Ottavo dei nove figli di Orazio e Lucia di Porcia, E. nasce il 28 marzo 1622 nel castello di Colloredo di Monte Albano. Deve la sua prima istruzione al padre, «uomo non privo di cultura; in gioventù s’era distinto a Roma e si diceva che il matrimonio l’aveva sottratto ad una promettente carriera ecclesiastica» (Benzoni). Dal 1637 al 1644 è a Firenze, presso i Medici, insieme con i fratelli Camillo e Curzio e il cugino Ciro di Pers, dove compie, con qualche insofferenza, con attese non appagate, il necessario tirocinio e dove affina la propria personalità, che si direbbe scontrosa e inquieta. Alla corte dei Medici, con rango marcato, si trova un altro Colloredo, Fabrizio. Per lunghi anni paggio, nonostante le iterate sollecitazioni, solo il 14 maggio 1644 E. può ringraziare, da Gorizzo, per la nomina a gentiluomo di camera del granduca. A connotare quello che resta del carteggio (e tratti della futura poesia) sono intemperanze e recriminazioni, ombrosità e giudizi acrimoniosi, il bordone della amarezza, che peraltro assimilano spunti topici (come la taccagneria dei toscani) in un gioco dunque già mediato, spia di relazioni non così grette e opache. Il soggiorno fiorentino, decisivo per l’inevadibile apprendistato, è capitale anche per l’orientamento del gusto. Gli esordi della scrittura si muovono nel perimetro della corte, a fissarne, magari sublimando, gli «spassi» della caccia, che evocano e insieme anticipano la pausa ritemprante della villa, il distacco dalle incombenze della vita attiva: «Il Serenissimo Gran Duca mi disse, che io li scrivessi gli spassi che per sua benignità riceviamo nelle caccie, quando sono belle giornate; e poiché soggiunse, che io li mandassi parte delle mie prede, obbedisco con pregarla, ad accettar due lepre non le reputando io parte del mio valore per esser cacciator giovane, ma parti de’ favori che Sua Altezza Serenissima ci fa» (Ciceri). Così una lettera, datata da Cerreto il 14 dicembre 1638, di un E. sedicenne al più illustre Fabrizio. ... leggi Non è che uno spiraglio e la cronaca suggerita dal granduca si riduce a un cenno magro, a un programma enunciato: il tema delle «Caccie, quando sono belle giornate» non viene svolto e si affida all’evidenza plastica della preda offerta in dono. Ma contano le coordinate e la stessa gerarchia, il ruolo comunque non autonomo (pur se qui si tratta di missiva privata) rivestito dalla scrittura. Anche i versi dell’età adulta si piegheranno alla funzione gregaria dell’omaggio, alle esigenze sottili delle buone maniere. Una ideologia letteraria che sembra ancorarsi precocemente. Lasciata la Toscana, E. è in Germania, nel reggimento del fratello Giovan Battista, all’esaurirsi della guerra dei Trent’anni. Passa poi al servizio della Repubblica di Venezia e si porta in Dalmazia, a capo di una compagnia di “corazze” (delibera del Senato del 28 marzo 1648), dando prova ad ogni modo (anche in seguito, quando i suoi spostamenti diventano di non facile definizione) di non formidabili capacità organizzative: valutazioni critiche e perplesse dei vari provveditori della Serenissima, una conflittualità aperta o latente, assenze più o meno vistose. Una vicenda che si sfilaccia frustrante e senza acuti, senza episodi cospicui. Dal 1658 ha inizio il protratto “idillio” nella villa di Gorizzo, cornice di incontri conviviali, di schermaglie letterarie, ed è a questo luogo e a questo tempo che si assegna tradizionalmente gran parte dei testi friulani. I distacchi non sono di rilievo, se si prescinde da un fugace soggiorno a Vienna, viaggio intrapreso nell’aprile del 1659, che nel resoconto metrico risulterà, come il filone richiede, infelice, chiave di una nostalgia inguaribile, pretesto di un ritratto grottesco e ingeneroso della corte, delle sue comparse meschine, occasione per proclamare con voce robusta l’istinto insopprimibile