Il musicologo
Nato a Turrida di Sedegliano (Udine) nel 1945, ricevette l’ordinazione sacerdotale nel 1970. Successivamente si laureò in teologia dogmatica presso la Pontificia Università Lateranense di Roma nel 1980-1981 con una tesi sul teologo H. Hassmann, e in lettere presso l’Università di Padova nel 1985-1986, discutendo una tesi sui tropi, le prosule e le sequenze del graduale aquileiese con Giulio Cattin. Studiò inoltre pianoforte sotto la guida di Plenizio e composizione con Coltro. Oltre ad esercitare il ministero a Codroipo, Molin Nuovo e Udine, fu insegnante di religione presso le scuole medie di Codroipo (1970-1973) e al Liceo classico I. Stellini di Udine (1973-1980), inoltre di esercitazioni corali (1981-1997) presso il Conservatorio statale di musica I. Tomadini di Udine. Istruì e diresse formazioni vocali e strumentali (il coro “G.B. Candotti” di Codroipo, il gruppo da camera “F. Candonio” e la “Schola Aquileiensis” di Udine), con le quali spaziò dal repertorio medievale al contemporaneo e vinse alcuni prestigiosi concorsi internazionali. Dal 1980 al 1992 fu anche maestro di cappella del duomo di Udine. Studioso poliedrico, dotato di una vasta cultura umanistica non disgiunta da spiccati interessi scientifici, ha scritto, oltre ad alcuni saggi monografici, numerosi articoli per giornali e riviste, locali ma anche internazionali, ed ha inciso vari dischi per illustrare il patrimonio musicale friulano. Se nei primi anni la sua ricerca si è dedicata prevalentemente, da una parte, a costruire un panorama organico, complessivo e rinnovato della storia della musica regionale partendo dal patrimonio di indagini particolari già effettuate (come La musica nel Friuli storico, per l’Enciclopedia monografica del Friuli Venezia Giulia nel 1981), dall’altra ad approfondire la conoscenza ed il recupero del patrimonio monodico medievale e polifonico rinascimentale e dei repertori di tradizione popolare (sia liturgico che profano), in seguito essa si allargò vorticosamente, soprattutto a partire dagli anni Novanta, esondando dalla musicologia nell’indagine a tutto campo circa le origini della Chiesa aquileiese. ... leggi Il volume che raccoglie almeno in una fase germinale buona parte delle sue intuizioni è Sermone, cantu, choreis et… marculis. Cenni di storia della danza in Friuli, edito nel 1991 e diretto, con metodo interdisciplinare, a dispetto di un sottotitolo restrittivo, a sostenere l’assunto dell’origine giudeocristiana della Chiesa di Aquileia, e la filiazione di questa dalla Chiesa d’Alessandria d’Egitto, notoriamente ritenuta di fondazione marciana. Un saggio della sua inimitabile capacità di collegare in un’unica visione i particolari più disparati si può vedere ne Il patriarca Poppone e la musica ad Aquileia e Grado nel secolo XI. Lo studioso attento alla divulgazione appare, invece, sia nella ispirazione e collaborazione ad eventi e progetti multimediali (La leggenda di Marco, produzione Rai, 1993; Choreis et marculis, produzione “Ai Colonos”, Villacaccia, 1995; L’arc di san Marc, produzione Mittelfest, 1996), sia nella stesura, affidata a Paluzzano, del Viaggio nella notte della chiesa di Aquileia, ove sono presentati in forma piana e scorrevole i principali temi interessati dalla sua intensa attività di studio e di ricerca. Come compositore P. ha lasciato una Missa forojuliensis e una decina di composizioni per lo più liturgiche. Morì a Udine il 17 settembre 1997. [F.C.]
