Nata a Ceresetto di Martignacco (Udine) nel 1926, in un ambiente nel quale spicca la personalità della madre che gestiva la piccola distilleria di famiglia, studiò a Venezia e a Parigi, perfezionandosi in lingua e letteratura francese con una tesi su Pascal. Fu poi insegnante a Udine, città dove visse con il marito Luciano Morandini, condividendone il percorso intellettuale e artistico. Grazie a Morandini si avvicinò «al mondo culturale che in quegli anni gravitava intorno alle riviste ‘Momenti’ e ‘Situazione’, seguendo il dibattito legato al neorealismo friulano e all’impegno per un rinnovamento militante» (Ciceri). Negli anni Settanta approdò alla scrittura edita dapprima in italiano: è del 1974 la raccolta Incerte sono le parole. La produzione in friulano è posteriore al terremoto del 1976, cesura che scuote interiormente al recupero della lingua, non come scatto emotivo legato all’appartenenza friulana (ricorda la B. di essere stata fino a un certo punto vicina al gruppo di scrittori di Ceresetto, fino alla nascita di «Risultive»), ma come «coincidenza, quasi il simbolo di una frattura», l’emergere di una «crisi» che ridefinisce, anche linguisticamente, un mondo interiore (Ciceri). Nel 1978 uscì così Tasint peraulis smenteadis [Tacendo parole dimenticate], a ridosso sono Lapsus del 1983 e Antielegie per Tea, dell’anno successivo. Una breve silloge, dal titolo Sette cadute in A minore, edita nell’autunno 1987, poco prima della morte, è inclusa in una cartella di incisioni di Nevia Benes, con introduzione di Luciano Morandini. ... leggi Nel 1989 le è stata intitolata la Biblioteca civica di Martignacco e nel 2001, su iniziativa del DARS (Donna, arte, ricerca, sperimentazione), le venne dedicato un premio nazionale di poesia e un discorso al femminile sulla persona e la sua opera (Parole incompiuti segni), riconoscendone l’attenzione ai problemi riguardanti il mondo delle donne (oltre ad articoli e inchieste, la B. fu tra le promotrici del convegno La donna nella cultura e nella realtà friulana dal ’45 ad oggi, Martignacco, 1980). La scrittura di B. si misura con una sensibilità complessa e acuta e con riferimenti letterari che eludono confini angusti (rinvia in particolare ai simbolisti francesi). A un’immagine appartata e quotidiana corrisponde un «pensiero limato e stralimato, una rima infranta contro una dolorosa percezione del mondo» (Corbellini). L’esordio poetico ha così tratti maturi e stringenti. Vi si individuano già poli tipici e inquieti: la memoria della vita e del paesaggio friulano perduti, lo straniamento di fronte al ritmo della città; l’amore, come «vicenda di gioia e rimpianto», il gusto del ritratto che emana una «forza rigorosa piena di partecipazione e pietà» (Bàrberi Squarotti), e si fa esempio colmo di sofferenza e di dolorosa resistenza. Si vedano i versi sulla madre: «Sei stata una forza tu / come un incendio / hai bruciato i tuoi giorni nell’amore / grandi occhi verde mela / capelli neri come more». I titoli delle sezioni (Non troveremo i giorni sotterrati, In questa appena luce, Vorrei vedere gli occhi dei suicidi) rinviano alle difficoltà dei rapporti umani, al meccanismo della sottrazione, entro una tonalità elegiaca detta sull’orlo di una pienezza impedita («Non chiamare gelosia ridendo / con gli amici / questo terrore agghiacciante / aggrumante il sangue nelle occhiaie / di volgermi e trovarmi privata / di te / presenza non contaminata / in questo tempo acre di menzogna / cui nulla possiamo opporre / che la nostra disperante resistenza»). Il tema della morte spicca, non come resa ma come tensione e difesa dell’autenticità della vita, cui l’autrice partecipa («Invece di chiedere perché / vorrei cantarti il blues che ti piaceva […] e farmi ala a riportarti lieve / nella luce abbrividita dell’estate / in questa che per te non era vita / ma disperante vertigine di morte») dando la misura di una poesia «strenua, aspra, violenta, eppure capace di abbandoni dolcissimi, limpide evocazioni e invocazioni, colme di stupori, di grazia, di ruvide dolcezze» (Bàrberi Squarotti). L’ingresso nella letteratura in friulano ha i