della libertà, come del resto esige l’istituto satirico. Ma nel dicembre del 1659 E. è di nuovo a Gorizzo, pur se le velleità di una sistemazione viennese saranno archiviate solo qualche anno dopo, ad accertare una volta di più il carattere cartaceo della negatività del ragguaglio. Gorizzo è anche teatro di una relazione duratura. Maddalena Salvadori, che muore nel 1663, gli dà tre figli: Alessandro, che nel 1732 risulterà padrino di battesimo, Annamaria e Caterina, per le quali non si hanno ulteriori riscontri documentari. Sulla verità biografica delle bizze sentimentali inscenate nei versi, sulla loro sincerità, sul loro effettivo snodarsi, è opportuno non indugiare: per i principi letterari del secolo, che da questi risvolti prescindono, postulando non l’autenticità, ma il guizzo inventivo, il riscontrabile artificio retorico. Ma, a dispetto della morale professata nella poesia, E., ormai quarantottenne, nel 1670, sposa Giulia, figlia di Giacomo Savorgnan del ramo d’Osoppo e sorella dell’amico Girolamo, ventiduenne, per quanto nei versi galanterie anche accese e ammicchi sornioni non vengano meno. Non vi si accampa invece Giulia, fatto salvo un cenno marginale: con ineccepibile coerenza. Sergente maggiore delle cernide, un titolo onorifico dovuto alle prestazioni in Dalmazia, E. siede in parlamento nel 1684, 1688 e 1692. Nel 1663, 1665, 1676, 1677, 1682 e 1684 è deputato della Patria, nel 1684 è a Venezia, a perorare un alleggerimento dei gravami fiscali. Nella scrittura si deposita il fastidio per un incarico assunto nel 1676: “ratadôr” suo malgrado, con lo spinoso compito di verificare la ripartizione delle quote del sussidio, la più antica tra le tasse imposte dalla Repubblica. A dispetto delle riluttanze e del sussiego, la partecipazione alla vita pubblica, spesso di facciata, regge fino ai giorni estremi, pur se di E. interessano solo le rime, riservate in prima istanza a una cerchia di amici complici e anagraficamente concreti. Quasi a sigillo dei modi della ricezione, la morte del poeta, avvenuta a Gorizzo il 21 settembre 1692 per calcolosi, dà voce a compianti che non eludono il taglio burlesco (Giusto Fontanini e Ciro di Pers, nipote omonimo del poeta). Tornerebbe certo redditizio un profilo della critica, specchio del mutare dei tempi: entusiasmi e sordità, ma anche archivio di idee vitali, deposito di rilievi in grado di animare con frutto l’indagine attuale. Basti uno scampolo da un vecchio studio di Ferruccio Carreri: «È il C. un poeta valente e fortunato che imprime del suo carattere l’intiera letteratura del suo paese. Per me infatti è letteratura la manifestazione artistica d’una parlata che è ben distinta dalle confinanti italiane, slave e tedesche. Così grande fu la fortuna del C. che tutti coloro che ignorano i più antichi monumenti di quel ladino possono credere che la potenza creatrice ed assimilatrice dei friulani cominci e finisca nel C. per non più rinverdire che con Pietro Zorutti nel nostro secolo. Gli altri poi che conoscono i documenti artistici che precedono, accompagnano e seguono il nostro poeta, rivolgono essi pure tutta l’attenzione a lui, esaltato dall’allegra brigata de’ compagnoni non meno che dalla potenza del suo ingegno». Dove emerge nitido il polarizzarsi della poesia friulana attorno ai nomi di E. e Zorutti, apparentemente allineati nel rispetto della cronologia. E dove non manca di colpire l’idea di una letteratura corollario di una risentita autonomia linguistica. Carreri giunge a più impegnative asserzioni sulla individualità regionale, armoniosa sintesi di «spirito nordico» (che vale scrupolo metodico, introspezione, espansività contratta) e «coltura del mezzogiorno» (solare e ariosa, estroversa e “classica”), ma si impone la tesi perentoria: E., con l’abbondanza, con la varietà dei registri praticati, che ignorano confini