Nacque a Navarons, una piccola borgata del comune di Meduno (Pordenone), il 4 dicembre 1804, primo di sei fratelli, da Giuseppe e Caterina Passudetti. Ricevette la sua prima formazione nel Ginnasio di Portogruaro ove lo studio dei classici latini e, in particolare, di Cicerone rafforzò in lui l’avversione per la tirannide e l’adesione alle idealità democratiche a cui il padre precocemente lo aveva educato. Le morti della madre, avvenuta nel 1817 per parto, e del padre, nel 1827, lo costrinsero a concludere in tempi ravvicinati gli studi di medicina. Ottenne il diploma di medico operatore presso l’Università di Padova e nel 1832 iniziò ad esercitare la professione a Navarons e nei paesi della Val Colvera e della Val Tramontina, collegate da strade male praticabili, con spirito di abnegazione soprattutto nei confronti dei più poveri. Si valse della stima e della fiducia che era riuscito a procurarsi per diffondere tra i valligiani i principi politici mazziniani, facendo di Navarons un centro di educazione politica democratica. Nel 1835 sposò una cugina che si chiamava come la madre e che condivise pienamente gli ideali politici del patriota friulano. Da lei ebbe quattro figli: Silvio, Paolina, Italia e Rosina. Condivise le sue idealità democratiche anche il fratello Luigi che, emigrato in Francia nel 1844, partecipò attivamente a Parigi alla rivoluzione del 1848 e, dopo essere rientrato in Italia, fu sergente furiere nella legione Antonini, ritornando a Navarons dopo la capitolazione di Venezia. All’irrompere della rivoluzione del 1848 A. riuscì a costituire un nucleo di cento montanari con i quali marciò alla difesa del Tagliamento, ponendosi agli ordini del generale Alberto La Marmora e recandosi poi a combattere in Cadore con Pier Fortunato Calvi. ... leggi Nel 1854 accettò per ragioni economiche la condotta medica di San Daniele, un centro del Friuli nel quale la massoneria aveva attecchito. Insieme con il figlio Silvio, bersagliere, prese parte come ufficiale medico alla guerra franco-piemontese del 1859 contro l’Impero asburgico che si concluse con l’armistizio di Villafranca, considerato dai democratici del Partito d’azione come una “seconda Campoformido”. Esso, infatti, comportò la cessione della Lombardia al Regno di Sardegna senza che il Veneto e il Friuli venissero liberati dalla dominazione austriaca. Nel 1863 il Partito d’azione prese la decisione di non procrastinare il progetto della liberazione del Veneto e costituì in ciascuna delle Province venete un comitato d’azione con il fine di organizzare bande armate lungo tutto l’arco alpino dal Tirolo all’Isonzo per attuare un’insurrezione generale che avrebbe dovuto trascinare nel conflitto contro l’Austria i volontari di Garibaldi, il governo e l’esercito regio. L’esule Pogni il 14 marzo 1863, a Villanova di San Daniele, comunicò ad A., a nome di Mazzini e Garibaldi, il progetto insurrezionale che il cospiratore friulano approvò, assumendo la presidenza del comitato d’azione incaricato di attuarlo. La sollevazione, rinviata all’anno successivo, venne preparata fabbricando a Navarons un notevole quantitativo di “bombe all’Orsini”, che vennero distribuite anche nelle altre province, e introducendo in Friuli fucili, munizioni e polveri da mina. Vi furono due riunioni generali nella notte tra il 30 e il 31 maggio e in quella tra il 19 e il 20 agosto 1864 a Padova, in cui venne fissata la data del 4 settembre per l’insurrezione lungo la catena alpina e nelle città del Veneto, del Trentino e del Friuli. A ridosso di tale riunione la scoperta delle armi nascoste in Trentino e l’arresto dei congiurati provocarono un ulteriore rinvio dell’impresa che fu tuttavia ritenuta improcrastinabile nel momento in cui sembrò che la polizia austriaca fosse ormai prossima a scoprire l’intera organizzazione rivoluzionaria. Il 16 ottobre fu il giorno prescelto per l’inizio delle ostilità delle bande armate in Friuli e in Cadore. Alle due e trenta antimeridiane la banda di circa sessanta uomini comandata da Francesco Tolazzi, coadiuvato da Silvio Andreuzzi e Marziano