Lo storico delle origini cristiane
La ricerca sulla storia del cristianesimo aquileiese di P. offre elementi di assoluta originalità, tanto in riferimento al metodo, o più puntualmente alle metodologie utilizzate, tanto in riferimento ai risultati conseguiti. Allievo “spirituale” di Guglielmo Biasutti, di cui tracciò nel 1992 un importante profilo biografico, egli ne condivise innanzi tutto la concezione di un’ermeneutica storica capace di diradare, perlomeno con una luce aurorale, le fitte tenebre da cui sono avvolte le prime fasi della propagazione del cristianesimo nella X Regio, di cui Aquileia fu capitale. Lo spinoso problema del “silenzio delle origini” era già stato affrontato, in riferimento alle più ragguardevoli metropoli dell’ecumene cristiana, da Walter Bauer che, nel 1934, con la pubblicazione a Tübingen del suo Rechtgläubigkeit und Ketzereit im ältesten Christentum, ne aveva individuato la ragione nella natura delle più arcaiche manifestazioni della fede cristiana, considerate “eretiche” nel momento in cui, successivamente, fra IV e V secolo, si venne affermando la “ortodossia” romana. Questa lettura non poteva che attagliarsi anche ad Aquileia, scompaginando in tal modo la tradizionale ricostruzione delle origini del suo cristianesimo, tracciata allora su due fondamentali coordinate: la provenienza romana dell’evangelizzazione e la sua datazione alla metà del III secolo. In questa prospettiva, decisiva diventava l’individuazione delle “spie” atte a segnalare le faglie di instabilità su cui poggiava una simile delineazione, rimasta inconcussa a far tempo dall’opera d’inizio Novecento di Pio Paschini: P. accoglie viceversa, con più vasto respiro, l’ipotesi biasuttiana di un’origine alessandrina del cristianesimo aquileiese, così come si era venuta profilando negli studi da questi prodotti tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento, ma, forte della sua originaria preparazione musicale, indirizza preliminarmente la sua attenzione proprio in questo campo. Considerato il carattere magmatico dell’opera di P., ci si limita alla presentazione di un solo esempio della sua ricerca, del tutto idoneo, però, a dar contezza dello spirito che muoveva il “work in progress” dell’autore, spirito da cui incessantemente germinavano idee, accostamenti, relazioni, in un intricatissimo percorso carsico, sovente di struttura labirintica, che dalla filologia musicale lo conduceva alla liturgia, alla storia, all’esegesi biblica, alla storia della teologia, all’antropologia culturale, ambiti su cui esercitava un’alta vigilanza critica, corredata da robusti studi scientifici. Nell’esame di uno straordinario documento inquisitoriale relativo al comportamento, nel 1624, di taluni abitanti di Palazzolo dello Stella, guidati dalla «vedova impudica» Maria Lissandrina, egli notò la peculiarità della coreusi di quel gruppo, dedito certamente a un’azione rituale compiuta, con carattere prettamente entusiastico e coribantico, alla vigilia di Pentecoste, coreusi che, sempre in ambito friulano, era stata trascritta già nel 1578 in un’opera musicale dell’«inquieto intellettuale» Giorgio Mainerio, maestro di cappella della basilica patriarcale di Aquileia e accusato poi di negromanzia. Con intemerato ardire, P. collegò questo peculiare rito agrario alla prima testimonianza, in ambito medio-giudaico, del canto a due cori battenti, così come eseguito nella celebrazione, anch’essa di natura entusiastica e coribantica, della vigilia di Pentecoste da un gruppo misto di asceti, i Terapeuti e le Terapeutridi cui, nella prima metà del I secolo, Filone d’Alessandria aveva dedicato un’opera, il De vita contemplativa. Ora, questa celebrazione, anch’essa pentecostale, traeva ispirazione dalla coreusi delle donne ebree, guidate dalla profetessa Myriam (Maria), che celebrò, con evidenti tratti entusiastici e coribantici, l’uscita indenne del popolo dal Mar Rosso. Se nel testo masoretico di Esodo l’azione di Myriam è conservata in un frammento, posto in appendice al cantico di Mosè (15, 19-21), nel Pentateuco riscritto rinvenuto fra i testi di Qumran, viceversa, si può leggere una diversa versione di quest’inno, in cui l’intera vicenda dell’esodo ebraico si carica di fortissimi significati escatologici e messianici, mentre temi come quelli, ad esempio, delle “acque portentose” impongono un confronto da un lato con l’elaborazione della cristologia giovannea e, dall’altro lato, con alcune peculiarità della liturgia proto-cristiana sia ad Alessandria sia ad Aquileia (la benedizione epifanica dell’acqua, effettuata nel giorno in cui, in entrambi i calendari liturgici, si celebrava il battesimo di Cristo). Il problema consisteva, però, nella possibilità di tracciare una traiettoria storica, non meramente fenomenologica, che congiungesse tra di loro poli così assolutamente distanti; simile a un esperto mosaicista che, tessera dopo tessera, rende visibile il cartone preparatorio, P. dispiegò, in pochi, fervidi, talora addirittura frenetici anni