T. D. è stato il maggiore giurista friulano del XVI secolo. La storiografia degli ultimi due secoli che si è applicata a studiarne il pensiero lo indica senza dubbio come uno dei fondatori della scienza penalistica moderna. Importanti passaggi della sua biografia, della sua formazione e del suo percorso professionale oltre che intellettuale hanno ricevuto, anche in tempi recenti, attenzione e approfondimento da parte degli storici consentendo così di ricostruire in maniera abbastanza documentata la sua vita e di disporre di una aggiornata riflessione sulla sua opera. Il D. nacque a Udine il 3 agosto 1509 da Gianfrancesco e Franceschina Masero. La famiglia, di origini carniche, si distinse nella città di Udine per l’esercizio, già da qualche generazione, di professioni liberali, legate alla formazione giuridica: il nonno di T., Nicolò, fu notaio e cancelliere della città (1426-1482), il padre, addottorato in utroque a Padova e lettore di diritto feudale presso lo stesso Ateneo, venne ascritto al libro d’oro della città nel 1518, completando così il percorso di ascesa sociale della famiglia. La sua formazione giovanile si compì nel vivace ambiente udinese della prima metà del Cinquecento dove conoscenze giuridiche e cultura erudita erano strettamente intrecciati nella fisionomia intellettuale di molte figure di spicco della scena culturale cittadina. Crebbe alla scuola pubblica udinese con l’insegnamento di umanisti della statura di Giovanni Battista Privitelli (che sarebbe stato poi suo collega a Padova), di Girolamo e Gregorio Amaseo e rimase legato da interessi e formazione comune anche negli anni successivi al notaio Antonio Belloni e al genero di questo, il classicista e filologo Francesco Robortello, come testimonia un ricco epistolario. ... leggi L’impronta umanistica della sua formazione ne determinò il gusto per le lettere e le arti che coltivò anche più tardi, negli anni padovani, dedicandosi alla raccolta di monete antiche e alla collezione di libri e di dipinti, manifestando sempre interesse per una più ampia cultura letteraria, storica e filologica che completava quella giuridica caratterizzante la sua biografia intellettuale e professionale. Avviato infatti allo studio della giurisprudenza, compì il suo cursus studiorum nell’Ateneo patavino sotto il magistero di illustri giuristi tra i quali Marco Mantova Benavides, addottorandosi, dopo sei anni di corso, in diritto civile il 19 aprile 1529 e successivamente in diritto canonico. Ritornato a Udine, nel 1530 si sposò con Maddalena Antonini, discendente di una delle famiglie del patriziato che più si sarebbero messe in vista nei decenni successivi nella vita economica e culturale della città. Il D., come molti del suo ceto, iniziò la sua carriera pubblica nelle magistrature cittadine, ricoprendone anche le cariche maggiori tra cui quella di deputato “ad regimen” (1537, 1540, 1542) e rappresentando in diverse e importanti circostanze la città: «sempre egli era uno de’ destinati a portarsi in nome pubblico», scrive il Liruti, ricordando le sue azioni presso le magistrature di governo per perorare le ragioni della comunità udinese e chiedere in più occasioni, nel corso degli anni Trenta, la revoca di provvedimenti penalizzanti in materia fiscale ed economica. Ma anche in importanti cerimonie la città scelse di farsi rappresentare ufficialmente da lui, come per l’omaggio a Carlo V nel 1532 o, successivi, in occasione dell’elezione del nuovo doge nel 1545; incarichi di rappresentanza minori e successivi, come l’insediamento del nuovo provveditore a Cividale nel 1553, testimoniano del legame che sotto molti profili il D. avrebbe sempre intrattenuto con la sua terra d’origine. Tuttavia, negli anni Quaranta del Cinquecento le opportunità di carriera e la rete di relazioni intessute portarono il giurista udinese a spostare con prevalenza l’asse dei suoi interessi verso la Dominante, facendogli prendere casa a Venezia nel 1544. Due anni più tardi, nel 1546, assisteva nell’ufficio di assessore il podestà di Vicenza, Lorenzo Venier; l’anno successivo era a Padova, a fianco di Bernardo Navagero; nel 1550 a Verona sempre come assessore con Francesco Venier che qualche anno più tardi sarebbe diventato doge. I ruoli di assessore giudiziario, giudice che affiancava il rettore nei tribunali maggiori della Terraferma veneta, mettono in luce la considerazione di cui godeva la preparazione del giurista udinese ritenuto – come gli altri maggiori giuristi reclutati tra il ceto legale delle città soggette – supporto tecnico e professionale indispensabile al rappresentante politico veneziano nell’amministrazione della giustizia. La visibilità che si era guadagnato presso il governo marciano e l’opportunità che durante il soggiorno padovano ebbe di rinnovare i legami con l’ambiente universitario possono spiegare l’esordio della sua carriera di docente. Il 19 gennaio 1549 il Senato veneziano deliberò infatti di affidargli la