PILACORTE GIOVANNI ANTONIO

PILACORTE GIOVANNI ANTONIO (1445 - 1521)

lapicida, scultore

Immagine del soggetto

Putti cantori sul fusto dell'acquasantiera scolpita da Giovanni Antonio Pilacorte, 1519 (Beano di Codroipo, chiesa parrocchiale).

Immagine del soggetto

Progetto del Pilacorte per la facciata di una chiesa, 1501 (Udine, Biblioteca civica, Joppi).

In un documento recentemente reso noto da Paolo Goi, il lapicida compare come «Giovanni Antonio Bassini de Pillacurte de Carona de la val de Lugan», da cui si deduce che Bassini e non Pilacorte (appellativo comune, toponimo o patronimico) è il vero cognome del lapicida lombardo. Che tuttavia converrà continuare a chiamare P. sia perché così abitualmente si firma, sia per il fatto che nella letteratura artistica compare solamente con tale nome. Il ritrovamento ha tuttavia una qualche rilevanza perché permette di togliergli definitivamente la paternità dell’esecuzione del portale di Acqui e di lavori a La Calahorra (Cadix) in Spagna a lui assegnati da gran parte della critica. Figlio di Tommaso, il P. nacque a Carona, sul lago di Lugano, intorno al 1455 e dopo un’iniziale formazione in patria, allora ben nota fucina di artisti, si trasferì a Spilimbergo insieme con la moglie Perina, figlia di Orlando di Franchina da Carona, probabilmente sposata nella città d’origine. Nella cittadina friulana tenne bottega e insegnò l’arte a numerosi giovani, tra i quali Pietro di Giovanni Antonio da Carona abitante in Portogruaro. Verso la fine della sua vita, ormai vedovo, dimorò a Pordenone, in casa della figlia unica Anna che aveva sposato il lapicida Donato Casella. Ai loro figli, con testamento del 21 novembre 1531, lasciò ogni cosa. Morì nello stesso 1531 o poco dopo. Numerose sono le località che ancora conservano le sue opere: fonti battesimali, acquasantiere, altari, portali, statue isolate. Autore incostante, pronto a recepire ogni novità per piegarla al suo linguaggio aspro e terragno, altamente espressivo pur nella povertà stilistica, il P. appare talora profondamente gotico ed esuberante nella decorazione, talaltra pervaso da un plasticismo di sapore addirittura romanico, pienamente rinascimentale, infine, nelle opere di più vasto respiro, dove i ricordi della prima formazione, legata ai modi dei Mantegazza e dell’Amadeo, si fondono con la lezione di Pietro e Tullio Lombardo. ... leggi Nella sua vasta produzione, rilevante è certamente l’apporto della bottega, spesso in grado di abbassare la qualità a livello di puro artigianato. I raggiungimenti più alti si registrano nei fonti battesimali della chiesa di S. Pietro a Travesio (1490 circa) il cui fusto è abbellito da tre putti musicanti che, nella tipologia dei volti, si avvicinano a quelli di Agostino di Duccio, del duomo di Spilimbergo (1492-93), impregnato di raffinata ed elegante cultura umanistico-rinascimentale, della chiesa di S. Nicolò a Sequals (1497), nell’acquasantiera della parrocchiale di Beano (1519), anch’essa caratterizzata dall’invenzione di putti addossati al fusto. Motivo decorativo, questo, presente in molti altri manufatti del Friuli, ideati sia dallo stesso P. che da artisti quali Carlo da Carona, Donato Casella o Baldassarre da Meduno, ma anche da anonimi lapicidi lombardi o friulani. Saggio di buona fusione dell’apparato ornamentale con la struttura architettonica è la Cappella del Carmine del duomo di Spilimbergo (1498), la cui balaustra rappresenta l’opera più spettacolare del P., non tanto per le dimensioni, invero modeste, né per la particolare invenzione di fregi o motivi decorativi, quanto invece per la finezza d’intaglio e la generale bontà d’esecuzione, che si esalta nelle figure dei quattro angeli reggicandelabro, pregevoli per grazia espressiva e classica compostezza. L’artista sembra qui richiamare sia la cappella di S. Sigismondo di Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano di Rimini (1448 circa) sia la balaustra del coro pensile di S. Maria dei Miracoli di Venezia dovuta a Tullio Lombardo. Il tipico portale della produzione pilacortiana è quello che vede architrave e spesso anche stipiti decorati con testine di cherubini alati (dolci nell’espressione, ma nelle opere meno sentite vecchiuzzi nel volto ed inespressivi): così nelle chiese di Gaio di Spilimbergo (1490), del cimitero di Sedegliano (1497), di S. Nicolò di Sequals (1503), di S. Maria del Latte a Zancan di Travesio (1505), delle parrocchiali di Flaibano (1506) e di Camino al Tagliamento (1507 circa), di S. Giorgio ad Arcano (1515). Gli stessi compaiono anche nel disegno conservato nella Biblioteca civica di Udine (1501), ritenuto il progetto per la facciata del duomo di Pordenone. Di maggior spessore qualitativo, il portale della chiesa di S. Maria dei Battuti di San Vito al Tagliamento (1493), che evidenzia nella lunetta la particolare sicura e vigorosa maniera del P. di intagliare la pietra, sì da determinare lo spezzarsi dei piani con spigoli netti e taglienti, e il portale del duomo di Pordenone (1511), arricchito negli stipiti da una abbondante decorazione rinascimentale (che cela anche la sigla dell’autore), con i simboli dello Zodiaco, unicum iconografico in Friuli, e la raffigurazione di alcuni episodi della Genesi che nel complesso rendono singolare l’iconografia e propongono un complesso discorso astrologico-teologico. Interessante anche il portale della parrocchiale di Gradisca di Sedegliano (1515) con lunetta raffigurante il Martirio di S. Stefano realizzato con l’insolita tecnica dello stiacciato ed in alcune parti addirittura del graffito, il che può considerarsi un impoverimento dell’invenzione donatelliana filtrata attraverso Agostino di Duccio ed altri scultori. Tra gli altari, modesto quello della chiesetta di S. Nicolò a San Giorgio della Richinvelda (1497), che si presenta però ancora ricoperto della coloritura originale; in linea con i tempi quello della parrocchiale di Villanova di Pordenone (1520) con volute che raccordano all’inferiore la parte superiore e pilastrini e trabeazione minutamente intagliati; imponente, e tale da rivaleggiare con i coevi altari lignei, quello della pieve di San Martino d’Asio, eseguito tra il 1525 ed il 1528, accattivante per l’inconsueta plasticità delle figure ma fragile nella sua impaginazione architettonica, giacché spesso le linee non sono in asse e l’unità d’insieme è inficiata visivamente dall’eccesso di ornamentazione determinato dalla scomposizione dell’opera in riquadri. L’ultimo lavoro firmato dall’artista è un altare nella chiesa di Rosa di San Vito al Tagliamento, smembrato nella parte architettonica, ma integro nelle statue della Madonna con Bambino e dei SS. Giovanni Battista ed Evangelista: è datato 1530.

