La biografia di O. da P. non è ben nota nei suoi dettagli, le fonti coeve sono assai limitate e quanto sappiamo su di lui è stato influenzato fortemente da profili di carattere agiografico, tracciati fin dalla metà del Trecento, per essere raccolti in un quadro compiuto alla metà del secolo XVIII, in occasione del processo di beatificazione. Una recente ricognizione medico-antropologica compiuta sul cadavere del beato (2002) ha permesso di stabilire un’età approssimativa al decesso di circa 45/50 anni, il che riconduce la nascita di O. attorno al 1280/1285, data che era stata anticipata al 1265 dal Golubovich sulla base di erronei calcoli rispetto alla cronologia e alla durata dei viaggi e forse anche con l’intento di rendere allusivamente il frate coetaneo di Dante Alighieri. La scelta non era casuale, giacché l’accostamento all’italianissimo Dante mirava a rispondere a una tradizione, per la verità antica (già sostenuta dal cronista Giovanni di Viktring poco prima della metà del XIV secolo), che O. fosse di origine boema. Impossibile verificare o smentire tale tradizione, certo è che O., nei pochissimi documenti coevi che lo riguardano, è detto «de Portunahonis», o, al limite, «de Foroiulio», indicando a diversi livelli di approssimazione una provenienza da Pordenone o dalla regione friulana. Nulla si sa, tuttavia, della sua famiglia. Il cognome Mattiussi (casata del Pordenonese) è un’aggiunta tarda e non fondata. Non si sa nemmeno come e dove egli abbia aderito all’ordine dei frati minori. È comunque verosimile pensare a una vocazione in età giovanile, come normalmente accadeva all’epoca. Allo stato attuale si sono potuti reperire solo due o al più tre documenti che ritraggono O. (se si vuole scartare l’ipotesi pur possibile di un omonimo) vivente e che permettono di aggiungere qualche dato biografico a quelli che si ricavano qua e là dal testo dell’opera per cui è divenuto celebre: la relazione del viaggio in estremo Oriente che egli dettò nel convento del Santo di Padova al confratello Guglielmo di Solagna. ... leggi Il primo è un documento del 12 maggio 1316, nel quale O., con un altro frate e con il guardiano del convento dei minori di Cividale, ascolta la “protestatio” dell’appello fatto da Guido di Manzano contro una decisione di alcuni canonici di Aquileia che si opponevano alla nomina sua e di altri cinque chierici al canonicato aquileiese. Il secondo documento è del 24 marzo 1317, redatto a Castello di Porpetto, ove O. è testimone all’affrancazione di un servo di Artico di Castello. Il terzo, del luglio 1318, presenta qualche maggiore incertezza: un frate Odorico, forse da Pordenone, si trovava nel convento di Portogruaro alla consegna del denaro dovuto dall’abate Branca di Summaga per la procurazione del legato apostolico. La partenza per il lungo viaggio verso l’Oriente non può essere collocata in un periodo anteriore al 1317-1318. Di certo O. aveva già viaggiato in precedenza, sebbene verso destinazioni non tanto lontane. Nel suo resoconto vi sono indizi della conoscenza diretta di Venezia, Padova, Treviso, Vicenza, Ferrara, Bologna: città italiane che vengono comparate con quelle orientali. Questi cenni, comunque, uniti alle suggestioni che si possono derivare dai documenti appena citati (O. si trova a Cividale, Porpetto e Portogruaro: tutte località sede di conventi francescani), alludono a una mobilità continua del frate, che va forse collegata a un suo prestigio personale e allo svolgimento di alcuni incarichi di crescente responsabilità all’interno dell’ordine minoritico. La missione in Oriente, infatti, non può essere concepita come realizzazione di un impulso individuale, di uno slancio verso il martirio o dettato da puro spirito missionario, ma ritenuta l’esito di un incarico specifico, compiuto insieme almeno a un compagno (un frate Giacomo d’Irlanda è detto suo “socius”) e concluso con una relazione