tematici e stilistici, raccoglie ed elabora l’intera tradizione. Nel brano occhieggia perfino una «allegra brigata de’ compagnoni», un tocco forse spiccio, ma che ritaglia comunque un contesto, un pubblico non astratto e virtuale. Quella di E. è poesia che accetta il rito dell’effimero, di una mondanità pur ritrosa e selettiva, mai risolta nel gesto solitario. Singolare per finezza puntigliosa è la lettura del ritratto, antiporta dell’edizione Murero: «La persona del vivace poeta spicca sull’aperto e ricco padiglione militare e si mostra fino alle ginocchia. Il viso è sbarbato e incorniciato da una colossale parrucca priva di ricci e sotto il mento scende il goletto di merletti ribattuto. Il corpo svelto ed aitante è serrato nell’armatura completa e grave, e l’elmo piumato con la buffa rialzata sta sopra una tavola a cui la mano destra ignuda e fine del cavaliere si appoggia trastullandosi con una grossa chiave, simbolo di sua dignità. L’altra mano guantata quasi si nasconde marzialmente dietro il fianco presso l’impugnatura della spadaccia; ma tutta la posa è nobilmente sicura e con la sua semplicità contrasta alla spavalderia del secolo. Ritorno con vera compiacenza alla faccia. D’un perfetto ovale mostra amplissima ed alta la fronte, occhi di taglio bellissimo, larghi, fermi, ed arguti, carattere da me spesso notato nella nobiltà friulana; giusto il naso discende sovra una bocca che appare atta alla beffa graziosa non meno che al canto d’amore e al rotto imperio guerresco» (Carreri). Palpabile l’adesione calda, una simpatia partecipe ed elativa (che si rileva in particolare negli attributi legati in dittologia: «aperto e ricco», «sbarbato e incorniciato», «svelto ed aitante», e via via; ma gli «occhi di taglio bellissimo» dettano il ritmo ternario: «larghi, fermi, ed arguti»). E non si hanno fratture tra il virile esercizio delle armi e quello meno aspro delle lettere, armonizzati in unità senza scorie: «La persona del ‘vivace poeta’ spicca sull’aperto e ricco ‘padiglione militare’ […]» e alla fine, a serrare ad anello, «[…] bocca che appare atta alla beffa graziosa non meno che al ‘canto d’amore’ e al rotto ‘imperio guerresco’». La cronologia dei versi (e quindi il nesso con la maglia biografica) è, tra i tanti nodi, uno dei più spinosi, pur se si tende tradizionalmente (e non senza verità) a dislocare la scrittura negli anni tardi, che si qualificano come riposo del guerriero, conquistato idillio nel “buen retiro” di Gorizzo. Ma, per l’argomentare di Carreri, è la nobiltà del sangue a garantire la composizione serena di armi e scrittura, e importa a questo punto forzare il senso del ritratto. Anche la poesia si regge su pregiudiziali aristocratiche ed è governata dalle regole di un galateo esclusivo, di una liturgia comunque accademica: non è “democratica” neppure quando affonda in una topica plebea e terrosa, magari scurrile, quando rende protagonista l’ingenuità (tutta riflessa e intellettualistica, se non ipercaratterizzata) del contado. Un cerchio chiuso. Nella storia degli usi scritti del friulano l’avventura di E. ad ogni modo è in tutti i sensi straordinaria. E straordinario è il peso delle sue fortune postume. Un paio soltanto i sonetti a stampa in vita, ma è subito ampia la circolazione dei testi, verosimilmente anche orale. I destinatari spaziano fino a coprire buona parte del dominio friulano: da Codroipo a San Daniele, da Osoppo a Udine, per raggiungere Gorizia. Una dimensione senza possibilità di confronto. Complessa è la tradizione manoscritta. Eloquenti gli stessi frontespizi: Raccolta di sonetti, canzoni, e dialoghi ed intermezzi in lingua friulana del sig. conte Ermes di Colloredo nuovamente corretta ed ampliata, Udine 1772 (Biblioteca del seminario di Udine), Raccolta delle poesie in lingua friulana del signor conte Ermes Colloredo nuovamente ampliate