Nacque a San Valentino di Fiumicello (Udine) il 9 ottobre 1882. Su invito del parroco e maestro don Zogovich, il padre, oste del paese, lo iscrisse allo Staatsgymnasium di Gorizia, dove il giovane si segnalò per l’intelligenza vivace e per l’attitudine allo studio delle lingue. Al ginnasio, P. conobbe Giovanni Battista Brusin, intrecciando un rapporto d’amicizia che avrebbe rivestito nei decenni successivi un notevole rilievo. Dopo la maturità, conseguita nel 1903-1904, l’eccellente competenza linguistica acquisita nella giovinezza sarebbe stata ulteriormente consolidata negli anni della formazione universitaria, ricevuta a Innsbruck, sotto la guida di Theodor Gartner, e a Vienna, nel 1905, con Adolfo Mussafia e Wilhelm Meyer-Lübke. Gli studi si conclusero nell’anno accademico 1907-1908 a Innsbruck con la discussione di una tesi in filologia romanza e germanica (Die germanischen Elemente im Isonzofriaulischen und grammatische Bearbeitung derselben), ma il rapporto con quella che fu da lui percepita come la lingua dei dominatori rimase problematico, ed è dunque significativo sul piano degli orientamenti ideologici e politici il fatto che, in seguito, P. si sarebbe dedicato a essa soltanto in alcune pregevoli traduzioni letterarie, nella stesura di due grammatiche per l’apprendimento (insieme con Emilio Bidoli) e nell’insegnamento scolastico. Dal 1907, infatti, P. fu docente di lingua e letteratura tedesca nell’I. R. Ginnasio superiore di Capodistria, e nel 1912 passò al Ginnasio superiore comunale F. Petrarca di Trieste. Presidente, fin dalla giovinezza, dell’Unione dei giovani friulani, associazione irredentistica goriziana, per due volte venne arrestato e processato dalle autorità dell’Impero: nel 1903 per aver preso parte alle manifestazioni udinesi, e nell’anno successivo per essere stato coinvolto a Innsbruck nelle giornate studentesche che rivendicavano una università italiana a Trieste. ... leggi A causa dei sospetti politici che gravavano su di lui, anche durante il primo conflitto mondiale venne sospeso dall’insegnamento e «tenuto in disposizione». Dopo aver collaborato assiduamente a «Le nuove pagine», negli anni 1910-1914 diresse «Forum Iulii. Rivista di scienze e lettere», periodico goriziano di orientamento e sentimenti italiani che spaziava dalla dialettologia alla riflessione critica, dal folclore alla letteratura popolare e colta, dalla storia locale alla storia dell’arte. Nel 1915 P. era in Boemia, ospite per alcune settimane dell’arciduca Luigi Salvatore d’Asburgo, per il quale completò, con la collaborazione di G. Pitacco, P. M. Lacroma, pseudonimo di Marie von Schmitzhausen Egger, e D. Zorzut, lo studio e la raccolta delle espressioni popolari friulane relative alla sfera degli affetti e dell’intimità (Zärtlichkeitsausdrücke und Koseworte in der friulanischen Sprache, Praga, 1915). Rientrato in Friuli, fu il principale ideatore della Società filologica friulana, fondata il 23 novembre 1919 e da lui presieduta dal 1921 al 1923. Nel frattempo era stato reintegrato nell’insegnamento, ma nel 1923, per iniziativa di M. Bartoli, divenne promotore, presso la Filologica, dell’Atlante Linguistico Italiano, e nel 1925, mentre era in servizio presso il liceo di Trieste, venne chiamato dal Ministero dell’istruzione e assegnato all’Università di Torino, per conto della quale divenne raccoglitore unico per il completamento dell’Atlante stesso. A quell’impresa colossale P. avrebbe dedicato diciassette anni di sfibranti peregrinazioni, nel corso delle quali raggiunse gli angoli più remoti della penisola svolgendo 727 inchieste (sulle 970 programmate), compilando un milione e mezzo di schede e scattando 7156 fotografie. Lo accompagnava, con fattiva collaborazione, la moglie Nelda Dorcich, che aveva sposato il 18 novembre 1908. Nella seconda guerra mondiale