Figlio di Pemmone, duca del Friuli, e fratello di Ratchis, anche A. si impose sulla scena in occasione dello scontro che vide opposti il duca Pemmone al patriarca Callisto. Recatosi a Pavia si sentì tradito da Liutprando, che aveva ordinato di arrestare tutti gli uomini del duca, ed estrasse la spada per colpire il sovrano, ma Ratchis riuscì a trattenerlo, salvandogli la vita. Già questo episodio mette in luce la personalità energica ed impulsiva che lo caratterizzerà fino alla morte. Dopo aver trascorso un periodo in carcere, i figli di Pemmone e i suoi fedeli ottennero il perdono di Liutprando, come è dimostrato dal fatto che Ratchis, sostituito il padre, divenne duca del Friuli. I due fratelli nel 742 guidarono quindi una parte dell’esercito regio durante la campagna contro gli Spoletini e si misero in luce per il loro valore. A. prese in moglie Giseltrude sorella di Anselmo e gli fu affidato il ducato del Friuli, dopo che suo fratello Ratchis divenne re dei Longobardi. Sebbene solamente alcune fonti generalmente tarde li ricordino, gli eventi successivi parrebbero confermare questa successione al vertice di una delle più importanti entità politiche del “regnum” e proprio il titolo di duca del Friuli consentì verosimilmente ad A. di destituire il fratello ed essere acclamato re. Tale svolta fu favorita dal cedimento di Ratchis nei confronti del pontefice con l’affermarsi della fazione favorevole ad una guerra ad oltranza. A., oltre ad assumere il titolo di “rex gentis Langobardorum”, definiva il suo disegno politico alludendo al “populus Romanorum” che gli sarebbe stato affidato da Dio, “traditum nobis a Deo”. Appare quindi palese che il nuovo sovrano e chi lo sosteneva intendevano portare a termine la conquista della penisola, cancellando definitivamente la presenza bizantina. ... leggi A. provvide ad estendere e definire gli obblighi militari, con il risultato che, dal 750, il suo esercito ottenne alcuni importanti successi. Conquistò Comacchio, Ferrara e quindi Ravenna, mentre è incerto riuscisse a sottomettere anche l’Istria bizantina. Il re tentò quindi di giungere, imponendo un tributo alle popolazioni del ducato romano, ad un’incruenta sottomissione di tutte le genti dei domini bizantini dell’Italia centrale. Il pontefice Stefano II si oppose a tali richieste, nonostante le devastazioni provocate dalle truppe longobarde in tutto il ducato. A. badò a non ledere i diritti spirituali della Sede apostolica, che avrebbe quindi potuto fare ricorso all’aiuto dei Franchi, visto che, a Costantinopoli, l’imperatore Costantino V non intendeva in alcun modo impegnarsi in Occidente. Da parte imperiale il ruolo di mediazione fu affidato al “silentiarius”, che seguì il pontefice quando questi, nell’autunno del 753, intraprese il suo viaggio verso il regno dei Franchi. Agli inizi di gennaio del 754 Stefano II incontrò a Ponthion Pipino che, contro la volontà della maggioranza dell’aristocrazia franca, memore dei vincoli di amicizia che legavano Longobardi e Franchi dall’epoca di Liutprando, si dimostrò invece favorevole ad intervenire militarmente in Italia. Del resto Pipino, fin dal 751, grazie all’assenso di papa Zaccaria, aveva scalzato finalmente dal trono Childerico III, ultimo sovrano merovingio, consolidando certamente il rapporto privilegiato fra la dinastia carolingia ed il papato. A Querzy, il 14 aprile, Pipino promise di cedere al pontefice le terre poste a sud della linea Luni-Monselice. A. si rivolse quindi a Carlomanno, fratello del re franco e monaco a Montecassino, che, estromesso dal potere, sebbene obbligato ad abbracciare la vita monastica, intendeva ostacolare i piani di Pipino. Questo tentativo non approdò a nulla in quanto il pericoloso antagonista fu definitivamente rinchiuso in un monastero presso Vienne, vittima dell’alleanza tra il fratello e Stefano II. Pipino mosse quindi contro A. e nell’agosto del 755, alle chiuse di Susa, sconfisse l’esercito longobardo. A., asserragliato a Pavia, fu costretto ad accettare le condizioni imposte dai vincitori che assediavano la capitale. Il re longobardo tuttavia non rinunciò alle sue mire e nel 756 mosse nuovamente contro Roma, ma anche questa volta, dopo essere stato nuovamente battuto presso Susa, fuggì a Pavia. Le condizioni furono ben più dure e fu costretto a restituire al pontefice, e non a Bisanzio, tutte le città dell’Esarcato che recentemente aveva conquistato, a versare un pesante tributo in denaro e a consegnare degli ostaggi. Le ambizioni di A. risultavano definitivamente ridimensionate e lo stesso peso politico del regno longobardo subiva un tracollo dal quale non si sarebbe più ripreso. A. fu quindi il protagonista, con Pipino e Stefano II, di uno dei periodi più gravidi di conseguenze del medioevo occidentale che consacrò in Italia il sorgere del potere temporale dei papi e vide il definitivo consolidarsi della monarchia carolingia oltralpe nonché l’affermarsi, a spese di Bisanzio, dell’influenza franca sulla penisola. Ad A. gli autori di parte pontificia riservarono, fra gli altri, degli epiteti quali “nefandus rex, tirannus, sequax diaboli, ecclesiarum Dei destructor”. Tale giudizio, almeno in parte fazioso, è frutto della polemica antilongobarda ben viva negli ambienti più vicini alla Chiesa romana ed appare anche in aperto contrasto con le misure prese dal sovrano in favore dei meno abbienti, delle istituzioni ecclesiastiche e con il proemio alle sue leggi, nel quale si definì obbediente all’insegnamento della sacra scrittura. A., fra l’altro, donò vasti complessi di beni ad Anselmo suo cognato, nei territori dove questi fondò le abbazie di Fanano e di Nonatola, e si distinse per la sua generosità in favore di Montecassino, San Vincenzo al Volturno e Farfa. Lo sfortunato sovrano longobardo morì nel 756 vittima di un incidente di caccia; il trono, dopo il breve intermezzo di Ratchis che aveva abbandonato la vita monastica, fu affidato a Desiderio, originario di Brescia e “comes stabuli” di A.
ChiudiBibliografia
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