e corrette, in Udine l’anno MDCCLXXIII (manoscritto, Biblioteca comunale di Udine, Fondo Principale, 344). Si badi: «nuovamente corretta ed ampliata», «nuovamente ampliate e corrette». L’esercizio della copia non è inerte, non segue il criterio della fedeltà, ma accresce la raccolta e la emenda, condannando alla perdita i testimoni anteriori, cestinati come superflui, come in qualche modo superati. Nel corpus confluiscono via via, per la statura riconosciuta al poeta, anche prodotti estranei, strappati ad altra paternità o assorbiti dal patrimonio popolare, e la fisionomia autentica di E. sfugge a una verifica adeguata. Lo zelo non propriamente amatoriale implica ad ogni modo un processo di canonizzazione, sanzionato nel 1785 con l’edizione Murero. L’iniziativa è circospetta, oculatamente guardinga e non si sbilancia nell’ottimismo: «lo stampatore, che non ha idea di stampare più di 500 copie, dice, e credo non vada lungi dal vero, che queste verranno assorbite dai puri friulani, senza aver bisogno di ricorrere a’ sigg.ri forastieri, i quali, non avendo cognizione del nostro dialetto, poche copie ne potrebbero consumare, o al più qualcheduna venirebbe ricercata per riporsi nelle publiche, o anche private magnifiche librerie di prencipi e gran signori, per la novità della cosa; ma da pochi altri si può sperare lo spaccio». Così Giambattista Mangano, «un tecnico di tipografia» secondo una ipotesi di Vincenzo Joppi, qualifica forse riduttiva, nel suo carteggio con Domenico Ongaro. I limiti della tiratura, che non si illude (e non si prefigge) di rompere il cerchio del municipio, dichiarano non solo l’orizzonte del mercato, ma degli stessi lettori virtuali. E si affaccia subito il problema della grafia: per la sua difficoltà intrinseca, per i contrasti velenosi che alimenta, per le ricadute sul testo che, anche così, sopprime risvolti genuini, schiacciato com’è sul friulano udinese. La gelosia locale impugna ogni contiguità con le parlate periferiche, arroccandosi: «questo parlare sembra più cargnello che civile furlano», dove è imperioso lo stacco di «civile furlano», che si impone non senza seminare incoerenze. In apertura un sonetto interpreta l’affanno amoroso su sfondo rusticale e il suo titolo, Introduzione, assume necessariamente rango programmatico. Nel secondo tomo Il peccator compunto potrebbe siglare il paradigma: dall’amore terreno al suo affrancamento, assecondando un iter di petrarchistica decantazione. Ma in mezzo (e poi in coda in una massiccia addenda) le rime non sono strutturate, non si legano neppure in un assetto di tipo orizzontale, per blocchi, e si stipano senza un filo, negando l’idea di “canzoniere”, in un non disciplinato accavallarsi di motivi e di livelli. È palese la volontà di sottrarre il poeta al suo tempo. La censura colpisce non solo le allusioni al basso corporeo, le irriverenze, anche presunte, verso religione e autorità costituite, ma gli stessi nomi dei destinatari, in un ostinato programma di liberazione dal contingente, di affrancamento dal secolo di cui quella poesia è voce. Una cristallizazione di moduli letterari e linguistici dove, a dispetto della allentata organicità della raccolta, Introduzione e Il peccator compunto si caricano comunque di responsabilità, proiettandosi sulla biografia del poeta, incline alle lusinghe dei sensi, ma sullo scorcio dei suoi giorni ineccepibile icona di contrizione. In E. i contemporanei (e le generazioni a immediato ridosso) apprezzano la piega socievole, l’amabilità dell’intrattenimento, sia che dispieghi la satira di costume, sia che pratichi la civetteria galante o il topos dell’amore ruvido (e perciò salace) di “persone basse”, sia che metta in scena alterchi precostituiti tra mogli bizzose e mariti ubriaconi, o la confessione malevola della falsa devota, tutta scrupoli e maldicenze, sia che, a