finale: il famoso Itinerarium o Relatio. L’opera conobbe una straordinaria diffusione manoscritta latina, ramificata in diverse recensioni (quasi ottanta manoscritti superstiti censiti), con almeno dieci edizioni a stampa a partire dal 1513, e con numerose traduzioni, già trecentesche, in volgare italiano, francese, tedesco, catalano-castigliano e, più recentemente, in inglese e in ceco. La base di partenza di O. fu con ogni verosimiglianza Venezia, da dove salpò alla volta di Trebisonda, sulla costa settentrionale dell’odierna Turchia. Non c’è certezza sulla cronologia di questo percorso, anche se gli studiosi più prudenti tendono a fissare la data della partenza al 1318 e a dare una ricostruzione del percorso che tiene solo parzialmente conto dell’ordine che appare nell’Itinerarium. Arrivato a Trebisonda, descritta come la città difesa da sant’Atanasio, O. proseguì via terra verso Tabriz, Sultanieh, Kashan, Yadz, Ahwaz e fino al porto di Hormuz, verso l’Oceano Indiano. Di tutti i luoghi dà una sommaria descrizione, notandone la ricchezza, la popolosità, la vivacità, segnalando le abitudini degli abitanti e la loro religione. Da Hormuz si imbarcò approdando a Tana a nord est di Bombay, in India. Qui si apre una digressione agiografica, che consente di avere un altro riferimento cronologico abbastanza preciso. O. infatti racconta il martirio di quattro frati minori (Tommaso da Tolentino, Giacomo da Padova, Pietro da Siena e Demetrio da Tiflis), che si sarebbe svolto tra il 9 e l’11 aprile del 1321. Egli recuperò le ossa di tre di essi (non poté trovare il corpo di Pietro da Siena) e le portò come preziose reliquie, fra varie peripezie ed episodi miracolosi, fino in Cina, nella città sede vescovile di Quangzhou. L’arrivo delle reliquie è testimoniato, sia pure senza cenni ad O., da una lettera del 1326 del vescovo francescano del luogo, Andrea da Perugia. Da Tana il viaggio prosegue, anche se in modo non lineare e con alcune ambiguità circa i vettori, nella penisola indiana, toccando la costa del Malabar e Madras, con una digressione di pellegrinaggio a Mylapur, per visitare la tomba dell’apostolo Tommaso, la quale lasciò il frate pordenonese con un senso di delusione, perché la vide caduta nelle mani degli indù e trascurata dai neghittosi cristiani nestoriani. O. riprese il mare per Ceylon, poi verso nord, in direzione delle isole Adamane, Nicobare, Sumatra, Giava, Borneo, forse le Filippine ed altre destinazioni non sempre facilmente identificabili, secondo una rotta che, nell’ordine in cui è riferita, non appare molto razionale. Finalmente l’approdo a Canton, in quella che era detta India Superiore. Il viaggio lunghissimo non ha riferimenti cronologici sicuri per calcolarne la durata. Certamente fu colmo di disagi, sebbene O. tenda a segnalare di preferenza gli aspetti positivi, con episodi di buona accoglienza e di favore incontrato. Egli non manca tuttavia di stigmatizzare credenze e usanze riprovevoli, come l’idolatria, l’antropofagia e la promiscuità sessuale viste e descritte in più luoghi. Giunto a Canton, nel Cathay, il grande impero del Gran Khan, il percorso sembra invece proseguire in modo più veloce, quasi a tappe forzate, in direzione di Quangzhou sede vescovile e di due conventi minoritici (dove lasciò le reliquie dei martiri), Fuzhou, Hangzhou (dove viene accolto da un potente locale, convertito dai frati, e incontra la credenza della metempsicosi materializzata nell’episodio delle scimmie nutrite da un bonzo e ritenute anime di nobili defunti), Nanchino, Yangzhou (sede di un convento francescano) e altre città che sono descritte sempre per la loro grandezza e ricchezza, incomparabilmente più grandi e popolate delle città italiane, attraenti per usanze curiose e nuove, come l’usanza, riscontrata a Yangzhou, di invitare gli ospiti a un banchetto non in casa propria ma in quello che noi chiameremmo ristorante. Finalmente