodo didattico che contemplava varietà e ampiezza di temi – sia letterari sia scientifici – secondo un uso appreso sotto Pomponio Leto. Marin Sanudo, nel suo Itinerario per la Terraferma veneziana, lo ricordò come uno dei due intellettuali più eminenti presenti a Udine. Malgrado emolumenti piuttosto cospicui, che oscillavano tra gli 80 e i 100 ducati, non rispettò sempre i termini del contratto e quasi ogni anno venne sollecitato ad adeguarsi ai doveri prescritti, ma in tutte queste occasioni, grazie all’intercessione di amici influenti, non ebbe a soffrire alcuna conseguenza. Come si è già visto, all’inizio la sua attività di storiografo fu concentrata sulla storia del Friuli e al suo interno si nota, tra l’altro, la progressiva acquisizione dell’orientamento stilistico: infatti il Carmen in munitionem Sontiacam, il Poema in caedem Sontiacam, il Carmen in Carnicum incendium e il Carmen in Hunnii originem sono in esametri, mentre è in prosa il De vetustate Aquileiensis patriae. Le sue prime tre opere riguardano un avvenimento recente che aveva sconvolto la Patria, cioè l’incursione turca del 1477. Nel Carmen in munitionem Sontiacam, in 152 versi, descrive, con travestimenti di gusto umanistico non troppo originali, l’Isonzo e l’opera dei sudditi chiamati da tutta la Terraferma per erigere la lunga fortificazione, fatta di terrapieni e di palizzate, che correva lungo il confine sud-orientale della Patria: il carmen si chiude con un’invocazione alla futura vendetta delle stragi subite che, superando in gloria Roma, avrebbe fatto Venezia. Nei 425 versi del Poema in caedem Sontiacam è narrata la rotta inflitta dai cavalleggeri turchi ai reparti veneziani sull’Isonzo che permise agli Ottomani di irrompere nella Patria. Nel Carmen in Carnicum incendium, in 424 esametri, il S. descrisse con precisione la scorreria che devastò il Friuli e che poté osservare da Tarcento, dove si era rifugiato. Il Carmen in Hunnii originem, fatto di materiale assemblato in maniera poco armoniosa, rappresenta il raccordo tra le prime opere storiografiche e quelle successive di maggior respiro e vi è trattata, in 782 esametri, la storia del Friuli dalle origini di Udine fino agli avvenimenti a lui contemporanei. Queste quattro o pere possono essere considerate materiale preparatorio per il De vetustate Aquileiensis patrie che il S. scrisse essere il segno della sua gratitudine verso la città che lo aveva accolto: donatolo al comune di Udine venne impresso con denaro pubblico nel 1482. Il De vetustate è in sei libri. Il primo è di carattere geografico: vi sono descritti accuratamente la geografia fisica, i centri abitati, le risorse del territorio e si chiude con una breve trattazione di carattere etnografico. Il secondo ospita la storia antica fino all’arrivo del cristianesimo nella regione, il terzo parla diffusamente degli Unni e di Attila, il quarto dei Longobardi. Il quinto va dalla vittoria dei Franchi alla conquista veneziana della Patria. Il libro sesto è dedicato alla scorreria del 1477 e riprende largamente materiale esposto nelle opere precedenti. L’opera si conclude con un tributo al firmatario veneziano del trattato di pace coi Turchi, nonché suo patrono, Benedetto Trevisan. Nel De vetustate appaiono subito evidenti i difetti peggiori del S. storiografo: la cronologia imprecisa, l’uso indiscriminato delle fonti poetiche e mitologiche, la disposizione poco ordinata della narrazione. Se a questo si aggiunge che, secondo quanto scrisse, uno storiografo non avrebbe dovuto narrare fatti che possano spiacere a qualcuno, anche l’ispirazione a comporre il De vetustate potrebbe apparire viziata dalla malafede sin dall’origine. In effetti nel Friuli, veneziano da circa sessant’anni, la rivalità tra Udine e Cividale, risalente agli ultimi decenni del patriarcato, non si era ancora estinta. Udine rappresentava il nuovo centro politico ed economico della Patria e Cividale, che presentava credenziali di vetustà e nobiltà illustri, non voleva cedere una primazia politica e religiosa che sentiva ancora propria. Il De vetustate rinfocolò la polemica perché il S. aveva messo in dubbio, nei libri I e VI, le origini romane di Cividale, con lo scopo evidente di dare maggiore lustro a Udine, che non aveva origini romane e che il S. chiamò Hunnium dicendola fondata dagli Unni. Al S. rispose dopo circa quindici anni, con il De restitutione patriae, il cividalese Nicolò Canussio che in quel lasso di tempo aveva studiato tutte le evidenze archeologiche reperibili per dimostrare la debolezza delle affermazioni del S. e per provare l’effettiva primogenitura di Cividale. La diatriba si prolungò attraverso tutto il Cinquecento e i due secoli successivi: Iacopo di Porcia affermò che ciò il S. scrisse fu degno di riso e che delirò per amore del denaro, mentre nei Commentarii de i fatti d’Aquileia, pubblicati a Venezia nel 1544, Giovanni Candido cercò una conciliazione tra le diverse tesi. Nel Seicento Giovanni Francesco Palladio degli Olivi e Giovanni Giuseppe Capodagli sostennero, senza alcun fondamento di carattere scientifico, che fosse Udine e non Cividale l’antica Forum Iulii, e fu necessario attendere il Settecento perché fosse ripristinata la verità storica, grazie al rifiorire dell’antiquaria e della ricerca archeologica.
ChiudiBibliografia
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