saldare il cerchio nel segno di una mondanità altrimenti declinata, proponga versi pii. Non va assecondata la lettura romantica: le rime non sono risvolto genuino di affetti, di trasporti emotivi, di trame appassionate o di sdegni morali. Sono in prima battuta prova di abilità e vige sempre il principio dello schermo retorico, di una grammatica condivisa. La dialettica fra scrittura e biografia è asimmetrica per definizione, allusiva ed elusiva, ma non è certo la poesia il luogo deputato della sincerità disarmata, anche se gli umori di E. hanno modo di scoprirsi con acre trasparenza: per quanto di repertorio, non sono generici i guizzi satirici contro i nobili recenti e non sono vaghi né opachi i sottintesi di una sensualità tutta sbilanciata e gaglioffa. L’assenza di una cronologia attendibile suggerisce comunque un sondaggio per filoni: un sondaggio rappresentativo, che fotografa la gamma aperta della scrittura. Il tempo precipite. Sopra un orologio a Polimia nella tradizione manoscritta ha un titolo meno avaro, L’autore, vegliando la notte, il rumore che faceva il tempo a un suo orologio […], quasi una didascalia, con il brivido inquietante dell’atmosfera notturna, e suo destinatario è Giovan Tommaso di Colloredo. Di non grande vantaggio è l’identità della donna, sulla quale non sono mancate le ipotesi, perché Polimia è interlocutrice fittizia e il dialogo ha altro (e altrimenti motivato) perimetro confidente: «Chel tich e toch cu conte ogni moment / iu pas che ’l timp misure in nestri dan / e, veloz trapassand dal dì all’an, / cun chei pas nus condus al monument, // Polimie, pense pur che a chel concent / anchie i flors dal to volt e spariran / e, ad onte dal to fast, prest finiran / la to crudel beltat e ’l mio torment […]» [Quel tic e toc che conta ogni momento i passi che il tempo misura a nostro danno e, veloce trapassando dal giorno all’anno, con quei passi ci conduce alla tomba, Polimia, pensa pure che a quel suono armonioso anche i fiori del tuo volto spariranno e, ad onta del tuo fasto, finiranno la tua crudele bellezza e il mio tormento (…)]. L’orologio nel Seicento assolve funzione di emblema e affiora secondo modalità plurime (basti il riscontro con Ciro di Pers). Qui la percezione del tempo precipite, che connota la vita umana senza facoltà di riscatto, senza esorcismi praticabili, ha un corrispettivo nell’italianismo, accolto apparentemente senza discrezione, ma con ineccepibile coerenza formale, indizio di strategia alta: «beltat» (meglio l’intero sintagma «crudel beltat»), «concent», «onte» («ad onte»), «trapassand», «volt». La cornice mondana. È ancora nell’ombra del tempo che sfugge di mano il Ragguaglio d’una visita avuta dalla bella Polimia, che ha come oggetto l’assillo amoroso prodotto dalla visita della donna e amplificato, con respiro narrativo, sfruttando ingegnosamente il gioco del volano come metafora. Il ragguaglio è indirizzato a Demetrio Frattina, che non si sottrae al dovere dei vari omaggi encomiastici. La confessione non si chiude nel monologo geloso, ma si riversa nella corrispondenza amicale, e tutto mondano è il protocollo dell’incontro, in uno scenario che incrocia la ferialità con l’esibizione ferma e sfacciata del virtuosismo, dove la spinta affettiva vale tutt’al più come premessa e appiglio. Il senso dell’effimero e della momentaneità rifluisce nella scelta degli avverbi («quand’ecco», «all’improvise», «in tun moment»), del lessico («lamp» e lo stesso «sbriss»). La sequenza è insolita e trasgressiva: Polimia, scivolando (un filmato impensabile nel quadro della tradizione, che non ammette scarti dalla compostezza), svela allo sguardo dettagli imprevisti, che combinano richiami alla moda con sintagmi noti («‘scarpe’ di nef» e «‘chialze’ di fuc»), con l’ovvia intenzione di stupire, di suscitare “meraviglia”: «Smontà dal cog Polimie e fazè