Ciotti, lasciò Navarons in direzione di Meduno e verso le sei del mattino raggiunse Spilimbergo, penetrando nella caserma della gendarmeria, sequestrando le armi e facendosi consegnare dall’impiegato dell’esattoria comunale 565 fiorini. Si diresse quindi a Maniago ove entrò tra le dieci e le undici di quella mattina e prese poi la via dei monti, constatando l’indifferenza, venata di scetticismo e preoccupazione per le temute reazioni del governo imperiale, delle popolazioni locali. Verso le ventidue la banda, a cui si era unito A., raggiunse la località di Tramonti di Sopra e, tre ore dopo, salì alla Forcella di monte Rest, diretta in Carnia per occuparne i punti strategici e potersi poi congiungere alle bande del Cadore e del Bellunese che rinunciarono però al progetto insurrezionale, ritenendolo non praticabile. Le autorità civili e militari austriache proclamarono lo stato d’assedio e procedettero a una vasta azione repressiva che comportò l’arresto e la successiva carcerazione di 270 sospettati di aver sostenuto il moto, tra cui la moglie e le figlie di A. Trovando rifugio negli antri delle Prealpi carniche e ridotta numericamente a soli sedici uomini, la banda si scontrò sul Monte Castello il 6 novembre con una pattuglia austriaca partita da Andreis che lasciò sul campo un morto e due feriti. L’8 novembre la “banda di Navarons”, che si era trovata circondata dagli austriaci ed era riuscita a guadagnare la Forcella degli Agnelli – che fa parte del gruppo montuoso del Dodismala – si sciolse. I capi del moto insurrezionale, Silvio Andreuzzi, Francesco Tolazzi, Marziano Ciotti, Lodovico Michielini detto Vico, riuscirono a sottrarsi alla cattura e a raggiungere l’Italia. L’avventura più rocambolesca fu corsa dal più anziano tra gli insorti, A., che si rifugiò nella spelonca di Cuérda del Dodismala dall’8 al 26 novembre, ove scrisse una letteratestamento indirizzata alla moglie, in cui ricordava di aver sacrificato tutto, anche gli interessi di famiglia, all’emancipazione della patria. Negli ultimi giorni di novembre, «sfinito da 18 notti di patimenti crudeli», lasciò la caverna e riuscì, dopo aver perigliosamente raggiunto Casarsa, a organizzare il piano di fuga che lo avrebbe condotto prima a Padova e poi a Bologna. A. incontrò quindi a Torino i dirigenti del Comitato politico centrale veneto e l’11 dicembre, nell’isola di Caprera, Garibaldi, che riconobbe il valore dell’impresa dei patrioti friulani. Essa venne celebrata dal poeta marchigiano Luigi Mercantini nel poema in endecasillabi sciolti Le rupi del Dodismala e valutata nei decenni successivi non sempre in termini pacati sia come evento di scarso rilievo sul piano militare – dovuto all’impazienza di pochi illusi che avevano voluto agire da soli, sopravvalutando la volontà di insorgere delle popolazioni – sia come impresa che, pur non avendo conseguito l’obiettivo prioritario di far insorgere tutto il Veneto, costringendo il governo italiano a intervenire contro l’Austria, era servita tuttavia a far capire alla diplomazia europea che erano maturate le condizioni per affrontare con maggiore determinazione la questione veneta. Riserve nei confronti dell’insurrezione del 1864 vennero espresse dallo storico Carlo Tivaroni, che ne evidenziò i limiti dovuti sia alla situazione internazionale sia al fatto che, «perseguitata dal governo italiano, combattuta dai comitati moderati, impossibilitata a raggiungere il suo pieno sviluppo, diveniva impossibile e inutile». Il processo contro gli insorti si svolse a Venezia tra il gennaio e il febbraio del 1866 e si concluse con pene relativamente lievi per i patrioti friulani che riacquistarono la libertà nell’ottobre successivo, alla fine della terza guerra d’indipendenza, alla quale A. partecipò come tenente medico. Dopo la liberazione del Friuli, riprese a San Daniele la sua attività di medico e promosse la Società operaia di mutuo soccorso, ma una lunga e dolorosa malattia lo tormentò sino alla morte che lo colse in povertà il 20 maggio del 1874.
ChiudiBibliografia
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