P. sfuggì ai bombardamenti di Torino, ma non fece in tempo a ricevere da quella Università, nella quale dal 1927 era assistente di linguistica, la laurea honoris causa in glottologia. Prostrato dal male e logorato dalla fatica, morì infatti a Gorizia il 17 luglio 1943 e venne sepolto nel cimitero di Aquileia. La vocazione letteraria di P. può essere fatta risalire agli anni 1909-1910, quando egli si dedicò ad alcune traduzioni e a scritti che celebravano la romanità di Aquileia. Tuttavia i suoi primi testi iniziarono a comparire soltanto dal 1921, sebbene nel 1920 avesse già predisposto versi e prose per la stampa da parte dell’editore goriziano Paternolli: una produzione non molto ampia, ma energica, istintiva e temeraria, che incontrò perplessità nei primi lettori. Fu lo stesso Tita Brusin a dissuaderlo dal pubblicare il volume, che avrebbe dovuto intitolarsi Bujaçis e soreli [Sterco bovino e sole]. Le omissioni e le (auto)censure continuarono negli anni seguenti, cosicché la conoscenza dei postulati ideologici e retorici sottesi agli scritti letterari del glottologo friulano è stata fortemente limitata dal fatto che la gran parte di essi è rimasta a lungo sconosciuta. Il materialismo assoluto, l’amaro scetticismo, la «visione del mondo cruda, spregiudicata, provocante» (Faggin) sono stati ancora negli anni Cinquanta i motivi principali dell’esclusione di alcuni testi dagli Scritti friulani scelti nel 1955 da parte di G. B. Brusin e G. D’Aronco. L’impatto con un materiale così lontano dal paradigma ideologico e linguistico della tradizione zoruttiana doveva essere risultato fin dall’inizio quasi traumatico; eloquente, pertanto, il tentativo di Brusin di cercare quasi una giustificazione: «Nei rapporti quotidiani della vita, in compagnia di altri, egli appariva costantemente sereno, ilare, brioso; in realtà Ugo Pellis era uno scettico pervaso da amarezza profonda. Nell’umanità egli vedeva dominare la falsità, la doppiezza, gli istinti peggiori». Componimenti inediti vennero divulgati da Renato Jacumin nel 1968, ma per uno studio complessivo dei manoscritti si dovette attendere gli ultimi anni del secolo. Naturalmente tra le prose liriche, le poesie di indole popolare e quelle di metro classico, i componimenti d’occasione e le traduzioni, cambiano i modi ed è varia l’ispirazione, eppure si riconosce agevolmente come un tono frequentemente ironico o addirittura sarcastico accomuni in diversi brani la descrizione dell’uomo nelle sue esigenze più fisiche (Watercloset), la sua tanto strenua quanto inutile lotta per la vita (Graçis, Signor! [Grazie, Signore!]), la sua sensazione di frustrazione e impotenza (La çhana gargana [La canna palustre]), il suo pessimismo cosmico (Pân), la sua ribellione alla spietata volontà del Supremo (Promèteu). Quasi disorientata di fronte a queste professioni di nichilismo, la critica contemporanea ha scelto di riconoscere in P. una sorta di dissidio interiore tra l’immagine di studioso e scrittore regolare, equilibrato, serio e gradito a un pubblico benpensante, e il suo vero temperamento anticonformista e scapigliato, un dissidio che percorre gran parte della sua opera. In molti dei propri scritti letterari, infatti, egli non disdegnò forme elette, ottenute mediante il ricorso generoso e non convenzionale all’arte figurale o addirittura alla metrica barbara, mentre nelle traduzioni per «Forum Iulii» andava senza indugi alla ricerca di una efficace espressione della propria visione del mondo e di un mezzo implicito di propaganda politica. A tal fine la sua scelta cadde su alcuni brani di Goethe (oltre che su testi dello spagnolo Bécquer), definiti «per contenuto e per forma ‘toto caelo’ differenti» l’uno dall’altro e accompagnati dalla dedica «Al prof. Tita Brusin, me bon amì» [Al prof. Giovanni Battista Brusin, mio buon amico]: sono il Prometheus e due pagine del Faust, prove che sono state definite da Faggin «forse le traduzioni più perfette che siano mai state eseguite in friulano». Per la loro violenta carica polemica antiaustriaca hanno suscitato sconcerto le villotte (D’Aronco le definisce «‘giochi’ poetici […] invero non sempre felici»), il cui riuso «non costituisce un richiamo ossequiente e ripetitivo dello schema, ma è lo strumento attraverso cui, ancora e solo superficialmente in modo brioso, P. punta agli aspetti crudi e veri della vita» (Piorar), concedendo libero sfogo non soltanto all’ostilità politica, ma anche all’ideologia e alla riflessività angosciata: «Ugnidun tal çhamp al ara e ’l samena ’l so forment. / Ugnidun ta vita al ara e ’l sesola ’l so torment» [Ognuno nel campo ara e semina il proprio frumento. Ognuno nella vita ara e miete il proprio tormento]. La distanza dalla tradizione friulana è ribadita dalle tre prose liriche, forse l’espressione più alta della sua “Weltanschauung” amara e sconsolata: una sensibilità e un’indole più segnate dai travagli dell’uomo mitteleuropeo di quanto l’autore stesso fosse disposto ad ammettere. Mentre Al mandolàr [Il mandorlo] è l’allegoria della fiducia indistruttibile nella vita che sfida il gelo invernale, un tono dolente e ormai scettico caratterizza Al rusignùl svuarbàt [L’usignolo accecato], che canta i propri sogni senza che la sua anima conosca mai quella luce che dissolve ogni illusione. Nella chiusa dell’ultima prosa, La ciana gargana [La canna palustre], l’identificazione con l’io poetico è esplicitata con un esclamativo che tradisce una sorta di disprezzo nietzschiano per gli infelici e per la loro fragilità che affonda nel fango della palude: «E stramaludìt sedi jo che sói una ciana gargana!» [E stramaledetto sia io, che sono una canna palustre!]. Muove invece da un’occasione celebrativa la stesura di Catinuta, commemorazione di Caterina Percoto letta a San Lorenzo di Soleschiano il 3 settembre 1922; racconto dai tratti fiabeschi e oleografici, rievoca con precisione la vita e l’opera della scrittrice «con particolari tolti dalle novelle e dai raccontini e dalle lettere sue e da osservazioni di studiosi suoi amici e di critici in genere», come segnala P. stesso. Formidabile a tutti i livelli, ma principalmente per il risvolto fonico, il corredo retorico delle tre prose, già animate in modo vigoroso e personale «dall’assunzione di un materiale assolutamente rustico quale veicolo di una scaltrita letteratura di impronta filosofica e simbolista» (Faggin). Ed è sorprendente la lingua, «rùspia e dura, ’l è vèr, come li pichis da monç» [aspra e dura, è vero, come le vette dei monti] (In t-un àlbum [In un album]), definita da Francescato «personalissimo mezzo espressivo, nato dalla lingua del popolo, ricco di inflessioni locali, curato con una minuzia che si direbbe erudita». In parallelo con la progressiva pubblicazione degli inediti, la critica ha assunto nel corso del tempo un atteggiamento via via più sereno. Era stato severo Bindo Chiurlo, che riteneva le poesie «non scevre da difetti, soprattutto di relitti cerebrali e di influssi non sempre assimilati di recenti acerbità letterarie». Dopo aver parlato di P. quale «illustratore del Friuli», Carlo Battisti si sofferma sulla prosa, «insolitamente ricca, melodiosa, piena di inflessioni, di colori, di luci e penombre, capace di esprimere senza sforzo apparente, attraverso la successione di voci che sfaccettano e completano un’idea, i sentimenti più vari e più complessi, arte matura ed adatta a rendere tutte le sfumature della vita e del paesaggio della sua terra». È di più ampio respiro la valutazione di R. Jacumin, che ha segnalato le due componenti fondamentali della formazione di P.: quella derivatagli dal substrato socio-ambientale della situazione in cui si