Nacque probabilmente a Todi nel 1455, figlio di Francesco e di Isabella degli Atti. Discendente di una famiglia di tradizioni militari, fu educato dall’umanista Antonio Pacini e si dimostrò fin dall’infanzia attratto dal mestiere delle armi. Insieme con gli Orsini, prima con Napoleone e poi con Virginio, del quale sposò la cugina Bartolomea, iniziò il suo tirocinio nell’ambito delle continue contese locali dell’Italia centrale; sempre con gli Orsini combatté, prevalentemente per il papa, dal 1478 al 1496 contro Firenze, nella guerra di Ferrara, e contro Carlo VIII. Allorché gli Orsini smisero di servire il papa e sui loro possedimenti si scatenò l’ira di Alessandro VI, fu grazie all’efficace opera dell’A. e di Bartolomea che il castello di Bracciano non cadde in mano nemica. La svolta nella sua carriera avvenne nel 1497, quando entrò in servizio nell’esercito veneziano sotto il capitano generale Nicolò Orsini; servì la Repubblica in Romagna e in Toscana, durante la guerra di Pisa, tra il settembre 1498 e la primavera del 1499. Nell’aprile del 1500 fu inviato in Friuli per pianificare la difesa della Patria che l’anno precedente era stata devastata dai Turchi e in giugno comunicò a Venezia che per resistere ad un attacco sarebbero stati necessari più di mille uomini d’arme, cinquecento cavalleggeri e quattromila fanti, ed anche con tale forza a disposizione si sarebbe potuto resistere «per sorte […] ma per raxon no». La situazione si presentava delicata anche per la difficile successione della contea di Gorizia, ma nei mesi successivi si dimostrarono falsi i timori che in Bosnia si stesse preparando un’altra azione contro il Friuli. ... leggi Quando a luglio fu a Capodistria l’A. accarezzò l’idea di entrare in incognito in territorio nemico per raccogliere informazioni; il proposito non ebbe seguito ma, nel maggio del 1501, a seguito di voci sui preparativi di un’altra scorreria, il condottiero era pronto a muoversi verso il Friuli. Poco tempo dopo inaugurò un periodo nel quale – in piena autonomia, ma in accordo con la politica della Serenissima – perseguì i suoi interessi in Italia centrale a fianco degli Orsini e dei Baglioni e, seguendo i primi nel loro passaggio dalle schiere francesi a quelle spagnole, contribuì in maniera determinante alla vittoria sul Garigliano (28-29 dicembre 1503), entrando così nel novero dei grandi capitani del tempo. L’A. era ritornato alle dirette dipendenze della Repubblica quando, verso la fine del 1507, Massimiliano I richiese a Venezia l’autorizzazione di attraversare la Terraferma con l’esercito per recarsi a Roma ed essere incoronato imperatore. In realtà si trattava di un pretesto per risolvere militarmente contenziosi pregressi che riguardavano la sovranità imperiale sulle città del Nord Italia e su alcune zone della Patria del Friuli e dell’ex contea di Gorizia, passata da poco agli Asburgo. Al rifiuto della Repubblica Massimiliano, il 4 febbraio 1508, diede inizio alle ostilità. Il piano offensivo, minato fin dall’inizio da una costituzionale debolezza finanziaria e dalla stagione poco propizia, fallì nelle sue prime mosse, sicché il 22 febbraio Massimiliano entrò nel Cadore, ma si limitò a prendere Cortina e Pieve di Cadore, dove lasciò 2500 uomini. All’A., che comandava la forza di riserva, fu ordinato di muoversi da Bassano verso il Cadore, e a Gerolamo Savorgnan, con le cernide friulane, di recarsi al Passo della Mauria per sbarrare un eventuale tentativo di calare in Friuli per la Val Tagliamento. Il 26 il Savorgnan raggiunse Lorenzago dove incontrò i maggiorenti cadorini che suggerirono di far percorrere all’A. la Val di