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Bibliografia

JOPPI, Contributo quarto, 123-124; A. GIUSSANI, Lo scultore Giovanni Antonio Pilacorte da Carona, Como, 1914 [estratto da «Rivista Archeologica della Provincia e antica Diocesi di Como», fasc. 67-68-69 (1913)]; C. SOMEDA DE MARCO, Architetti e lapicidi lombardi in Friuli nei secoli XV e XVI, in Arte e Artisti dei Laghi Lombardi, II, Como, Noseda, 1959, 309-342; G. BERGAMINI, Giovanni Antonio Pilacorte lapicida, Udine, SFF, 1970; P. GOI, Lapicidi del rinascimento nel Friuli occidentale, San Vito al Tagliamento, Ellerani, 1973; G. BERGAMINI, Architetti e lapicidi ticinesi in Friuli nei secoli XV e XVI. 4-14 febbraio 1984, Castello Visconteo di Locarno [Catalogo della mostra (Locarno, 4-14 febbraio 1984), a cura di G. BERGAMINI], Udine, AGF, 1984, 20-29, 31-35; P. PARIGI, “Pillacorte faciebat”: il programma iconografico del portale del Duomo di Pordenone, «Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura», 3/6 (1993), 9-30; P. GOI, Lapicidi lombardi a Tolmezzo: verifiche e considerazioni, in Tumieç, 596-611.

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