lettura che era stata di Marco Bianco, vacante per la malattia di quest’ultimo, lettura di diritto criminale o meglio di quella parte del diritto civile che riguardava i delitti. Iniziò con il conferimento di questa nomina e con uno stipendio non elevato, di 200 fiorini, la carriera docente del D. che avrebbe insegnato a Padova fino alla sua morte con una progressione che crebbe parallelamente al largo consenso che le sue lezioni venivano riscuotendo tra gli studenti. Dopo la prima nomina egli si vide conferire nel 1552 la seconda cattedra di diritto civile ordinaria della mattina, diventando così a pieno titolo collega del suo maestro, Mantova Benavides e quando nel 1570 quest’ultimo passò alla cattedra di diritto canonico e poi nel 1572, ormai anziano, lasciò l’insegnamento, il D. assunse il primo luogo di diritto civile. La progressione degli stipendi che alle riconferme gli vennero attribuiti segue la linea ascendente della sua fama: i 500 fiorini attribuiti nel 1552 diventarono 700 nel 1556, 900 nel 1560, 1100 quattro anni più tardi e 1000 scudi nel 1570 e fino alla sua morte. Per quanto emerga con chiarezza dalla sequenza degli incarichi pubblici, va sottolineato il carattere peculiare della competenza giurisprudenziale del D. e la natura pratica della sua formazione: sarebbe stata proprio questa a fargli meritare la nomina a docente, nella prospettiva della politica veneziana di rilancio degli studi giuridici all’Ateneo di Padova e di un loro più proficuo collegamento con la funzione applicativa. Elemento di novità va considerato infatti quanto espresso nella motivazione del Senato dove si sottolineava proprio la sua capacità di unire una solida preparazione teorica con l’esperienza interpretativa del diritto, la dottrina con la pratica. Un’intensa attività consulente percorre infatti tutto l’arco della sua vita professionale. La difesa legale di Cittadino della Frattina, nobile friulano, imputato di aver istigato il proprio servo ad aggredire Annibale Emiliano nel 1540; il parere che negli anni Sessanta stese a difesa delle accuse di eresia che gravavano sul patriarca di Aquileia Giovanni Grimani e ne ostacolavano (e ne avrebbero in via definitiva ostacolato) l’acquisizione della porpora cardinalizia; i “consilia” che nel 1572 e nel 1577 redasse per la Repubblica di Genova relativamente ad alcune controversie feudali che la opponevano ai Fieschi o quelli che sarebbero stati richiesti dagli Este e da Firenze per questioni di precedenza costituiscono solo degli esempi e servono a fornire sommaria misura della vastissima e quanto mai varia produzione consiliare del giurista udinese il cui parere veniva ricercato da soggetti sociali, politici e istituzionali di ogni ordine, anche dagli imperatori Massimiliano e Carlo V. La biografia professionale del D. mostra quanto paradigmatica sia la sua figura. Rappresentante di primo piano o, meglio, caso esemplare di quella fase cinquecentesca del diritto a forte matrice giurisprudenziale nella quale l’attività di “interpretatio” del giurista si estende ad ogni livello: dai tribunali, alle aule universitarie, alla consulenza a sovrani, D. è anche un sostenitore in via teorica della funzione dei “consiliatores”. Nel 1579, quando era ormai settantenne, uscivano a Venezia i primi tre tomi dei Responsa; i successivi due tomi sarebbero stati pubblicati postumi a Udine nel 1594. L’opera – la prima di una certa consistenza ad essere edita, se si eccettuano consilia sparsi ed esercitazioni poetiche d’occasione come quella al Tempio di Girolama Colonna d’Aragona cui parteciparono altri illustri friulani come il più giovane giurista Alfonso Belgrado – raccoglie in quattrocentosettantasette “responsa” l’ampissimo ventaglio di fattispecie cui il D. si applicò, a volte assieme ad altri giuristi che in calce firmano assieme a lui il parere. Per la maggior parte privi di datazione, i “consilia” sono introdotti dall’argomento che hanno per oggetto e da un indice. Il D. dedicava la sua fatica al patriarca Giovanni Grimani e vi poneva in appendice una trattazione sull’ufficio di consulente, una vera e propria difesa della sua funzione nel sistema di diritto del tempo, un’autogiustificazione della decisione di dare dignità di stampa ai consilia. L’Apologia pro iuris prudentibus qui responsa sua edunt imprimenda si proponeva di essere una risposta frontale, seppur tardiva, ad uno scritto dell’illustre giurista Andrea Alciato: adversus dicta per Alcia tum Parergon Lib. XII. Cap. ult. recitava in fatti la prosecuzione del titolo. Alciato, morto ormai da qualche decennio, aveva denunciato in quelle pagine, edite postume nel 1554, la corruzione che la preponderanza della prassi e la sempre più dilagante attività consiliare venivano arrecando alla professione giuridica e il danno che ne derivava alla scienza del diritto per effetto dell’attività interpretativa sempre più estesa e pervasiva dei consultori, che sosteneva e riproduceva il