O. e la sua comitiva pervengono a Khanbaliq, l’odierna Pechino, sede dell’imperatore, ma anche sede del metropolita cattolico, l’arcivescovo francescano Giovanni da Montecorvino. Giovanni era partito da Rieti nel 1289 e aveva raggiunto Khanbaliq nel 1294-1295, per non lasciare mai più la Cina. Nel 1307 Clemente V lo nominò arcivescovo e metropolita di tutto l’Oriente (nel 1318 Giovanni XXII creò una nuova metropoli, Sultanieh, affidata a un arcivescovo dei frati predicatori). A lui si deve una intensa, quanto difficile, opera di evangelizzazione, svolta soprattutto tra i cristiani nestoriani, con numerosi battesimi, ma senza mai riuscire a creare un clero indigeno. Pervenuto a Khanbaliq, forse fra il 1322 e il 1325, O. dovette senz’altro incontrare l’arcivescovo e confratello. Ma qui sorge l’interrogativo sul perché, nell’Itinerarium, O. non nomini mai Giovanni (se non, forse, una volta soltanto e allusivamente) e neppure parli di strategie e metodi di apostolato, né delle eventuali difficoltà o successi. Insomma l’azione dei minori in Cina non appare illustrata nel memoriale odoriciano, che al contrario riserva la più viva attenzione nell’annotare e descrivere le meraviglie e lo sfarzo della corte e dei palazzi imperiali, le usanze e i costumi dei popoli, la grandezza e ricchezza delle città e delle terre. O. dice espressamente di essersi trattenuto per tre anni nella capitale imperiale. L’arcivescovo Giovanni da Montecorvino morì nel 1328, consapevole dell’urgenza di ricevere in rinforzo alcuni frati dall’Occidente, per proseguire l’opera iniziata tra mille peripezie, visto che non era riuscito a formare un clero di indigeni. Gli storici dell’Ordine sono concordi nel ritenere O. il prescelto dall’arcivescovo per tornare in Europa con la richiesta di tali aiuti, sebbene ancora una volta non esistano esplicite attestazioni di un simile incarico. Al di là di ogni considerazione sulle motivazioni, O., insieme con il suo “socius”, riprese il cammino verso l’Italia, questa volta prendendo la via di terra, più breve e veloce ma altrettanto rischiosa. Era la celebre “via della seta”, che egli percorse, almeno nel primo tratto, forse protetto da un salvacondotto del Gran Khan. Attraversò le regioni cinesi di Shaanxi, Gansu, Sinkiang, il Pamir, la Persia per tornare nuovamente sul Mar Nero. Nonostante siano improntate a uno stile più sbrigativo, O. non rinuncia alle sue considerazioni e descrizioni relative ai luoghi attraversati, spesso orientate a puntualizzare o a correggere notizie che già circolavano in Europa. Ne è esempio la pagina sul regno del mitico prete Gianni, di cui aveva favoleggiato nel XII secolo Ottone di Frisinga, e che O., insieme con Marco Polo e con Giovanni da Montecorvino, localizza nella Mongolia interna, sulle rive del fiume Huanghe, affermando che non era all’altezza della sua fama. Le osservazioni volte a ridimensionare il mito di questo regno sono normalmente intese come sintomo della sostanziale attendibilità e veracità delle informazioni date da O. Interessante anche ciò che racconta del Tibet: terra di cui descrive le tende dei popoli nomadi, la relativa abbondanza di pane e di vino, la capitale (Lasha) dove risiedeva il “papa dei pagani”, ossia il dalai lama. La presenza di un supremo capo religioso, attento a tutti gli aspetti di vita del suo popolo, non modulava comunque la severità del giudizio morale e la condanna di alcune usanze raccapriccianti, come la necrofagia praticata ritualmente. Il capolinea orientale del viaggio di ritorno fu il medesimo dell’andata: Trebisonda, con il successivo imbarco alla volta di Venezia. Ancora una volta manca qualsiasi riferimento cronologico sicuro, ma si suppone che O. tornasse nella penisola italiana fra il 1329 e il 1330. Alcune notizie lo vogliono diretto verso Avignone, presso la curia papale, per riferire del proprio viaggio e delle richieste di