trovava la bassa aquileiese ai primi del Novecento, e quella originata dal clima politico e culturale mitteleuropeo in cui egli ha avuto modo di plasmarsi negli anni dell’università; secondo Jacumin, al «pessimismo cosmico» di P. si associa un «fatalismo metafisico religioso che ricorda quello della tragedia greca». La sensibilità poetica di P., che ha precorso le istanze di rinnovamento di una letteratura adagiata su forme stereotipate, convive nella sua tormentata e complessa personalità con la lucidità del glottologo. Accantonando l’inclinazione letteraria, P. si è speso nell’ambito della linguistica, passando dalle ricerche di carattere regionale all’impresa, di ben più ampio respiro, dell’Atlante nazionale. Nell’annuario dell’I. R. Ginnasio superiore di Capodistria (1909-1910 e 1910-1911, poi anche in estratto) era stato pubblicato un primo importante studio, esteso ma incompiuto, che prendeva in esame la fonetica dialettale del friulano orientale, Il sonziaco; il saggio, eccellente prova delle notevoli doti percettive e delle competenze nella trascrizione delle differenze fonetiche, associa all’esattezza del particolare l’ampiezza dell’informazione lessicale. Dopo l’esperienza della raccolta di frasi d’affetto e vezzeggiativi in friulano, l’impegno di P. si collocò nell’alveo dell’attività della Filologica, per la quale stese la Relazione preliminare alla determinazione della grafia friulana (Udine, 1920) e le Norme per la grafia friulana secondo le decisioni di massima prese dalla speciale commissione nominata dalla S. F. F. (Udine, 1921). Quando, nel maggio 1924 e soprattutto con l’accordo sancito ufficialmente nel congresso del 26 ottobre di quell’anno, la Società venne coinvolta nell’opera dell’Atlante Linguistico Italiano, P. assunse un ruolo di primo piano nella realizzazione del progetto diretto da M. Bartoli. Oltre a rivedere in modo radicale il questionario ideato da quest’ultimo, ritoccando le domande sulla base dell’esperienza acquisita nel corso dei rilievi, P. progettò una vasta raccolta di illustrazioni di supporto per l’inchiesta e ridefinì con intelligenza i punti d’indagine, aumentando di ben un quarto il numero originariamente previsto. Dal giorno della prima inchiesta vera e propria, realizzata il 29 ottobre 1925 a Belvedere d’Aquileia, fino all’ultima, svolta fra il 21 e il 27 agosto 1942 sull’isola, oggi croata, di Rab, il carico di lavoro più consistente gravava dunque sul P., il quale soltanto dal febbraio 1927 poté usufruire, per spostamenti che sovente risultavano rocamboleschi, di un’auto Balilla donata da Mussolini all’Opera dell’Atlante. Le enormi difficoltà poste da una così ardua impresa furono il motivo principale dell’abbandono di altri progetti come il Thesaurus Linguae Forojuliensis, uno degli obiettivi principali della Filologica, del quale furono compilate soltanto le 525 domande del questionario sulla casa e la cucina (Gorizia, 1922). Vigili e accurati interventi comparvero soprattutto su «Forum Iulii» e poi sulle riviste della Società: una ricca collezione di note etimologiche, studi e inchieste sul gergo di numerose località, recensioni, edizioni di testi antichi (i versi di Nicolò Morlupino, le scritture pratiche), saggi critici e brevi contributi di diverso argomento, talvolta al confine tra linguistica ed etnografia; era inedita, fino a pochi anni fa, una pagina sul primo di aprile, così come è rimasta a lungo trascurata la raccolta di proverbi del manoscritto 2404, fondo Principale, della Biblioteca comunale Vincenzo Joppi di Udine. È infine recentissima (1995) la scoperta dei materiali del progetto Das Volkslied in Österreich, un censimento del patrimonio musicale dei popoli della parte austriaca dell’Impero. Il coordinatore della Commissione di lavoro sul canto ladino, istituita nel 1905, era stato individuato