Nacque a Montenars l’11 dicembre 1850 da Valentino e Anna Marcuzzi, umili montanari e devoti cristiani. Iscritto a quindici anni al Seminario di Udine, fu ordinato nel 1874 dall’arcivescovo Andrea Casasola. Dopo l’ordinazione fu, nel Seminario, docente per dodici anni di letteratura latina nelle classi ginnasiali, fino al 1881; laureatosi nel maggio 1887 all’Apollinare di Roma in diritto canonico, vi continuava con l’insegnamento di questa materia e di storia ecclesiastica. Durante l’episcopato di Berengo fu vicario generale diocesano dal settembre 1887 al 1896. Nel corso della malattia dell’arcivescovo, I., seguendo i dettami dell’enciclica Rerum Novarum, promosse lo sviluppo del movimento cattolico, specie sul versante delle opere economico-sociali. Il 1895 segna la svolta, improvvisa, nella fioritura delle opere cattoliche: dopo il XII congresso di Torino, in linea con le indicazioni papali, fu deliberato l’obbligo «per i vescovi ed i parroci di costituire i comitati». Il carteggio tra il segretario generale dell’Opera dei congressi, mons. Gottardo Scotton, e I. fa cogliere l’influenza veneta nell’organizzazione diocesana udinese. I. si decise a costituire, insieme con i Comitati periferici, anche quello centrale che, espressione dirigenziale del laicato cattolico, doveva, conforme al piano organizzativo, essere strumento nelle mani del vescovo. Vennero scelti esponenti cattolici grati al Berengo, di schietti sentimenti religiosi e di condizione civile agiata. Insieme con l’intenzione di dare sollievo alla popolazione rurale e ai ceti proletari come di migliorare quella colpita dall’emigrazione, il fine era quello di favorire un ampio programma di sostegno e di difesa della religione e della Chiesa. ... leggi L’organizzazione diocesana costituiva una struttura centrale indispensabile per guadagnare ai cattolici uno spazio politico. La lettera che I. inviò il 17 dicembre esprimeva la sua soddisfazione a dieci mesi dalla costituzione del Comitato diocesano. Pur contrastati dall’ordine pubblico, sorgevano i comitati parrocchiali. Nell’aprile furono indirizzate circolari ai parroci per chiarire gli scopi dell’Opera dei congressi e per sollecitarli a costituire i comitati. La pretesa dell’autorità ecclesiastica era che i comitati parrocchiali dovessero tener unite le masse nella Chiesa con l’attivismo religioso e sociale dei parroci. Il 16 giugno dello stesso anno si tennero le elezioni per il rinnovo dei consigli comunali e di quello provinciale. Falliva l’alleanza clerico-moderata; a Udine i cattolici decisero di non allearsi con i liberali, ma di presentare una propria lista. Nel 1896 fu indetta l’adunanza generale di tutti i Comitati e le Associazioni cattoliche diocesane. Imponente fu il numero degli interventi, dando la misura dello sviluppo, della vivacità e capillarità del movimento cattolico. In quell’anno I. fu scelto quale successore di mons. Zamburlini nell’episcopato di Concordia; fece il suo ingresso a Portogruaro – allora sede vescovile – nel gennaio 1898. Resse la diocesi per ventidue anni. Visse e operò in tempi di contrasti intransigenti, il che non lo aiutò a mitigare quella rigidezza caratteristica, già dall’età giovanile, del suo carattere. Nel governo della diocesi concordiese mantenne il programma già avviato come vicario generale nella diocesi di Udine. Essere un vescovo che rispondeva ai bisogni del suo popolo, questo per lui l’“antidoto” alla secolarizzazione. Nell’elogio funebre a lui dedicato fu sottolineato come «l’amore e la fedeltà alla Chiesa che lo rese vigile promotore della ecclesiastica disciplina» fossero state le qualità per cui la Santa Sede lo riconobbe idoneo. I. incontrò però gravi difficoltà nel presbiterio della diocesi di Concordia, segnata da un antico dualismo fra clero