sistema di diritto giurisprudenziale. D. intendeva controbattere alle posizioni del massimo rappresentante della scuola culta sottolineando il valore delle collezioni di responsi che, nella sua opinione, riflettevano la realtà giuridica in maniera più fedele rispetto alle opere di dottrina, difendendo così la sostanziale preminenza del sistema del “mos italicus”, la sua funzione creatrice di diritto in rapporto alla posizione filologicamente ineccepibile ma teorica dei sostenitori del “mos gallicus”. Per far ciò si addentrava anche a precisare le differenze – per quanto in forma oscillante secondo le argomentazioni – tra “consilia” e “allegationes” la cui sovrapposizione nell’ambito della prassi giuridica si mostrava sempre più problematica. Tuttavia la fama del D. è soprattutto legata ad un’altra opera, il Tractatus criminalis, opera che lo colloca nel pantheon della dottrina penalistica del secolo XVI e tra i padri di quella disciplina. Il Tractatus comparve alle stampe qualche anno dopo la sua morte per interessamento del figlio primogenito Nicolò, anch’egli giureconsulto. La prima edizione uscì a Venezia nel 1590 ma, già a partire dall’anno successivo, fu più volte ristampato fino all’ultima edizione del 1614. L’opera si compone di nove libri e la materia è sistematicamente ordinata in titoli, capitoli e paragrafi. La trattazione si presenta divisa in una parte generale in cui vengono approfonditi gli aspetti lessicali e terminologici, i concetti e le categorie, le circostanze, le pene, le fonti e una parte nella quale le diverse fattispecie di delitto vengono elencate non in ordine alfabetico, come era facile riscontrare in altri repertori, bensì secondo un ordinamento sistematico anche se incompleto per l’assenza di alcuni tipi di reati. Dal Tractatus traspare la cultura giuridica ed extragiuridica del D.: solida conoscenza della letteratura e della dottrina, dei contesti storici, della casistica e la costante attenzione a coniugare la teoria con la prassi. Secondo gli orientamenti culturali del momento gli storici si sono divisi nell’esaltare o sminuire il valore teorico e storico del trattato, nel sottolinearne il carattere inedito o piuttosto nel rimarcarne i limiti, insiti nella tradizione giuridica del suo tempo. Al testo viene comunque riconosciuto il merito di proporsi come il primo «a rispecchiare l’autonomia didattica e scientifica conquistata nell’università dal diritto penale [e] quello d’aver rappresentato, con le sue costruzioni dogmatiche, un punto di riferimento obbligato e ricorrente per ogni criminalista» (Spagnesi). Altre opere, per quanto minori, sono segnalate dai biografi. In particolare il Liruti conservava tra le sue carte alcune orazioni pronunciate dal D. nell’occasione delle sue nomine ai diversi insegnamenti padovani o per la laurea dottorale del figlio Gianfrancesco, anch’egli avviato allo studio e alla pratica del diritto, un volume di responsi e altre scritture, giuridiche e non. Da segnalare l’importanza, per la storia friulana, dell’intervento di commento e annotazione ai capitoli delle Costituzioni della Patria del Friuli conservato con il titolo di Apostille super Patriae nostre constitutionibus, attribuito al D.; si tratta di un fascicolo di 31 carte legato assieme ad altre Adnotationes et dubia sullo stesso corpus normativo del giureconsulto udinese Filippo Caimo. Il D. morì a Padova, all’età di settantatre anni, il 7 febbraio 1582. Fu sepolto nella chiesa dei Carmini dove venne posto un busto opera dello scultore Francesco Segala, uno degli artisti più apprezzati dell’ambiente padovano del tempo, secondo la volontà che lo stesso D. aveva manifestato nel suo testamento, qualora fosse morto in quella città; se invece fosse mancato a Udine aveva fatto espressa richiesta di essere sepolto nella chiesa di S. Pietro. Non molto tempo prima della sua morte il giurista udinese aveva contratto un secondo matrimonio con la nobile padovana Caterina Ariani, vedova Leonessa. Il lungo testamento, steso il primo settembre 1579, ricca testimonianza circa il suo patrimonio mobile ed immobile, lascia intravedere la possibilità di una situazione conflittuale tra gli eredi della sua fortuna – da un lato i figli del primo matrimonio, dall’altro la moglie e il figliastro Giovanni Leonessa – dato che molto dettagliate risultano essere le clausole a protezione del godimento di alcuni beni e diritti da parte dei secondi, particolarmente per ciò che riguardava i beni padovani. Fatte salve queste limitazioni, eredi universali risultavano i tre figli maschi nati dal matrimonio con la Antonini: Nicolò, Gianfrancesco e Roncadino e la loro linea di discendenza maschile protetta dall’istituzione di un fedecommesso che per le donne escludeva in ogni caso e molto chiaramente ogni possibilità di ereditare. In assenza di discendenza maschile tutti i suoi beni avrebbero dovuto essere legati infatti alla fraternita della Vergine nel castello di Udine.