in Gartner; nel luglio 1906 il Friuli austriaco venne associato all’area tirolese, e dal 1908 P. venne chiamato a collaborare all’indagine al fine di individuare altri informatori, raccogliere i materiali e curare l’edizione dei lavori friulani. Nonostante l’enorme importanza dell’impresa, che era stata avviata sin dal 1904 dal Ministero per la cultura e l’istruzione della Cisleitania, P. rimase restio a parlarne con entusiasmo, quasi rifiutando di riconoscere lo zelo culturale del governo di Vienna. L’impegnativa eredità che P. ha lasciato al mondo culturale friulano e italiano rende ancora ardua la formulazione di un giudizio equanime sulla sua figura, un giudizio disposto anche a tener conto di implicazioni ideologiche e coinvolgimenti politici che suscitano imbarazzo. Nell’esasperazione delle ragioni che fin dagli anni della formazione universitaria lo avevano condotto ad abbracciare idee nazionali di orientamento italiano, P. diede voce senza indugi a uno spirito ardentemente irredentista. Nel 1913 era uscito Al ciant dal Friûl [Il canto del Friuli], marziale e intimidatorio compendio di retorica nazionalistica; composto nell’anno precedente per l’Associazione P. Zorutti di Cervignano e musicato da A. C. Seghizzi, si conclude con versi emblematici: «mior sêi muarz ’te nestre tiare / che pleâssi como sclâs!…» [Meglio essere morti nella nostra terra che piegarsi come schiavi!…]. L’animo dello studioso, fiero e insofferente verso un certo ordine costituito, stava ormai «aprendosi a soluzioni e a prospettive violentemente nazionalistiche, con forme di ebbrezza esaltata e irrazionale dopo il 1918» (Tavano). Ne sono prova lampante versi come A la uçela cun doi becs [All’uccella con due becchi] e La ligria da defonta [L’allegria della defunta], spietati e veementi verso la secolare istituzione rappresentata dall’aquila bicipite. L’idea di un Friuli concepito come baluardo, Scutum Italiae (questo il titolo di una raccolta dedicata ad Aquileia nel 1921) «sul confin todesc e sclâf» [sul confine tedesco e slavo], è invece sottesa tanto alla composizione in versi La puarta da l’Italia a soreli jevât [La porta dell’Italia verso oriente] – in Nel XXI centenario della fondazione di Aquileia (181 a. C.-1919), Roma-Milano-Venezia, 1919 – quanto all’ideazione e fondazione della Filologica, ente volto a tutelare l’integrità del friulano e delle sue componenti storiche, artistiche e culturali. L’«ingenuo orgoglio nazionalistico friulano, antitedesco e antislavo» (Faggin) trova la sua formulazione più compiuta nella conferenza Echi del passato, tenuta a San Daniele il 25 settembre 1921 (Udine, 1921): «Roma non muore, Aquileia vive oltre la rovina: la resistenza della romanità in questa abbrutita massa di uomini rasenta il prodigioso»; a ribadire idee già impugnate con Al ciant dal Friûl: «Cheste tiare cà je nestre: / dome nô cà sìn parons; / fivilìn ’ne lenghe nestre: / son di Rome i nestris vons» [Questa terra è nostra, qui soltanto noi siamo padroni; parliamo una lingua nostra, i nostri antenati sono di Roma]. Il progressivo cedimento verso la politica snazionalizzatrice dell’Italia fascista è attestato dall’articolo Politica di confine («Rivista della Società filologica friulana», 5, 1924, 50-59), nel quale viene suggerita un’azione di conquista non violenta degli “allogeni”, ossia degli alloglotti sloveni (e anche croati) nati nelle terre “redente”, affinché si sentano «in tutto e per tutto cittadini italiani con lealtà e dedizione». P. afferma che «La penetrazione in una massa compatta non può effettuarsi di colpo, con offensiva morale precipitosa […] ma deve avvenire per gradi, con abile preparazione di sgretolamento»; tuttavia «il pulpito» e «la scuola», veicoli di un’avversione per l’Italia propagandata con «carsica cocciutaggine», sono «centri vitali della