un sbriss / mostrand scarpe di nef, chialze di fuc, / nè a medità il plui biel podei vè luc, / ch’al fo un lamp ch’ad un trat ceie e spariss. // E, vidinle viars me a movi il pass, / correi, svolai, precipitai des schialis]» [Scese dal cocchio Polimia e scivolò mostrando scarpa di neve, calza di fuoco, né a meditare il più bello potei avere agio, ché fu un lampo che insieme abbaglia e scompare. E, vedendola verso me muovere il passo, corsi, volai, precipitai dalle scale (…)]. Il diario dei gesti si regge ancora, esaltandosi, sulla falsariga di una memoria letteraria non occultata: «precipitai des schialis» riformula un precedente di Tasso, «Vista la faccia scolorita e bella, / non scese no, ‘precipitò di sella’», a dire di Erminia su Tancredi ferito dopo il duello con Argante, ma ritenuto morto. La corda becera. Non in frizione con la chiave rarefatta sono le tonalità grevi, ligie ad altro codice (al prestito italiano subentra il municipalismo rude, dialettologicamente accusato), come un sonetto a Odorico di Zucco, personaggio non edificante, bandito dalla Patria nel 1687. Nei versi domina il dispositivo dell’elenco, un catalogo stravolto di malanni fisici, inventariati con indiscutibile perizia (ritmica e acustica, oltre che lessicale): «Durì, s’a ti vignis la scaranzie / e la rogne, la levre e ’l uaruellon, / la coliche, lu flus e lu madron, / il letargo, la fan, l’idropisie […]» [Odorico, se ti venisse l’angina e la rogna, la lebbra e il vaiolo, la colica, la diarrea e l’ostruzione intestinale, il letargo, la fame, l’idropisia (…)]. Analoga escursione si ha nel ritratto che rovescia malignamente (ma implica) il profilo istituzionale di bella donna con le sue distillate essenze: «Spolverize la chiome il glandonet / e lu tartar pedoli fas ruine / ma, se l’ongle lu gaffe e no ’l è sclet / a schiampà, si refas la puarine […]» [Il lendine spruzza di polvere la chioma e il barbaro pidocchio fa rovina ma, se l’unghia lo afferra e non è veloce a scappare, si rifà la poverina (…)]. Dove a contare sono le istanze di un capriccio che accosta e compone le polarità: levigatezza e grottesco non sono in antitesi, ma espressione parallela di una identica volontà di spiazzare le attese. La riflessione sul costume. Non benevolo è lo sguardo riservato al cortigiano e acida è la censura del religioso che dà scandalo. Un fatto di cronaca non edificante (Per l’accidente tra li canonici Frattina e Fabricii che, nella sacristia del duomo di Udine, si gettarono in faccia un calice: così il titolo-didascalia nella tradizione manoscritta) è riferito con condanna secca, dando luogo a uno stillicidio di risposte, spicchio di una società letteraria reattiva, pronta alla schermaglia. Per altri componimenti, che si distendono in forme più discorsive e pacate, valgono come referenza obbligata le satire di Ariosto. I versi, che sfruttano lo schema della terzina o della quartina, aprono una insidiosa vena autobiografica: insidiosa perché il tratto confidente, lo sfogo, è in bilico tra esperienza e topos ossificato, tra estro e tessera di repertorio. Come nel Ragguaglio d’un viaggio ad un amico che riferisce del soggiorno viennese, dell’insofferenza per la vita di corte, dell’insostenibile umore nero: «Hai in tai uess tante malinconie / daspò ch’io soi vistut di cortesan […]» [Ho nelle ossa tanta malinconia da quando sono vestito da cortigiano (…)]. L’immagine della rapa ha autorizzazione ariostesca (e il precedente ariostesco giustifica anche gli ideologicamente più pressanti «libertat» e «grandezzis»: «se perder s’ha la ‘libertà’, non stimo / il più ricco capel che in Roma sia», «So ben che dal parer dei più mi tolgo / che ’l stare in corte stimano ‘grandezza’, / ch’io pel contrario a servitù rivolgo»): «Al val plui quet in pas un pittiniz, / quattri chiastinis, doi muzzui di most, / e schialdassi i zenoi