Zoldo, varcare i 1528 metri di Forcella Cibiana e scendere a Valle di Cadore, piuttosto che risalire il corso del Piave. Il giorno dopo il dispaccio del Savorgnan con queste preziose indicazioni raggiunse a Belluno l’A. che il 28 si mise in marcia con una forza di circa 2000 uomini. A tappe forzate e seguendo il percorso suggerito nella neve alta e sotto fitte nevicate, raggiunse prima dell’alba del 2 marzo Valle, distante appena quattro chilometri da Pieve: poche ore dopo, in località Rusecco, l’A. annientò gli imperiali. La rotta compromise la capacità offensiva delle armi di Massimiliano ed il successo fu sfruttato tempestivamente: il 13 marzo l’A. uscì da Sacile e iniziò una fulminea campagna contro i territori imperiali. Il 14 prese le enclaves imperiali di Codroipo e di Belgrado, giunse a Udine il 15, e il 19 fu a Cividale, di cui rinforzò le difese. Dal 21 marzo al 7 aprile rimase a Tricesimo, da dove partì per riprendere le operazioni nello scacchiere sud-orientale della regione. La sera del 9 aprile si accampò sotto il castello di Cormons e il giorno dopo lo prese quasi di slancio, facendo seguire all’espugnazione violenze e saccheggi. Lasciatavi una guarnigione, il 13 aprile fu davanti a Gorizia che capitolò il 17; da lì distaccò alcuni reparti verso Plezzo per sorvegliare l’imbocco dell’alta valle dell’Isonzo e altri inviò a Vipacco, Rifembergo e Duino. Il 26 tutta la forza si ricongiunse a Prosecco, per muovere su Trieste che il primo maggio venne stretta d’assedio e cannoneggiata intensamente da terra e da mare. La città si arrese il 6 maggio, mentre l’A. proseguiva la sua marcia verso i possedimenti imperiali in Istria conquistando Pisino e giungendo vittorioso fino a Fiume. Nella sua marcia l’A. aveva trascurato l’enclave imperiale di Pordenone, allora una grosso borgo di circa duemila abitanti, i cui rappresentanti già il 15 marzo 1508 avevano iniziato a trattare la resa. La Repubblica accolse la dedizione della città il 18 aprile e il 20 giugno il senato concesse all’A., che l’aveva richiesta più volte, la signoria su Pordenone, Cordenons, Rorai Grande, San Quirino, Poincicco, Villanova e Noncello. Il 15 luglio l’A. ricevette l’investitura in Palazzo ducale e il 30 luglio si insediò a Pordenone con la moglie Pantasilea Baglioni, che aveva sposato dopo la morte di Bartolomea, e tutta la famiglia. L’aggravarsi della situazione politica internazionale e la formazione della Lega di Cambrai (10 dicembre 1508) che riuniva le maggiori potenze europee contro Venezia, consentirono all’A. brevi soggiorni a Pordenone; nell’aprile del 1509 lasciò il Friuli per recarsi in Lombardia ad affrontare l’esercito francese ed il 14 maggio, ad Agnadello, fu sconfitto e catturato dai Francesi. La situazione per Venezia si fece repentinamente disperata: al tracollo dell’esercito e alla perdita di buona parte della Terraferma si aggiunse il fallimento delle trattative per la liberazione dell’A. che Luigi XII fece internare in Francia; pertanto, qualche settimana dopo la cattura del marito, Pantasilea partì alla volta dell’Umbria con i figli. A Pordenone ripresero a contrapporsi il partito filo-imperiale e il partito filo-veneziano e negli anni successivi la sorte del feudo seguì l’oscillante fortuna delle armi venete. Pordenone tornò suddita di Massimiliano nel giugno del 1509, ma alla fine di luglio fu nuovamente sotto la Serenissima, concordando che da quel momento in poi fosse soggetta unicamente al dominio di Venezia e non all’A. Gli imperiali entrarono nuovamente a Pordenone alla fine del settembre 1511, ma circa un mese dopo i Veneziani la rioccuparono. Nell’aprile 1513 l’A., liberato