Notaio, il suo esercizio professionale è documentato a Udine tra il 2 gennaio 1613 e l’11 ottobre 1642. La città lo chiamò a vari uffici dal 1626 al 1642: nel 1637 fu cameraro al banco dei pegni (così un appunto di Vincenzo Joppi nel manoscritto 435 del fondo Joppi della Biblioteca comunale di Udine). La cosiddetta Brigata udinese lo aggregò con lo pseudonimo di “Mitit” e il manoscritto 575 b del fondo Joppi della Biblioteca comunale di Udine («tutto di mano di Paolo Fistulario», Comelli), Compositions in furlan di trops queiettis par man di Turus, che rappresenta la Brigata in veste a suo modo ufficiale, ne raccoglie ventitre sonetti, quattro canzoni e un madrigale. Dei versi friulani Joppi postulava una stampa alta non rintracciata («si trovino le poesie friulane nella edizione delle costui poesie Udine Lorio 1618 in 12»). Gli pseudonimi stravaganti dichiarano il gusto della Brigata, la singolarità bizzarra della ricerca del nuovo, tipica del secolo: una scrittura che suppone un cerchio chiuso, che prevede un coro, una dialettica autoreferenziale, un gioco eccentrico nel reimpiego dissonante di tessere cristallizzate della tradizione. Larga udienza ha la tematica amorosa, pretesto e campo di privilegio del virtuosismo accademico, nel quale non ha ruolo (o ha ruolo fortuito, di mero accidente) l’apporto personale e quasi nulla è la realtà che filtra. Di Mitit inemoraat discende inequivocabilmente da Petrarca: un sonetto che insiste su una anafora vistosa («Benedet… benedettis… benedettis… benedettis…»), a marcare le strofe, con ritorni a inizio di verso, che in avvio esibisce un prelievo letterale («Benedet sei chel an, chel mees, chee hore…»), un ammicco fin troppo scontato e prevedibile, ad accertare subito l’abilità artigianale, il “poeta faber” richiesto dai postulati teorici del secolo, e non si considerano altri accorgimenti e altri contatti con la tradizione, con le sue metafore ossificate («luus», luci, occhi), ma va da sé che l’italianismo («principi e cause», per dire) ha parte primaria e non è indizio di debolezza, ma di oltranza. ... leggi Si legga: «Benedet sei chel an, chel mees, chee hore / ch’Amoor mi firì ’l cuur par te, mio ben, / benedet sei chel fuuch ch’in tal mio sen / mi bruse, mi tormente e m’adolore, // benedettis voo luus de mee signore, / principi e cause dal mio staat seren, / benedettis voo mans, voo chu fat plen / mi vees di chel plasee chu plui s’honore, // benedettis voo lagrimis pietosis, / benedez voo suspiirs chu di chest pet / iissiis tant spes in quantitaat sì grande, // benedettis in fin duttis lis chiossis / chu io par te supuarti, e d’ogni bande / la penne è dolce e lu torment dilet» [Benedetto sia quell’anno, quel mese, quell’ora che Amore mi ferì il cuore per te, mio bene, benedetto sia quel fuoco che nel mio seno mi brucia, mi tormenta e mi addolora, benedette voi luci della mia signora, principio e causa del mio stato sereno, benedette voi mani, voi che pieno mi avete fatto di quel piacere che più si onora, benedette voi lacrime pietose, benedetti voi sospiri che da questo petto uscite tanto spesso in quantità così grande, benedette infine tutte le cose che io per te sopporto, e da ogni lato la pena è dolce e il tormento diletto]. Sembra peraltro esperienza autentica l’amore per una vedova, – vedova di un conte, – pur se il nome Laura dà sospetto, e non mancano accenti grevi: chi ha provato il piacere più facilmente cede al desiderio. Ma la scrittura obbedisce ad altre intenzioni, è intellettualmente tesa nei suoi giochi. Rispetto al sonetto appena riferito risulta speculare (e basti l’anafora: «Maladì… Maladì… Maladì… Maladettis…») Di Mittit quintre Amoor, dove però importa il coacervo degli stilemi collaudati (il ritratto di Cupido, l’armamentario di arco e faretra): «Maladì sestu, Amoor, ci t’ha fedaat, / maladì see lu sen chu t’ha nudriit, / maladì see la fasse chu ’l schialtriit / to quarp tignì un timp invuluzzaat. // Maladì see lu veel chu ten bindaat / chel to zarneli faals e chel ardiit / to arch sei maladet chu m’ha firiit, / anzi m’ha ’l cuur in miez lu pet passaat. // Maladì see lu fuuch, maladì see / la faretre crudeel chu pent dal laas / di te supiarb arciir e vagabont. // Maladettis voo alis chu ’l portaas / in chest’ ed in chee part sì chu lu mont / prive d’ogni content, d’ogn’applasee» [Maledetto tu sia, Amore, chi ti ha partorito, maledetto sia il seno che ti ha nutrito, maledetta sia la fascia che lo scaltro tuo corpo ha tenuto un tempo avvolto. Maledetto sia il velo che tiene bendata quella tua fronte falsa e quell’ardito tuo arco sia maledetto che mi ha ferito, anzi mi ha il cuore in mezzo al petto trapassato. Maledetto sia il fuoco, maledetta sia la faretra che pende dal fianco di te superbo e vagabondo. Maledette voi ali che lo portate in questa e in quella parte sicché il mondo priva di ogni contento, di ogni piacere]. Sono i modi della “disperata”, adottati con sapienza di stile, con una sintassi non lineare, a negare ogni legame con il parlato, ed è intemperanza plateale «fedaat» partorito, messo al mondo, da riferire in prima battuta all’universo non umano (dal latino FETA, bestia che ha figliato), che qui investe la stessa dea dell’amore, Venere, madre di Cupido, con profanazione palese. Anche gli snodi apparentemente più liberi e diretti, anche gli scorci di paesaggio assecondano una strategia sottile, un rapporto stretto con la letteratura. Come questo ricamo invernale: «Di fred’ e dure glazz’ inghirlandaat / za ven lu viel’ inviarn […] // Chiale come dal bosch, dal chiamp, dal praat, / si secchi’ ogni virdure, e come plenne / la montagn’ è di neef […]» [Di freddo e duro gelo inghirlandato già viene il vecchio inverno (…) Guarda come inaridisce ogni verdura del bosco, del campo, del prato, e come è piena di neve la montagna (…)]. Un disegno che è tutto nitidezza, ma che vale come rovesciamento del “locus amoenus”, spazio geloso e incantato, cornice e figura delle delizie, della felicità piena. La prospettiva si sposta, incrinando valori acquisiti: sorprendendo, come il secolo richiede.
ChiudiBibliografia
Mss BCU, Joppi, 575/b, Compositions in furlan di trops queiettis par man di Turus; Ibid., Principale, 346, Rime friulane del secolo XVII (copia di J. Pirona); Ibid., Joppi, 435.
G. MARCHETTI, Gli pseudonimi sibillini della “Brigata udinese”, «Sot la nape», 13/3 (1961), 43-44; G. COMELLI, Il canzoniere friulano Joppi 575b, «Ce fastu?», 24-25 (1948-1949), 37-49; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 169-177.
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