cun quattri stiz // […] // Al val plui cu la so pas un toc di pan / e gioldè la so chiare libertàt, / e stà dai grang signors simpri lontan, // cu no val la cort e la cittat / e i onors e i banchez e lis grandezzis, / l’aur e l’arint e ogni gran dignitat» [Vale più una rapa cotta in pace, quattro castagne, due bicchieri di mosto, e scaldarsi le ginocchia con quattro tizzoni (…). Vale più un pezzo di pane con la propria pace e godere la sua cara libertà, e stare sempre lontano dai grandi signori, di quanto valgano la corte e la città e gli onori e i banchetti e le grandezze, l’oro e l’argento e ogni grande dignità]. In linea con le ragioni dell’intrattenimento la risposta per le rime, affidata non al destinatario, Giovanni Antonio di Caporiacco, ma alla mano più scaltra di Ciro di Pers: di fatto una risposta di gruppo, perché collettivo e non generico è il rito della ricezione. Le ragioni dell’intrattenimento. Tutta la scrittura di E. è in sintonia con le richieste della socievolezza e asseconda, con cadenza lieve o sgangherata, i fatti della vita: dal matrimonio fastoso alla quotidianità più frusta. Una socievolezza che ruota in particolare attorno alla villa di Gorizzo. I benefici dell’amicizia, dello stare in compagnia, si delineano saldi, pur riciclando luoghi comuni ossificati: una prospettiva astratta della campagna (con la satira del villano che scardina la sagoma del contadino), una convivialità assaporata nella litania grassa di cibi e pietanze, in debito con la poesia burlesca. Nell’Invito indirizzato a Girolamo Savorgnan è tangibile il piacere dell’ospitalità: «Iaroni, i rusignui dal mio boschet / ai han biel petat man al sivilot / e van provand un biel madrigalet / al to arrif di recità al prin bot […]» [Girolamo, gli usignoli del mio boschetto hanno già dato mano allo zufolo e vanno provando un bel madrigaletto da recitare subito al tuo arrivo (…)]. Lo stesso mondo naturale, con la sua fauna multicolore, prodiga i propri esercizi di bravura, che si specchiano in una sofisticata terminologia tecnica: «Un’oparette cu farà fraccas / ti preparin de selve i miei cantors: / la zore e la curnil faran il bas, / la giaie e la badascule i tenors, / lu quintralt la poiane e lu cagnas, / e iu soprans i tarabus sonors […]» [Un’operetta che farà rumore ti preparano i miei cantori della selva: la cornacchia e il gracchio faranno il basso, la gazza e la ghiandaia i tenori, il contralto la poiana e il falco, e i soprani i tarabusi sonori (…)]. Dove convergono nell’acrobazia, nell’artificio consapevole, i nomi genuini dei volatili e il lessico non nativo del bel canto. Il fatto teatrale. Le ragioni dell’intrattenimento si manifestano in modo forse più compiuto nel fatto teatrale veloce da gustare (e non macchinoso da allestire): dialoghi e intermezzi, dove è verosimile che il corpus abbia assorbito senza ritegno pezzi estranei. E. sperimenta la prosa in tre intermezzi e, rispetto ai dialoghi in versi, la scena sembrerebbe arricchirsi con l’ingresso di un terzo attore, ma l’azione si risolve ancora in duetto e non acquisisce complessità, discorso articolato. Le battute zampillano in agilissimi contrappunti, senza concedere alcunché alla definizione psicologica dei personaggi, che sono dati “a priori”: l’uomo nullafacente, ubriacone e manesco, la donna vittima non remissiva e anzi velenosa. Uno schema elementare, di facile presa: e di larghe fortune. Valga come assaggio uno stralcio breve dell’Intermezzo primo tra i due consorti Biasio e Domenica e Sabata loro comare: «B. Ti dis di no: io soi lu paron e mi tocchie a mi a comandà. M. E io ti dis che io uei che tu vivis a mio mud, e no soi maridade par soppuartà lis tos strambariis. B. E ce grand intric che iè une muir! Un al dis cun gran reson che la femmine iè pies dal diaul. M. Oh ce grand omenon! Pofà la mari! Bundì, siorie! Sior