da Francesco I che aveva stretto alleanza con Venezia, ritornò in Italia e fu nominato capitano generale dell’esercito veneto. La complessa situazione militare della Terraferma parve avviarsi verso una soluzione favorevole a Venezia allorché l’A., il 7 ottobre 1513, fu sconfitto presso La Motta, nel Vicentino, favorendo in tal modo la ripresa dell’attività militare di Massimiliano in Friuli. Proprio in quelle settimane il condottiero, che aveva mantenuto i propri diritti su Pordenone, impose ai sudditi un’imposta straordinaria di 4000 ducati e per raggiungere questo scopo il 4 novembre non esitò a sequestrare, per l’intera giornata, i membri delle famiglie più eminenti della città. Nonostante le proteste dei Pordenonesi, la Repubblica non intervenne per non alienarsi la devozione del proprio capitano generale che, avendo incassato solo 2600 ducati, pose sotto sequestro i beni dei cittadini di censo più elevato. Anche per questa ragione, verso la fine del 1513, i Pordenonesi iniziarono a trattare in segreto con gli imperiali: l’accordo raggiunto tra le due parti consentì il 13 febbraio 1514 a Cristoforo Frangipane, che stava conducendo l’assedio del castello di Osoppo, di entrare a Pordenone e di lasciarvi una guarnigione di più di settecento uomini. In quel momento tutto il Friuli, ad eccezione di Sacile e di Osoppo, era occupato dagli imperiali. L’A., impegnato a coordinare le operazioni contro gli Spagnoli attestati a Este, a Montagnana e a Vicenza, dopo numerose sollecitazioni da parte sua e prolungate discussioni a Venezia, il 24 marzo, fu autorizzato a muoversi verso il Friuli per rompere l’assedio di Osoppo. Partito la notte del 26 marzo da Treviso, lasciò Sacile il mattino del 28 alla volta di Pordenone. Attratta poco fuori della città la cavalleria imperiale e sopraffattala rapidamente, circondò le mura e iniziò a cannoneggiare il castello; il giorno successivo, attraverso due brecce, i suoi soldati irruppero in Pordenone. L’A. si ritirò a Cordenons, lasciando senza freno le truppe che per tutta la notte commisero violenze e saccheggiarono le case, le chiese e i beni di chi dalla campagna aveva cercato rifugio dentro alle mura. Il mattino seguente, riuniti a fatica gli uomini, si mosse verso Osoppo, ma ormai gli imperiali avevano abbandonato l’assedio e stavano fuggendo verso nord nel tentativo di sottrarsi all’inseguimento di Gerolamo Savorgnan. L’A. ancora una volta cercò di sfruttare il successo e già il 2 aprile stringeva d’assedio Gorizia che riteneva poco munita, ma il timore che nel Veneto la situazione potesse nuovamente precipitare lo persuasero a lasciare il confine orientale della Patria che, eccettuati Marano e Gradisca, era ormai ritornata sotto il controllo veneziano. Nei mesi successivi l’A. conseguì una serie di successi tra il Veneto e la Lombardia e fu il suo arrivo sul campo di Melegnano che, nel secondo giorno di battaglia (14 settembre 1515), consentì a Francesco I di rovesciare le sorti del combattimento contro gli Svizzeri. Poco dopo, mentre operava per riconquistare Brescia, cadde malato, ed il 7 ottobre 1515 morì a Ghedi. Forse l’ambizione dell’A. di avere una signoria propria, ma nell’Italia centrale, risaliva ai giorni nei quali si dissolse lo stato che Cesare Borgia aveva creato (1503): la brillante vittoria in Cadore e la fulminea campagna che la seguì mossero i Veneziani ad accondiscendere alle richieste del loro condottiero, plausibilmente per il timore che potesse andare sotto altre bandiere. Nonostante la cattiva fama, che ha resistito fino ai primi del Novecento, il comportamento dell’A. non fu peggiore di quello di altri signori