resistenza» che «vanno subito minati, sgretolati, dispersi», e a tal proposito si avanzano proposte di sistematica ingerenza nel governo ecclesiastico (l’arcivescovo di Gorizia è definito «uno sloveno fanatico», ma d’altra parte «un saggio trattamento dei sacerdoti può farli preziosi strumenti di propaganda statale»). L’azione sul personale scolastico appare più difficile: «Quegli ostinati odiatori dell’Italia, quegli elementi centrifughi per eccellenza non si riducono così facilmente a conversione». Insomma: «‘Parcere subiectis’, ma ‘debellare superbos’». A rincalzo di queste politiche, la competenza linguistica di P. era stata messa al servizio della coniazione dei toponimi ufficiali o dell’adattamento delle forme inadatte «alle esigenze della grafia e delle abitudini fonetiche italiane» (I nomi ufficiali dei nuovi comuni aggregati alla provincia del Friuli e delle loro frazioni, «Rivista della Società filologica friulana», 4, 1923, 54-64). E nel 1933, nel discorso al XIV congresso della Filologica a Cordenons, dopo aver esaminato lo stato del friulano nei confini con le parlate che lo circondano, conclude: «Il governo mussoliniano ha rotto energicamente tutti i compartimenti stagni della vita nazionale, e va creando un completo rivolgimento della vita, che ha per naturale conseguenza lo smistamento regionale, promuove in tutti i modi la diffusione della coltura livellatrice e bonificatrice, primo e maggior mezzo per la elevazione del popolo, con istituzioni che vanno dall’Università al Dopolavoro, al quale noi apparteniamo. Soprattutto plasma una italianità migliore e nova, per cui a tutti, in Roma o nel più remoto angolo della terra, è orgoglio supremo sentirsi italiani. Risorge il ‘Civis Romanus sum’» (Ai margini della friulanità, «Ce fastu?», 9, 1933, 229-237). I tragici momenti in cui è avvenuta la scomparsa di P., il 17 luglio 1943, l’hanno fatta passare quasi inosservata. Lo ricordano, in un’apposita sezione a lui dedicata in un fascicolo di «Ce fastu?» di quell’anno, gli amici e studiosi T. Brusin, M. Bartoli e G. Vidossi, J. Jud, G. Bottiglioni, C. Tagliavini, S. Pop, E. Çabei, G. Serra, A. Farinelli, G. Crocioni, A. Menarini, S. Pellegrini, G. B. Corgnali. [G.Z.]
Ugo Pellis, fotografo
La sua attività fotografica iniziò nel 1925 e fu limitata alle inchieste svolte per la redazione dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI). In circa diciassette anni – le inchieste si interruppero il 27 agosto del 1942 quando avevano raggiunto un totale di 730 – P. realizzò 7156 negativi, che documentarono principalmente gli oggetti presi in considerazione, ma anche edifici o eventi. Nel corso del suo lavoro scientifico, P. si avvicinava lentamente alle località oggetto dell’inchiesta e per questo realizzava anche vedute dei paesaggi circostanti. I luoghi venivano così collocati in un contesto che li rendesse più comprensibili. Era inoltre solito ritrarre i suoi informatori sia all’interno delle loro abitazioni che all’esterno. Ai ritratti individuali furono spesso associate anche fotografie di gruppo. Le sue immagini sono da considerarsi dei testi complementari ai termini dell’ALI e si riferiscono a tutte le regioni italiane (escluse la Campania, la Puglia, la Basilicata e la Calabria), insieme al Carso sloveno, all’Istria, alla zona di Fiume ed alla Dalmazia. Per intraprendere la sua missione P. prese lezioni di fotografia da Arnaldo Polacco, socio dell’Istituto fotografico triestino, e incontrò spesso anche l’altro linguista-fotografo Paul Scheuermeier. P. fu molto preciso nel lavoro di archiviazione fotografica annotando per ciascuno scatto la data, talvolta completa di orario di ripresa, assieme ad informazioni tecniche come il tempo di esposizione ed il valore di apertura del diaframma. [A.G.]
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