Nacque a Cividale, in una famiglia longobarda alla quale si sentì unito «da vincoli che legano a ritroso, oltre il corto rapporto di sangue, a tutta la storia del suo popolo» (Gustavo Vinay). Superata la tradizione formatasi nell’ambiente monastico italomeridionale che dal X secolo fino all’età moderna ne fece una figura leggendaria, a permetterci di ricostruire la biografia di P. è innanzitutto la sua opera, cui va aggiunto, tra le testimonianze a lui cronologicamente più vicine, l’epitaffio acrostico composto nella prima metà del IX secolo dal suo discepolo cassinese Ilderico. Così dal IV libro dell’Historia Langobardorum si apprende che il Leupichis trisavolo di P. era giunto in Italia al tempo della prima invasione longobarda e che uno dei cinque figli di costui, fatto prigioniero dagli Avari assieme ai fratelli, riuscì a liberarsi e a fare ritorno in patria dove generò Arechi, padre a sua volta di Warnefrit. Dall’unione di quest’ultimo con Teodolinda nacquero P. e suo fratello Arechi; una sorella, di cui non è specificato il nome, è menzionata solo nella poesia Verba tui famuli, da cui si evince che era entrata giovanissima in convento. Non è tramandata la data di nascita di P., che viene comunque fatta risalire al decennio 720-730; in un carme databile ai primi anni Ottanta del secolo si descrive «iam gravante senio», lasciando intendere che all’epoca avesse ormai superato quanto meno i cinquant’anni. La sua formazione si svolse dapprima nelle scuole cividalesi; successivamente, come è testimoniato da Ilderico, presso la corte di Pavia, dove secondo le tradizioni germaniche venivano istruiti i giovani appartenenti a famiglie nobili o ragguardevoli del regno. Ardua è l’identificazione del suo “praeceptor” Flaviano, un grammatico legato o alla famiglia di P. o, ancor più verisimilmente, all’ambiente di palazzo ed appartenente ad una famiglia in cui la stessa professione era stata esercitata almeno dallo zio Felice. ... leggi Il “curriculum studiorum” di P. appare improntato alla cultura della tarda antichità, ossia ad «una cultura a direzione cristiana anche se sui binari della retorica e della grammatica classiche» (Claudio Leonardi), basata su testi sia patristici che letterari, cui non furono estranee le conoscenze giuridiche impartite ai futuri funzionari amministrativi del regno. Se poi da un lato P. dichiarò in un carme di avere avuto da fanciullo solo un’infarinatura di greco e di averlo presto dimenticato, non esitò nello stesso contesto a dare un saggio delle sue capacità di traduttore, e in ogni caso visse in ambienti – Pavia, Montecassino, forse la stessa Cividale – in cui il greco era conosciuto ed insegnato. Certamente ottima fu la sua padronanza del latino, di cui dimostra di conoscere i costrutti classici ed addirittura certe forme arcaiche al punto da correggere le proprie fonti tardoantiche o altomedievali, pur filtrandoli attraverso il latino cristiano e lasciando trapelare altrove alcune ormai ineliminabili influenze della lingua parlata. All’esperienza pavese di P. possono essere riferite le sue prime composizioni in versi, tra cui quella in lode del lago di Como, in distici elegiaci in forma epanalettica, una struttura mutuata da poeti tardoantichi ed utilizzata da P. anche in altre occasioni. L’attributo di “diacono”, generalmente preferito al patronimico nella denominazione di P., è riferito ad una tappa nella sua carriera ecclesiastica raggiunta probabilmente già al tempo del suo soggiorno a Pavia dove, secondo Ilderico, fu indirizzato da Ratchis in persona agli studi teologici. Alcuni autori antichi gli attribuiscono anche il ruolo di funzionario della cancelleria di Desiderio; la sua vicinanza alla famiglia reale è tuttavia meglio provata dai rapporti, sia pure non necessariamente istituzionalizzati, di P. con Adelperga, figlia dello stesso Desiderio ed andata in sposa, attorno al 760, al duca di Benevento Arechi II. Di Adelperga P. curò l’istruzione seguendola anche nell’Italia meridionale, e ad Adelperga dedicò il carme acrostico del 763 A principio saeculorum e, soprattutto, l’Historia Romana. Di incerta datazione, la prima opera storiografica di P., poi divenuta il manuale di storia romana più letto nel medioevo, fu verisimilmente composta entro l’arco di tempo 761-774 e comunque prima del suo soggiorno in Francia. Dei sedici libri che la compongono, i primi dieci consistono in