di ricerca, una ricchissima mappa delle convergenze tra le due metropoli separate, ma ancora più congiunte, dal bacino mediterraneo. Si profilò così l’immagine di un giudeo-cristianesimo di stampo petrino-marciano che da Alessandria risalì ad Aquileia: l’Autore, osservato come il predicato che, nella tradizione più antica, denota costantemente Marco sia quello d’“interpres Petri”, argomenta il carattere a-paolino, quando non anti-paolino di una evangelizzazione che trovò il suo fondamento nell’entusiasmo pentecostale di Atti degli Apostoli 2, 4 s., quando gli astanti odono gli apostoli, appena usciti dal cenacolo ebbri di spirito, parlare ejn glwvssaiı (cioè con la lingua degli angeli). Questa esperienza carismatica, cui Paolo non aveva partecipato, dovette configurare la natura del primitivo cristianesimo alessandrino, dal momento che quella stessa tradizione afferma come Marco, su incarico di Pietro, stese un vangelo che portò con sé nella città portuale. Nel frammento della sua Lettera a Teodoro scoperta da Morton Smith, Clemente di Alessandria afferma di conoscere bene la tradizione dell’evangelizzazione della sua città da parte di Marco, la cui redazione di un vangelo, di carattere misterico, è presente sin dal II secolo negli archivi della sua chiesa. Ora, nella liturgia battesimale attestata da questo frammento, l’efficacia del sacramento consiste nell’introduzione al riposo escatologico, in una sequenza che ricorda da vicino quella del ciclo musivo teodoriano di Aquileia il quale, come è noto, culmina nella scena del riposo di Giona sotto il pergolato di cucurbite, il vegetale che, nell’iconografia paleocristiana, costituisce la cifra simbolica del Regno millenario di Cristo. Fu così possibile all’autore recuperare il leggendario medioevale relativo alla Passio S. Hermagorae, considerato fondatore della Chiesa aquileiese, poiché, riscattata dagli storicistici parametri d’interpretazione correnti, venne viceversa compresa iscrivendola nelle dinamiche teologiche ed ecclesiali del primitivo cristianesimo, di cui rappresenterebbe una lontana, ma ancora percepibile eco. Il carattere saliente di questa facies ecclesiale venne individuato nell’“haplotes”, la “rusticitas” di cui si gloriavano i vescovi tricapitolini di Aquileia e Milano in opposizione alla “dypsichia”, alla doppiezza (storica, prima ancora che teologica) dell’anti-tricapitolino vescovo di Roma. Secondo P., “rusticitas” esprimerebbe ad Aquileia la radice ebraica di “maqôr” – tanto da far eponimo lo stesso fondatore Ermacòra –, che significa “sorgente”, “fonte”, “sorgiva”, e che esprime uno dei concetti fondamentali di tutta la cultura biblica. Se l’acerba morte non consentì al Nostro di procedere a ulteriori approfondimenti – in relazione soprattutto alle matrici medio-giudaiche di questo concetto, centrale per la comprensione dello scontro fra Paolo e le dottrine giudeo-cristiane per quanto attiene al problema cruciale dell’origine del male, da cui dipende il valore della stessa libertà dell’uomo, come conferma la sua pervasiva presenza nell’“aquileiese” Pastore di Erma – vennero tuttavia da P. individuati alcuni caratteri fondativi di questo cristianesimo “rusticanus”, caratteri che si presentano come un fenomeno di “lunga durata”, dall’antichità all’evo moderno: la sua diffusione nel “rus”, in opposizione a un cristianesimo urbano, ben più disponibile all’accoglimento di un ruolo civico della religione; la sua natura “giudaizzante”, già documentata da Biasutti e ora corroborata da ulteriori fonti, che conferma l’importanza del “descensus ad infera” di Cristo e dei suoi Apostoli – articolo peculiare del simbolo di fede alessandrino-aquileiese – in ordine alla redenzione di Israele; il ruolo di una precoce ascesi monastica, probabilmente di matrice terapeutica, in cui si formarono le personalità più ragguardevoli del cristianesimo aquileiese, da Rufino a Cromazio (e alla sua famiglia), allo stesso Gerolamo e, probabilmente, allo stesso Martino di Tours; le modalità “entusiastiche” di vivere la fede, cadenzate dall’incedere “elegans”, cioè capace di danzare a ritmo, dello stesso proto-vescovo Ermagora, se non piuttosto dal ballo pentecostale delle donne di Palazzolo dello Stella, debitrici, per quanto inconsapevoli, della grande tradizione coribantica medio-giudaica, attestata segnatamente dal Testamento dei XII Patriarchi (opera, peraltro, da alcuni studiosi ascritta ai Terapeuti di Alessandria). La ricerca di P. presenta due aspetti di assoluto rilievo: il primo è costituito dal definitivo affondo inferto alla storiografia paschiniana e alle sue fiacche e ripetitive modulazioni successive; il secondo, fecondissimo, è quello che genialmente iscrive la storia aquileiese nel contesto frastagliato delle origini cristiane, seguendo piste d’indagine profondamente innovative (almeno nell’asfittico contesto patrio) che, muovendo dalla matrice medio-giudaica, intercettano la vita e il pensiero più arcaici di quella comunità. [R.C.]
Chiudi
Nessun commento