Nacque nel 1566 in una famiglia di origine lombarda che solo da un paio di generazioni si era trasferita in Friuli, fissando la sua residenza a Udine dove il nonno era «speziale alla insegna del Moro». Figlio primogenito di Giacomo, dottore in legge, e di Chiara del Merlo, compì i primi studi presso le scuole pubbliche udinesi per essere poi avviato allo studio della giurisprudenza presso l’Università di Padova dove ebbe per maestro il celebre Giacomo Menochio e si addottorò in civile e in criminale il 7 marzo del 1589 con un discorso che è possibile leggere ancora oggi tra le sue carte manoscritte. Tra esse sono conservate anche le lezioni «super primo libro Institutionum» tenute da Marcantonio Ottelio tra il novembre del 1581 e il giugno del 1582 su temi che avrebbero poi costituito un interesse teorico costante del C. che, sebbene non abbia pubblicato alcunché in materia giuridica, lasciò tracce di una costante riflessione intorno ad alcune tematiche ricorrenti nella sua speculazione: lo “ius patriae potestatis”, la tutela (De pupilli educatione mortuo patre è il titolo di una sua trattazione manoscritta), ma anche più generalmente il diritto successorio, i testamenti, le donazioni. È ancora un’orazione, recitata il 4 novembre 1590, a indicarci che, tornato alla sua città, «inciperet publice interpretari Institutiones iuris civilis». Intraprese parallelamente, forse sotto la guida del padre, la professione forense, come testimoniano le carte di alcuni processi che lo vedono agire in differenti vertenze o i pareri legali che forniva proprio in materia successoria. Messosi in luce dunque per la sua competenza giuridica, provata nella teoria e nella pratica, fece il suo ingresso nelle istituzioni di governo cittadino: aggregato al consiglio nobile in via “ordinaria” e “perpetua” nel 1596, avrebbe rivestito molti uffici straordinari prima e dopo questa carica. ... leggi Solo per citarne alcuni, nel 1592 era “giudice de’ pupilli”, nel 1593 conservatore del Monte di pietà e avvocato dei luoghi pii, nel 1595 contraddicente e ancora conservatore del Monte, nel 1597 censore, nel 1598 provveditore alla sanità di fuori e membro della giunta. Nei primi anni del Seicento, consolidato il suo prestigio all’interno del gruppo di governo cittadino, più volte sarebbe stato uno dei sette deputati, in diverse occasioni nominato oratore in rappresentanza della città e delle sue ragioni, come nel 1607 quando avrebbe difeso le posizioni degli Udinesi contro i castellani della Patria. Nel 1599 spettò a lui, come deputato, recitare l’orazione nella pubblica cerimonia di congedo per la conclusione del mandato del luogotenente veneziano Stefano Viaro; discorso d’occasione stampato, nello stesso anno, per sollecitudine di Giovanni di Strassoldo, dove tuttavia traspare ancora vivo il ricordo della «mortal et pestifera fiera», «la peste malvagia», che l’anno precedente dalla Germania era scesa in Friuli e penetrata in città, e della drammatica emergenza sanitaria che aveva impegnato le magistrature di governo e il C. stesso in qualità di provveditore alla sanità. Si può pensare che l’abilità oratoria, irrobustita da una solida preparazione tecnico giuridica e da un altrettanto vivo e praticato interesse per le lettere e gli studi umanistici – ne sia prova un discorso tenuto all’Accademia di Udine nel 1595, in cui affronta il tema «del genere, soggetto e fine della retorica» – lo segnalassero come soggetto adeguato a rappresentare degnamente la sua terra in più di qualche cerimonia pubblica. Anche anni più tardi sarebbe stato affidato a lui – in questa occasione rappresentante del parlamento, scelto tra i prelati – il discorso con il quale nel 1616 la Patria del Friuli rendeva omaggio a Giovanni Bembo, appena insediatosi doge. Due orazioni occasionali – la partenza di un luogotenente, l’esordio di un doge – rappresentano l’intera produzione data alle stampe di un uomo di solida cultura giuridica, prolifico nella sua riflessione, ordinato, attento conservatore non solo delle sue carte, ma anche di quelle lasciate dal più noto fratello Pompeo, medico e filosofo, di cui avrebbe curato l’edizione postuma di alcune opere, promuovendone il pensiero e ricercando il giudizio competente di illustri uomini di lettere come il conterraneo Ciro di Pers. Il C. rimase importante riferimento per tutta la vita della sua rete familiare, destinatario privilegiato delle centinaia di lettere del fratello Pompeo; sollecito promotore degli studi e delle carriere dei due nipoti, Eusebio e Giacomo, i figli dell’altro fratello, Marcantonio, che aveva portato il carico, in quella generazione, della continuazione della stirpe e della cura degli interessi familiari e principalmente delle proprietà di Tissano, feudo di cui i Caimo erano investiti e che valse loro il titolo comitale. Sebbene nei primi anni del Seicento la natura di alcuni degli incarichi pubblici che lo riguardavano gli avesse dato la possibilità di uscire dal raggio di competenza amministrativa municipale per allargarsi a quella statale – nel 