una ripresa praticamente letterale del Breviarium ab Urbe condita di Eutropio, con le integrazioni dedicate alla storia sacra promesse nel prologo, ma soprattutto con l’aggiunta di una digressione iniziale sulle origini di Roma, e con l’inserzione di aneddoti, curiosità erudite, precisazioni storiche e geografiche; i libri successivi, composti da P. sulla base di testi come l’Epitome de Caesaribus dello pseudo Aurelio Vittore e le opere di Prospero d’Aquitania, Orosio e Giordane, proseguono la narrazione eutropiana da Valente a Giustiniano, terminando nel 552. Un diciassettesimo libro previsto da P., incentrato proprio sulla figura di Giustiniano, non venne realizzato probabilmente per mancanza di fonti affidabili; una più generale prosecuzione dell’opera, anch’essa promessa nell’epistola dedicatoria ad Adelperga, è stata vista da alcuni nella stessa Historia Langobardorum. Al tempo dei contatti di P. con la corte beneventana va fatto risalire anche, in data non meglio precisata e non necessariamente coincidente con eventi storici di rilievo come la conquista franca del 774, il suo ingresso come monaco a Montecassino. La scelta, per altro comune a molti longobardi dell’VIII secolo, fu probabilmente dettata, oltre che da una personale vocazione e tensione spirituale, dalla fede nella superiorità del monachesimo benedettino che traspare dalla sua opera e che era in linea con un più generale e diffuso clima di riscoperta dell’opera del santo di Norcia. In particolare Montecassino, rifondato da Petronace agli inizi del secolo, posto sotto la protezione dei duchi di Benevento, ritiro di importanti personalità sia del mondo longobardo (come Ratchis, dopo l’abdicazione del 749) che di quello franco (come Carlomanno, fratello di Pipino III), meta di abati e di numerose figure rappresentative del monachesimo dell’epoca, conosceva un momento di intensa crescita economica, spirituale e culturale, di cui P., insieme con l’abate Teodemaro, fu protagonista ed artefice. Al periodo di questa sua prima permanenza a Montecassino e al suo impegno nell’organizzazione delle scuole, nella formazione dei giovani e nella trasmissione del sapere grammaticale va probabilmente riportata la sua Expositio Artis Donati, un’esposizione, appunto, a fini scolastici dell’Ars minor di Donato: in sostanza un manuale di grammatica ad uso dei principianti, in cui il testo di Donato è ripetuto quasi alla lettera, con l’aggiunta di esempi di declinazioni e coniugazioni e di altri elementi ripresi in parte da Prisciano, in parte da diverse tradizioni grammaticali. Forse alla pasqua del 781 e al sinodo che in quell’occasione si tenne a Roma risale il primo contatto di P. con Carlo Magno; di fatto, dopo tale data e prima del 783 iniziò la più che quinquennale permanenza di P. presso la corte di Aquisgrana. Del tutto personali furono le ragioni che lo spinsero ad avvicinarsi al re franco, e precisamente le sorti del fratello Arechi, fatto prigioniero in seguito alla fallimentare ribellione guidata dal duca del Friuli Rodgaudo nel 776, e più in generale quelle della sua famiglia. In un ben più ampio programma politico rientrava invece l’invito di Carlo Magno a trattenersi a corte, dove già erano convenuti intellettuali come Pietro da Pisa, probabilmente conosciuto da P. dai tempi di Pavia, e Paolino d’Aquileia. Gli scritti di P. riferibili al periodo della sua permanenza alla corte franca denunciano sentimenti ed atteggiamenti contraddittori: la nostalgia per la vita claustrale confessata nella lettera a Teodemaro del 10 gennaio 783 e la manifesta insofferenza per gli elogi rivoltigli dal re tramite Pietro da Pisa del carme Sensi cuius rivelano una più generale insofferenza per la vita di corte e probabilmente un più intimo senso di inferiorità culturale, che l’arrivo di Alcuino non avrebbe potuto che acuire; ma a tutto questo fanno da contrappunto la maggiore levità di altri momenti del suo carteggio poetico col re e col dotto pisano, l’autentico affetto nei confronti di Carlo Magno che vi si esprime, nonché un’adesione pressoché incondizionata al programma politico e culturale del futuro imperatore. Al 784 risale la composizione del Liber de episcopis Mettensibus, opera di modesta estensione e limitata diffusione, ma assai significativa se interpretata alla luce della politica carolingia nel nono decennio dell’VIII secolo. Commissionato a P. da Angilramno