della parte “alta” e clero della “bassa”. Nelle vicende relative al modernismo fu abbastanza tollerante verso chi era sospettato d’eresia, come nei confronti di Giuseppe Lozer, parroco di Torre di Pordenone, e di Giovanni M. Concina, parroco di Prata. I. non ostacolò l’attività di questi preti democratico-cristiani, malvisti per il loro impegno sociale a favore dei ceti più umili, impegno – giudicato da molti come socialista – sul quale Pio X, in una lettera del primo aprile 1914, ammoniva il vescovo a vigilare. Nella grande guerra I. fu ligio alle direttive delle autorità, palesando un patriottismo concreto, tradotto in carità verso i bisogni del suo popolo. Trapelava tuttavia già qualche sentore della crisi finale, con veleni e dissidi, acuiti dal clima pesante dell’occupazione austriaca, nella quale il suo sforzo di mostrarsi pastore al di sopra delle parti, unito a qualche imprudenza, lo espose alle critiche. A differenza dell’arcivescovo di Udine Antonio Anastasio Rossi I., infatti, dopo Caporetto scelse di rimanere nella sua sede, attirandosi così l’accusa di essere, come gran parte del clero locale, austriacante. Gli fu riconosciuta durante l’occupazione austro-ungarica una grande solerzia caritativa verso tutti, e verso anche i militari di entrambi gli schieramenti. Rientrati a Portogruaro i reparti dell’esercito italiano il 3 novembre 1918, I. – che pur aveva fatto issare il tricolore al balcone dell’episcopio e si era intrattenuto con gli ufficiali congratulandosi per la vittoria – fu aggredito da facinorosi locali affiancati da elementi delle regie truppe. Devastato l’episcopio, I. trovò rifugio presso un casolare contadino, da dove stilava la nomina a vicario generale per don Celso Costantini, allora cappellano militare. Costui lo trasferì a San Giovanni di Casarsa e da lì I. raggiunse Roma e il Vaticano, esponendo con documentati memoriali quanto aveva fatto durante l’occupazione e chiedendo a Benedetto XV di essere sollevato dall’incarico. Iniziava per il vescovo – con un processo a suo carico per austriacantismo, chiuso il 21 ottobre 1920 da un’amnistia – un periodo fortemente logorante, sfociato – su discreta pressione papale e su richiesta del governo – nelle sue dimissioni. Se l’aggressione fu quasi certamente orchestrata (alla base vi erano possibili intrighi politici e livori ecclesiastici locali), la forzata uscita di scena di I. agli inizi del 1919 è da mettere in raccordo con la sua linea pastorale che aveva scontentato i clerico-moderati: tale malcontento fu esacerbato dalle tensioni relative al progetto avanzato da I. di trasferire a Pordenone la sede vescovile e del Seminario, intenzione giudicata come punitiva per la città di Portogruaro. I., con il titolo di vescovo titolare di Adrianopoli, ritiratosi nella casa paterna, ivi si spense a settantasei anni di vita, il 21 dicembre 1926, e a Montenars fu sepolto.
ChiudiBibliografia
«Rivista Diocesana Udinese», 17 (1927), 16-19; B. COLAVIZZA, La diocesi di Udine 1891-1906. Fermenti innovatori e tendenze conservatrici, Udine, IFSML, 1979; Storia portogruarese: la sede vescovile e il suo trasferimento, a cura di A. SCOTTÀ, Portogruaro, Il Fondaco, 1979, 111 s.; V. CHIANDOTTO, Stato e Chiesa nel Friuli occidentale (1900-1920), Pordenone, Coop. culturale G. Lozer, 1981; SCOTTÀ, Vescovi, II, 315-379, 508-509, 560-561, 568, 590; F. MARIUZZO, Cattolicesimo democratico e Modernismo tra Livenza e Tagliamento: Mons. Giuseppe Lozer (1880-1974), Pordenone, La Voce, 1999, 30-288; L. FERRARI, La Chiesa friulana nell’Ottocento, in Friuli. Storia e società II, 193-238; PIGHIN, Seminario I, 346-560; C. DONATO, L’episcopato di Francesco Isola nella diocesi di Concordia (1898-1919), Udine, Glesie furlane, 2009.
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