del tempo. Il potere che lui e i suoi successori avevano il diritto di esercitare su Pordenone e i villaggi dipendenti era quasi illimitato, rientrando in quel tipo di giurisdizione separata che la Serenissima riconosceva in Terraferma. Il condottiero fu investito signore della rocca e della città di Pordenone con mero e misto imperio e con il diritto di trasmetterla agli eredi maschi, fatti salvi gli antichi diritti del comune e dei cittadini; ma poco dopo l’investitura estese la propria autorità sopprimendo la carica del podestà e sostituendola con un capitano di propria nomina, quindi violando un antico diritto della città; inoltre godé del diritto di amministrare la giustizia fino alla terza istanza, sicché i sudditi non potevano accedere all’ultimo grado di giudizio a Venezia. D’altra parte l’A. ed i suoi eredi maschi non potevano cedere il feudo senza il consenso della Repubblica, dovevano rimanerle fedeli, non potevano accogliere chi essa aveva bandito; i suoi sudditi erano tenuti a fornire prestazioni non militari per Venezia in caso di guerra, ma questa clausola fu successivamente modificata a solo vantaggio degli Alviano. Il prelievo fiscale esercitato sul feudo fu implacabile e sembrerebbe che fin dall’inizio la condotta dell’A. non fu irreprensibile perché, dopo Agnadello, il Senato accolse le richieste dei Pordenonesi e ordinò a Pantasilea di lasciare in loco i beni del marito per soddisfare i creditori. Al ritorno dalla prigionia furono probabilmente le necessità della guerra a spingere l’A. a inasprire la leva fiscale che colpì soprattutto le cospicue e infide famiglie di parte imperiale, ma non va dimenticato che negli stessi anni tutto il Friuli fu soggetto a taglie ingenti, sia da parte della Repubblica sia da parte dell’impero, proprio per il prolungarsi delle ostilità. La pagina più buia della signoria dell’A. rimane certamente il sacco di Pordenone che, secondo la testimonianza del provveditore veneto Iacopo Badoer, l’A. permise per «castigar li soi aziò li altri habino paura». Alla sua morte la vedova resse con mano ferma ed una certa sagacia economica il feudo fino alla maggiore età del figlio Livio che divenne signore di Pordenone il 22 marzo 1529, ma con riduzione dei suoi diritti e possibilità dei sudditi di appellarsi a Venezia in ultima istanza; quando questo morì senza eredi, nel 1537, la signoria passò sotto la giurisdizione diretta della Repubblica. Secondo una tradizione che risale a Paolo Giovio e che fu ripresa più volte, l’A. a Pordenone tenne presso di sé l’Accademia Liviana, indagata a fondo da Renata Fabbri. Il Giovio affermò che ne furono membri Giovanni Cotta, Gerolamo Fracastoro, Andrea Navagero e Gerolamo Borgia e secondo quest’ultimo appartennero all’Accademia anche Gerolamo Aleandro Aldo Manuzio e Marco Musuro. Malgrado queste testimonianze sono sorti dei dubbi sulla reale esistenza di un’accademia perché non ne è sopravvissuto alcuno statuto e le presenze dell’A. a Pordenone furono brevi e saltuarie. Certo è che l’A. ebbe un seguito molto numeroso e al suo servizio ci furono anche degli intellettuali come il Cotta, che fu poeta oltre che il suo segretario, e l’umanista veneziano Andrea Navagero che soggiornò certamente a Pordenone, seguì il condottiero sia ad Agnadello sia nella campagna del 1515 e compose la sua orazione funebre. Forse Gerolamo Fracastoro fu medico dell’A. nel periodo immediatamente precedente la rotta di Agnadello, ma per lui, come per le altre personalità citate, si potrebbe piuttosto pensare a brevi soggiorni, generalmente non attestati con precisione.
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