Giovanni da Montecorvino. A Pisa, mentre attendeva una nave per Marsiglia, sarebbe sopraggiunta la malattia che lo costrinse al ritorno in Friuli, per morirvi. O. si spense a Udine nel convento di S. Francesco “de intus”, il 14 gennaio 1331, per le complicanze cardiache dovute a insufficienze respiratorie, secondo il referto della recente ricognizione medica svolta sui resti mummificati della salma. Al di là degli interrogativi circa la verosimiglianza degli ultimi spostamenti di O., da quella data (finalmente una data certa!) comincia un nuovo e diverso capitolo per la sua storia. Da una parte decolla la straordinaria fortuna della sua opera, dettata, come appare nella parte conclusiva di una delle sue recensioni, nel maggio del 1330 a Padova, a frate Guglielmo di Solagna. Dall’altra inizia la fama di O. come santo. La venerazione fu particolarmente vivace a Udine e nel Friuli e fu favorita della devozione manifestata personalmente dal patriarca d’Aquileia Pagano della Torre e dalle autorità civili di Udine. Fin dal giorno del funerale cominciarono a fiorire vicino al corpo e sopra la tomba del frate numerosi miracoli, che furono sommariamente registrati da un notaio. Poi il patriarca Pagano, fra la fine di maggio e il luglio del 1331, costituì una commissione di tre “inquisitores”, composta dal canonico di Udine Meglioranza da Thiene, da Maffeo Cassine e dal notaio Guecello, che in due successivi viaggi raccolse settantadue deposizioni su ventisette miracoli accaduti a uomini, donne e bimbi residenti in Friuli e in Istria (Isola d’Istria, Pirano, Parenzo), dove si era immediatamente allargata la fama di santità di O., forse seguendo i canali della predicazione dei suoi confratelli francescani. La raccolta di miracoli fu esaminata e approvata dal patriarca e divenne di fatto un primo riconoscimento giuridico della santità locale di Odorico. La traslazione e l’elevazione del corpo dalla tomba scavata nel pavimento della chiesa nell’arca sostenuta da colonne commissionata a un lapicida veneziano sancirono poi anche visivamente l’avvenuto riconoscimento della santità da parte della suprema autorità ecclesiastica locale: il patriarca Pagano, che è rappresentato plasticamente sull’arca medesima, insieme con gli altri promotori del culto. Da quel momento O. fu venerato come beato e le sue storie furono illustrate da affreschi nella chiesa conventuale di S. Francesco di Udine. Manca una vera e propria leggenda agiografica, ma alcune notizie biografiche sono state inserite nella Chronica XXIV generalium ordinis Minorum e sono poi transitate nei vari Catalogi sanctorum dell’ordine. Tali notizie derivavano verosimilmente da racconti orali raccolti dai frati. Vista la loro precocità relativa (il primo nucleo appartiene alla seconda metà del Trecento) esse hanno buone possibilità di essere attendibili e hanno costituito la base per i successivi ampliamenti e integrazioni, che giunsero a compimento nel secolo XVIII, quando l’ordine dei minori, insieme con la diocesi di Aquileia e la municipalità udinese, decise di ottenere dal sommo pontefice un decreto di beatificazione, che tenesse conto delle novità giuridiche intercorse a partire dal secolo XVII. Poiché si trattava di un culto pubblico che era stato prestato ininterrottamente per più di cento anni prima dei decreti restrittivi di Urbano VIII (1623 e 1634), si poté adire a quella che si chiamava beatificazione equipollente e che presupponeva un “iter” processuale più veloce. La fase diocesana del processo durò dal 1749 al 1750 e quella apostolica dal 1750 al 1755. Il 2 luglio 1755 Benedetto XIV emise il decreto di conferma del culto “ab immemorabili”. La beatificazione costituì un indubbio momento di ripresa di interesse per la figura di O., che venne sempre più esplicitamente caratterizzata per la sua funzione di missionario in estremo Oriente, tanto da essere nel secolo XX definito “apostolo della Cina”. Si operava per questa via una sorta di aggiornamento dell’immagine odoriciana, che veniva adattata alla nuova e più risoluta ondata missionaria partita in età moderna e accentuata nel secolo XIX. Parallelamente il corpo e il sepolcro del beato furono soggetti ad alcune vicissitudini connesse con le leggi di soppressione degli enti religiosi, prima venete e poi napoleoniche. I frati minori conventuali abbandonarono forzatamente Udine nel 1806 e, dopo alcuni trasferimenti, la salma restò nella chiesa divenuta parrocchiale della Beata Vergine del Carmine, dove tuttora si trova. Momenti di particolare ripresa del culto si ebbero nelle ricorrenze centenarie del 1931 (sesto centenario della morte) e del 1965-1966 (supposto settimo centenario della nascita). Nel 1931 si tracciò a livello diocesano il progetto, già attivo nella curia dei frati minori conventuali, di aprire un processo di canonizzazione per il beato. Si operò in quell’occasione anche una prima ricognizione canonica delle spoglie, che furono ricomposte in una nuova cassa di metallo e vetro. Per diverse circostanze sfavorevoli, la causa non fu poi aperta, nemmeno nella sua fase diocesana. Il progetto non è però mai stato abbandonato ed è stato riproposto negli anni Novanta del XX secolo, quando è stata nominata dall’ordinario di Udine una commissione di periti storici per l’allestimento di un “dossier” relativo alla figura del beato e del suo culto successivamente al 1755. La fase diocesana della causa è stata formalmente avviata il 14 gennaio 2002 e nel medesimo anno si è tenuta un’accurata ricognizione scientifica della salma. Una notevole fioritura di interesse si è avuta anche su un piano storico e filologico, per l’edizione delle varie stesure e traduzioni dell’Itinerarium.
ChiudiBibliografia
La bibliografia su Odorico e sulla sua opera è assai estesa, qui ci si limita pertanto a una campionatura, dalla quale è poi possibile risalire alle altre opere. B. ASQUINI, Vita e viaggi del beato Odorico da Udine, Udine, 1737; G. VENNI, Elogio storico alle gesta del beato Odorico dell’ordine de’ Minori Conventuali, con la storia da lui dettata de’ suoi viaggi asiatici, Venezia, 1761; T. DOMENICHELLI, Sopra la vita e i viaggi del beato Odorico da Pordenone dell’Ordine de’ Minori, Prato, 1881; H. CORDIER, Les voyages en Asie au XIVe siècle du bienheureux frère Odoric de Pordenone, réligieux de saint-François, Paris, 1891; G. GOLUBOVICH, Il beato frate Odorico da Pordenone OFM. Note critiche bio-bibliografiche, «Archivum Franciscanum historicum», 10 (1917), 17-46; A. SARTORI, Odoriciana. Vita e memorie, «Il Santo», 6 (1966), 7-65; G. STRASSMANN, Konrad Steckels deutsche Uebertragung der Reise nach China des Odorico de Pordenone, Berlin, 1968; G.C. TESTA, Bozza per un censimento dei manoscritti odoriciani, in Odorico da Pordenone e la Cina. Atti del convegno storico internazionale (Pordenone, 28-29 maggio 1982), Pordenone, Concordia Sette, 1983, 117-150 (già in «Il Noncello», 55 [1982], 153-204); J. DE VIGNAY, Le merveilles de la terre d’Outremer, traduction du 14e siècle du récit de voyage d’Oderic de Pordenone, ed. D.A. TROTTER, Exeter, University of Exeter, 1990 (Textes letteraires, 75); A. SEDRAN, Il beato Odorico da Pordenone. La sua figura e il suo paese, Villanova di Pordenone, Parrocchia di S. Ulderico, 1993; P. CHIESA, Per un riordino della tradizione manoscritta della Relatio di Odorico da Pordenone, «Filologia mediolatina», VI-VII (1999-2000), 311-350; Libro delle nuove e strane e meravigliose cose. Volgarizzamento italiano del secolo XIV dell’“Itinerarium” di Odorico da Pordenone, a cura di A. ANDREOSE, Padova, Centro studi antoniani, 2000; G. STIVAL, Odorico del Friuli, Padova, Edizioni Messaggero, 2001; A. TILATTI, Odorico da Pordenone. Vita e “miracula”, Padova, Centro studi antoniani, 2004.
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