segni di una maturità poetica che abbraccia una lingua nativa prossima a «una perfetta koinè» (Ciceri), una lingua duttile che riesce a piegarsi senza forzature all’espressione di sentimenti e moti psicologici, grazie a uno stile raffinato e sicuro. Rienzo Pellegrini parla di «nitore stilistico come corrispettivo di un dato morale», non dunque una «cantabilità istintiva», ma «dominio e uso decente, padronanza della cadenza ritmica che può rinunciare alle pause superficiali della punteggiatura». La prima sezione di Lapsus è dedicata a Tea, giovane donna ricoverata in ospedale psichiatrico e morta a soli trentaquattro anni, i cui Quaderni pubblicati postumi (1975), ai quali Tea affida l’anelito all’incontro con l’altro attraverso la parola, giungono nelle mani di B. provocando un moto di solidarietà. Un frammento per Tea chiude, come lacerto denso di inquietudine, Tasint peraulis smenteadis, e si lega a Lapsus: «E tu malade di vite / il butul di rose dai tiei ains / ma dentri une tazze / di aghe invelegnade» [E tu malata di vita / il bocciolo di rosa dei tuoi anni / ma dentro un bicchiere / di acqua avvelenata]. Nell’introdurre questa raccolta Pellegrini mette in luce quanto tenuto nei titoli: la direzione verso un tu «magari muto» ha come contrappunto la «crisi linguistica», e continua a tessere un percorso che, pur non rettilineo, termina con la «resistenza aperta all’angoscia», con una forma di solidarietà che nasce dal non abbandono alla consapevolezza della solitudine. In ciò il dialogo impossibile con Tea (cercando «tal berdei des tôs peraulis / il fîl che mi puarti a cognossiti frute» [nel groviglio delle tue parole / il filo che mi porti a conoscerti bambina], per «savê il sium spaurît / che ti à siarade l’anime par simpri / in oris traviarsadis di tuessin» [sapere il sogno spaurito / che ti ha chiuso l’anima / in ore attraversate di tossico]), prendendo a «pretesto» i Quaderni, dà evidenza a un sentire che non è privilegio della malattia, ma dato esistenziale, e intreccia temi, situazioni e immagini che percorrono le raccolte di B., tra «disperante vertigine di morte», ritegno nell’espressione pur intensa degli affetti, corsa cieca del presente, e desiderio di un oltre mitico che intoppa con la vita: «‘o vorès usgnòt di lûs vistude / incuintri a’es stelis cjaminâ» [vorrei stasera vestita di luce / incontro alle stelle camminare]. Rifuggendo il descrittivismo ma mutuando un fraseggio melodico, la poesia di B. pone il lettore di fronte a un continuo interrogarsi, dove il contrasto campagna-città, il paese straziato dal sisma, il quotidiano vivere e pensare, tra «abbandono e nostalgia» (Faggin) sono resi con sintassi sapiente, metafore e simboli ricorrenti, volute difficili, ma non si chiudono alla delicatezza e alla sensualità di versi intimamente lirici («Rose di rosade tal mês des rosis / lidrîs inlidrisade tal scûr di me / a sflurî mistereôs maruscli / di macs indarintâz ex-voto» [Rosa di rugiada nel mese delle rose / radice inradicata nel buio di me / a fiorire misteriosa pianta pungente / mazzi inargentati ex voto]): la seconda parte di Lapsus compone un intenso canzoniere d’amore nella forma della corona calendariale.
ChiudiBibliografia
Opere di E. Buiese: Incerte sono le parole, Prefazione di G. Bàrberi Squarotti, Padova, Rebellato, 1974; Tasint peraulis smenteadis, con Nota a due voci (intervista a B. di A. Ciceri), Udine, SFF, 1978; Lapsus, Prefazione di R. Pellegrini, Udine, SFF, 1983; Antielegie per Tea, Bologna, Seledizioni, 1984; Sette cadute in A minore, Udine, Campanotto, 1987.
DBF, 127; R. PELLEGRINI, Aspetti e problemi della letteratura in friulano nel secondo dopoguerra, Udine, Grillo, 1981; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 76-77, 438-461; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 290-295; R. CORBELLINI, Intervento del 16 dicembre 1989 in occasione dell’intitolazione della Biblioteca civica di Martignacco, in Parole incompiuti segni. Letture critiche e antologia di poesie di Elsa Buiese, a cura del DARS, Martignacco (Udine), s.n., 2001.
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