caghesentenzis! […]» [B. Ti dico di no: io sono il padrone e tocca a me comandare. D. E io ti dico che io voglio che tu viva a modo mio, e non sono sposata per sopportare le tue stramberie. B. E che grande impiccio è una moglie! Si dice con grande ragione che la donna è peggio del diavolo. D. Oh che grande uomo! Potta della madre! Buon giorno, signoria! Signor cacasentenze! (…)], e via via in un crescendo che esaspera lo scontro verbale nella violenza fisica. La piega compunta. Il ventaglio della scrittura di E., tra ammicchi scollacciati, allusioni al basso corporeo, sottili galanterie, risentimenti morali e pronunciati abbandoni ai sollazzi di una socialità pur esclusiva, propone anche versi devoti, richiesti peraltro dal costume, da una mondanità che si completa con la cerimonia religiosa. Basti la prima ottava de Il peccator contrito: «Mio Dio, vo che vedes d’ogni vivent / il pet avviart e ogni pinsir svelat, / un cuur contrit, un pecchiator dolent / mirait, mio Dio, cun voli di pietat. / Chei meriz, quand che in cros eris pendent, / il sanc spandut dal sacrosant costat / ch’al lavi ogni me colpe, ogni mio error, / nè mi clamait sdegnat o cun furor» [Mio Dio, voi che vedete di ogni vivente il petto aperto e ogni pensiero svelato, un cuore contrito, un peccatore dolente guardate, mio Dio, con occhio di pietà. Quei meriti, quando pendevate in croce, il sangue sparso dal sacrosanto costato lavi ogni mia colpa, ogni mio errore, e non chiamatemi con sdegno o con furore]. La Vita del conte Ermes premessa all’edizione Murero asserisce: «gli ultimi respiri del viver suo furono Il Peccator compunto, opera piena di cristiana pietà», un’idea che si è poi radicata. Dopo le esuberanze della sensualità, dopo la spensieratezza, la vicenda del poeta si archivia nel segno del ripiego: delle ceneri quaresimali. L’immagine di E. si riscatta (secondo un paradigma solidale con l’ideologia dei suoi più tardi lettori settecenteschi) nei frangenti conclusivi.
ChiudiBibliografia
Ms BCU, Joppi, 409, Carteggio dell’ab. Domenico Ongaro sulla stampa delle Poesie del co. Hermes di Colloredo.
E. DI COLLOREDO, Poesie in lingua friulana, Udine, Murero, 1785; ID., Poesie scelte edite ed inedite in dialetto friulano, con aggiunte di P. Zorutti, Udine, Mattiuzzi, 1828 [ristampa anastatica con introduzione di R. PELLEGRINI, Udine, SFF, 1992]; Le più belle poesie friulane del conte Ermes di Colloredo, a cura di G. CUMIN, Udine, SFF, 1924; Edizione critica dei sonetti del Colloredo, a cura di N. D’ARONCO PAULUZZO, Udine, SFF, 1971; E. DI COLLOREDO, Versi e prose, a cura di R. PELLEGRINI, Udine, AGF, 1994; L. CICERI, Dodici lettere inedite di Ermes di Colloredo, «Il Tesaur», 2 (1950), 19-22; F. BONATI SAVORGNAN, Nove lettere di Ermes di Colloredo, «Sot la Nape», 21 (1969), 3, 9-19.
N. D’ARONCO PAULUZZO, Bibliografia ragionata di Ermes di Colloredo, «Studi goriziani», 20/2 (1956), 37-57; F.C. CARRERI, Ermes di Colloredo. Studio, «Pagine friulane», 6 (1893), 105-110 e 121-126; E. CARLETTI, Appunti collorediani. Ermes di Colloredo “ratadôr” nel 1676, «Ce fastu?», 7 (1931), 277-282; R. SCATTON, La vita di Ermes di Colloredo, «Ce fastu?», 23/1-4 (1947), 5-9; 23/5-6 (1947), 9-17; G. BENZONI, Colloredo, Ermes, in DBI, 27 (1982), 72-78; G. FRANCESCATO, Sul linguaggio del Conte Ermes di Colloredo, «Ce fastu?», 33-35 (1957-59), 98-104; G.P. GRI, Ermes di Colloredo e il barocco, «Ce fastu?», 48-49 (1972-1973), 95-117; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 185-196; P. RIZZOLATTI, Una «Canzone per nozze» da Plutarco Sporeno a Ermes di Colloredo, «Diverse lingue», 10 (1991), 73-93; R. PELLEGRINI, Tra Ermes di Colloredo e Pietro Zorutti, in PELLEGRINI, Ancora tra lingua e letteratura, 351-399; G. PILLININI, Ermes di Colorêt. L’om e il poete, Udine, SFF, 2005.
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