vescovo di Metz e dal 784 arcicappellano di corte, ed elaborato a partire da un preesistente catalogo dei 37 vescovi della città fatto approntare anni prima dallo stesso Angilramno, il Liber è al tempo stesso una storia della Chiesa di Metz, fondata dal discepolo di Pietro Clemente, ed una celebrazione della genealogia carolingia e legittimazione del suo potere: sotto il primo aspetto l’opera, che, soprattutto nella parte dedicata al vescovo Crodegango (745-766), ha come modello il Liber pontificalis romano, può essere vista come un prototipo dei Gesta episcoporum diffusisi a partire dal IX secolo; sotto l’altro profilo nel Liber sarebbe anche configurato, secondo critici contemporanei, un progetto di successione al trono e di “divisio imperii” elaborato da Carlo Magno già nel 781. La genealogia franca vi è ricostruita, sia pure in modo semplificato, da Anschiso, figlio del santo vescovo di Metz Arnolfo il cui nome non a caso lascia anche evocare origini troiane, fino al 783, terminando con gli epitaffi per le principesse carolinge, figlie, sorelle e moglie di Carlo. Questi ultimi, come pure gli altri componimenti paolini in versi inseriti nelle opere in prosa, furono oggetto anche di una tradizione manoscritta indipendente dal Liber, assieme alle numerose poesie scritte da P. o a lui con maggiore o minore veridicità attribuite. Il soggiorno di P. presso la corte carolingia terminò verso il 786-787. Sicuramente egli dovette trovarsi a Montecassino dopo il 26 agosto 787, data della morte del duca Arechi per il quale compose un sentito epitaffio. Circa le tappe del suo viaggio di ritorno verso l’Italia meridionale sono state elaborate alcune ipotesi, tra cui quella, non scevra di fascino, secondo la quale P. sarebbe passato per il Friuli, magari per riaccompagnare il fratello finalmente libero dalla prigionia franca, e da lì avrebbe inviato all’abate di Corbie Adalardo un’antologia delle epistole di Gregorio Magno di cui sarebbe conservato l’originale, in parte autografo, in un codice ora a San Pietroburgo; più facilmente questa compilazione paolina fu realizzata durante gli anni di permanenza in Francia. L’interesse di P. verso l’opera e la figura di Gregorio è tuttavia con ancor maggior forza testimoniato dalla Vita Gregorii da lui scritta forse durante una tappa romana del suo viaggio per o dalla Francia; quest’opera circolò poi nel medioevo anche in una versione interpolata. Altre due opere dedicate a Carlo Magno ed in linea coi suoi programmi furono realizzate da P. dopo il rientro a Montecassino: un omeliario e l’Epitome del De verborum significatu di Pompeo Festo. L’omeliario consiste in una raccolta di 244 omelie o excerpta dei Padri della Chiesa, divise in una parte invernale ed una estiva; inizialmente destinata all’ufficio notturno, fu poi oggetto di un utilizzo più generico e diffuso durato in sostanza fino ai nostri giorni. La scelta dei testi e la loro organizzazione rispondono ai criteri di ortodossia e correttezza, prima ancora che di adesione ai modelli liturgici romani, postulati da Carlo Magno per la riforma ecclesiastica del regno. Si tratta inoltre dell’unica opera di carattere e contenuto liturgico sicuramente di P., cui fonti comunque piuttosto antiche hanno attribuito anche alcuni inni, tra i quali il celebre Ut queant laxis per san Giovanni. Anche l’Epitome di Festo fu composta con ogni probabilità a Montecassino piuttosto che in Francia, ché cassinesi o comunque italomeridionali sembrano essere stati gli “exemplaria” ed i testi di riferimento a disposizione di P., e dato il dichiarato intento di arricchire con un libro nuovo la biblioteca di corte. L’opera testimonia, a prescindere dagli interessi antiquari espressi nell’epistola dedicatoria a Carlo Magno, probabilmente ripresa abbastanza alla lettera dalla prefazione ora perduta al testo festino, l’adesione di P. alla riforma scolastica e al programma di rinnovamento degli studi e dell’insegnamento promossi dal re franco. Essa si configura infatti come un lessico da utilizzare nelle scuole assieme ai manuali di grammatica: sono così eliminate molte notizie relative agli usi e costumi, alla società, alla religione ed alla topografia dell’antica Roma, mentre maggior rilievo è dato alle informazioni di carattere etimologico e grammaticale relative, tra l’altro, ai termini presenti nelle letture scolastiche dell’epoca. Malgrado l’immediata