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Lettere a Tiberio Deciani nell’epistolario di A. Belloni, mss BCU, Principale, 505; 1038, Apostille super Patriae nostre constitutionibus olim Celeberrimi D. Tiberii Deciani J. C. utinensis, comitis et equitis; Ibid., 154, Scrittura legale prodotta dal giureconsulto Tiberio Deciano in causa criminale in difesa del nobile Cittadino della Frattina, 1540, 16 giugno; ASU, Liruti, 11, Consilia, e altri manoscritti segnalati nello stesso fondo.
T. DECIANI, Responsorum clarissimi ac celeberrimi iuris utriusque consultissimi d. Tiberii Deciani Utinensis volumen primum [-tertium], Venezia, Zenari, 1579; ID., Tractatus criminalis d. Tiberii Deciani utinensis […] duobus tomis distinctus […], Venezia, Zenari, 1590; ID., Responsorum […] volumen primum [-quintum], Udine, Natolini, 1594.
L. e G. AMASEO - G. A. AZIO, Diarii udinesi dall’anno 1508 al 1541, a cura di A. CERUTI, Venezia, Visentini, 1884, indice; LIRUTI, Notizie delle vite, III, 376-398; P. ANTONINI, Di Tiberio Deciani, celebre giureconsulto udinese. Notizia intorno alla vita ed agli scritti di Francesco Deciani, Udine, Del Bianco, 1900 (prima ed. Bassano, Tip. Baseggio, 1858); A. MARONGIU, Tiberio Deciani (1509-1582), lettore di diritto, consulente, criminalista, «Rivista di storia del diritto italiano», 7/1 (1934), 135-202; 7/2 (1934), 312-387; G. BARBIERI, Spunti di naturalismo economico in un giurista italiano del ’500: Tiberio Deciani, Milano, Giuffrè, 1939; L. LOMBARDI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, Giuffrè, 1975, 135-140; MARCHETTI, Friuli, I, 261-265; E. SPAGNESI, Deciani, Tiberio, in DBI, 33 (1987), 538-542. Arricchimenti sulla famiglia e la vita di T. D. a partire da documenti conservati ancor oggi presso i discendenti vengono da: L. CARGNELUTTI, Documenti di casa Deciani, in Tiberio Deciani 1509-1582. Alle origini del pensiero giuridico moderno, a cura di M. CAVINA, Udine, Forum, 2004, 11-36; C. FURLAN, Per Tiberio Deciani collezionista, in EAD., Da Vasari a Cavalcaselle. ... leggi Storiografia artistica e collezionismo in Friuli dal Cinquecento al primo Novecento, Udine, Forum, 2007, 25-52 che pubblica in Appendice, 36-52, e per cura di L. CARGNELUTTI il lungo testamento autografo di Tiberio Deciani. Per lo stato più aggiornato dell’interpretazione storiografica sull’opera criminalistica e consulente del D. nel quadro europeo del diritto comune si può fare riferimento ai saggi che compongono il volume curato da M. CAVINA e sopra citato, a cui rifarsi anche per gli studi precedenti e a M. PIFFERI, Generalia delictorum. Il «Tractatus criminalis» di Tiberio Deciani e la «Parte generale» di diritto penale, Milano, Giuffrè, 2006.
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