1605, sotto la luogotenenza di Giuseppe Morosini, venne nominato provveditore ai confini per dirimere una delle ripetute controversie che segnavano l’incerto e insicuro confine orientale della Repubblica di Venezia –, queste occasioni d’impiego rimasero episodiche e non fu per questa strada che si sarebbe compiuta, negli anni successivi, la vita pubblica del C. Scrive il Liruti: «Non so da quale motivo spinto, certamente da ispirazione celeste deliberò di abbandonare, quantunque a lui onorevoli molto, quest’impieghi e la vita civile, e di arrolarsi tra gli ecclesiastici». L’influenza raggiunta dal fratello Pompeo presso la corte di Roma, come medico del cardinal Montalto, nipote di Sisto V, aveva aperto anche per fratelli e nipoti dell’illustre archiatra buone possibilità di carriera e l’ottenimento di ambiti benefici: lo stesso E., in una sua preziosa cronaca, resoconto periodico di avvenimenti personali e pubblici, Vacchetta o registro di memorie di cose notabili della famiglia e della città e di affari speciali scritto da Eusebio Caimo vescovo di Cittanova dal 1 ottobre 1610 a 9 agosto 1640, gliene attribuisce pienamente il merito. La sua carriera ecclesiastica si sarebbe snodata con una progressione sempre più prestigiosa, anche se tutta interna all’ambito del patriarcato aquileiese. Sul finire del 1612 gli si offrì l’opportunità di subentrare al canonicato lasciato vacante da monsignor Fenicio «meritatissimo Decano di Aquileia» e il 21 novembre 1614 celebrò la sua prima messa in Udine in S. Maria delle Grazie. Cinque anni più tardi, il 21 ottobre 1619, in seguito alla morte del vescovo Francesco Manin, il C. fu nominato vescovo di Cittanova d’Istria da Paolo V. L’intercessione sia del cardinal Montalto che dell’ambasciatore veneto Girolamo Soranzo, per tramite del fratello Pompeo, si sarebbe rivelata determinante. Arrivato a Roma, vi rimase quattro mesi nei quali venne esaminato in iure civile e canonico da Paolo V, da sei cardinali e da altri sei esaminatori e infine consacrato vescovo dal cardinale Benedetto Giustiniano nella cappella di Paolo V a S. Maria Maggiore. In tale veste il 28 ottobre del 1620 tenne il «primo sermone fatto da me Eusebio Caimo vescovo di Cittanova il giorno di SS. Simone e Giuda apostoli nella mia chiesa cattedrale alla mia prima messa solenne». Guidò la diocesi con sollecitudine come testimoniano i suoi Libri del Vescovado dove sono annotati non solo gli ordini e le memorie del periodo della sua reggenza ed è raccolta documentazione di quelli antecedenti, ma anche i fascicoli che registrano la conduzione economica: le riscossioni dei vari quartesi, delle decime, dei livelli di diverse ville, degli affitti «di biave», l’affittanza delle peschiere. Al ruolo di vescovo di Cittanova che, in quanto diocesi appartenente del patriarcato aquileiese, gli aveva consentito quindi di fregiarsi dell’appellativo di “suffraganeo” del patriarca, E. assommava anche una ben più prestigiosa funzione nel governo della provincia ecclesiastica: quella di vicario generale del patriarca, mantenendola sotto i patriarcati di Antonio Grimani e di Agostino Gradenigo, come testimoniano alcune lettere, conservate nell’archivio della famiglia, inviategli dai due metropoliti, spesso assenti dalla sede e altra corrispondenza indirizzata a lui o direttamente al palazzo patriarcale o in qualità di vicario. Il Paschini lo segnala anche vicario, in precedenza, di Ermolao Barbaro. Nel 1640 fece libera rinuncia del vescovado nelle mani di papa Urbano VIII, non senza procurare di garantirvi la successione al nipote che portava il suo stesso nome. Morì in Istria, a Verteneglio, il 19 ottobre 1640, ma fu sepolto nella chiesa della Beata Vergine delle Grazie di Udine. A ricordarlo l’iscrizione di una lapide che lui stesso, negli ultimi giorni della sua vita, aveva commissionato.
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Molte notizie sul C. e suoi scritti in ASU, Caimo, particolarmente 53, 54, 57-59, 71, 79, 81-83; ms ACAU, Fondo nuovi manoscritti ex fondo Vale, 736.9; mss BCU, Principale, 426, 465, 469; BCU, CA, 236; BCU, Joppi, Genealogie, fam. Caimo.
E. CAIMO, Oratione de l’eccellentissimo sig.r Eusebio Caimo d. uno dei molto illustri signori sette deputati della città di Udine a l’illustrissimo sig.r Stefano Viaro luogotenente de la detta città, et di tutta la Patria, ne la sua partenza, Udine, Natolini, 1599; ID., Oratione del signor Eusebio Caimo udinese, d. e canonico d’Aquileia uno delli tre ambasciatori della Patria del Friuli, mandati a rallegrarsi col serenissimo novo prencipe di Venetia Giovanni Bembo, Udine, Lorio, 1616.
CAPODAGLI, Udine illustrata, 197-199; LIRUTI, Notizie delle vite, IV, 198-199; PASCHINI, Vicari, 28; A. MICULIAN, Eusebio Caimo: visita alle chiese della Diocesi di Cittanova (1622-1623), «Atti. Centro di ricerche storiche. Rovigno», 19 (1988-1989), 143-180; C. LORENZINI, Per una definizione di santuario. Raveo, 1625 e dintorni, «Metodi e ricerche», n.s., 27/2 (2008), 151-170.
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