diffusione che l’Epitome paolina ebbe negli ambienti carolingi, non è da escludersi che essa venisse utilizzata anche nelle scuole cassinesi. Sicuramente posteriore al rientro di P. dalla Francia è l’invio a Carlo Magno da parte di Teodemaro di un testimone della Regula, forse copiato dallo stesso P. e all’origine della trasmissione oltralpina della versione “pura” della regola benedettina. E senza dubbio all’ultima parte della vita di P. va riportata la stesura dell’opera per la quale è maggiormente ricordato: l’Historia Langobardorum. In sei libri, essa narra la storia del popolo longobardo dalle sue mitiche origini scandinave fino alla morte di Liutprando (744), passando, non senza qualche incongruenza storica ed inesattezza cronologica, per le eroiche gesta guerresche dei primi re, la conquista dell’Italia, il governo dei duchi, le guerre coi Franchi e con gli Avari, i rapporti col papato, alcuni cenni alla contemporanea storia bizantina, in un quadro che progressivamente si arricchisce di episodi, aneddoti e curiosità. È comunque il popolo longobardo protagonista assoluto delle vicende raccontate, sulla base di un complesso di fonti in cui un ruolo non irrilevante ebbe la tradizione orale: P. si avvalse infatti di materiale longobardo come l’Origo gentis Langobardorum, il prologo all’Editto di Rotari ed un’“historiola” non più conservata attribuita a Secondo da Trento; di opere storiografiche tradizionali come i Dialogi di Gregorio Magno e altre più “moderne” come l’Historia Francorum di Gregorio di Tours e l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda, da lui conosciute in Francia; di materiale archivistico e documentario; di altri testi poi andati perduti; ma anche e soprattutto dei racconti che poté ascoltare durante la propria infanzia in Friuli, «centro dell’epica germanica» (Leonardi) della prima parte dell’opera, e successivamente presso le corti di Pavia e Benevento. L’anomalia dell’Historia Langobardorum nel contesto della produzione paolina in prosa (è l’unica opera storiografica non scritta su commissione, e l’unica che non riguardi la tradizione romano-cristiana né quella patristica) ha stimolato la critica ad interrogarsi sul suo significato politico e su quelli che secondo P. ne furono i potenziali o intenzionali destinatari. In rottura con una tradizione storico-letteraria soprattutto italiana che leggeva l’Historia Langobardorum in chiave germanica vedendo in P. il cantore delle gesta del suo popolo, animato da spirito di rivincita nei confronti dei Franchi, ultimamente proprio nel rapporto con questi ultimi si è voluta rintracciare la chiave di lettura dell’opera: la Storia dei Longobardi sarebbe così stata concepita da P. all’indomani (o durante, secondo alcuni) del suo soggiorno in Francia nell’intento di un’integrazione ideologica del suo popolo nel contesto carolingio. Consapevole della superiorità culturale, politica ed anche militare dei Franchi, P. avrebbe voluto narrare la storia dei Longobardi e del loro passaggio dalla barbarie alla civiltà per far conoscere ed accettare ai conquistatori il valore della cultura e dell’esperienza storica della sua gente. Per la stesura almeno del primo libro dell’Historia Langobardorum recentemente è stato individuato un termine “ante quem” nel 796, quando venne posta fine al dominio degli Avari sui Gepidi, ancora in corso secondo la narrazione di P. Questo non implica che l’elaborazione dell’opera non proseguì oltre quella data. Secondo certi critici P., avrebbe consapevolmente scelto di terminare il racconto con Liutprando, il re pio custode della pace con i Franchi e con gli Avari, e di non narrare la sconfitta del suo popolo limitandosi a farne cenno nel V libro; secondo altri, alcune incongruenze ed alcune abbastanza evidenti incompiutezze formali almeno dell’ultima parte dell’opera, di fatto attribuibili al sopraggiungere della morte di P., farebbero pensare ad un’incompiutezza dell’opera stessa. Della morte di P. è conosciuto solo il giorno, 13 aprile, riportato dal Necrologio cassinese; circa l’anno le diverse ipotesi, basate solo su argomenti “ex silentio”, oscillano tra il 797, anteriormente alla morte di Teodemaro, ed il 799, maggiormente accreditato nella tradizione secondo la quale P. non era più in vita al momento dell’incoronazione di Carlo Magno al trono imperiale.
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