Nacque in Friuli intorno al 1480. Quanto al luogo, i biografi propendono per Portogruaro, ma secondo G. Cesarini C. sarebbe nato a Zoppola; quanto alla data, Liruti congettura il 1479. Neppure il nome è sicuro: poiché il Castelvetro ci informa che fu battezzato come Bernardino, Giulio Camillo sarà da considerarsi come il “nom de plume” del fervente ciceroniano che egli fu; il cognome Delminio deriverebbe, secondo Francesco Patrizi, dall’antico toponimo della città dalmata di Dumno, dalla quale si trasferì in Friuli il padre di C., di ricca famiglia croata. Dopo i primi studi di umanità a Portogruaro e Venezia, C. frequentò lo Studio patavino, ma non è noto se conseguì la laurea. Negli stessi anni, secondo il Liruti, C. «si pose allo studio della lingua Ebraica, e delle altre orientali difficilissime […] ed inoltre si era internato nelle cose astrusissime della cabala ebraica, o delle mistiche loro tradizioni, ed era informato de’ dogmi misteriosi, ed oscurissimi degli Egiziani, de’ Pitagorici, e de’ Platonici». Al suo ritorno a Venezia, nei primi anni del Cinquecento, entrò nell’ambiente degli Asolani e conobbe Erasmo da Rotterdam, che nelle sue lettere ricorda di avere con lui diviso il letto in casa di Aldo Manuzio, e di averlo più tardi apprezzato come valentissimo oratore a Roma. Qui C. strinse rapporti di amicizia col cardinale Egidio da Viterbo, uno tra i più grandi cabalisti cristiani del Rinascimento. Nei primi due decenni del secolo C. fu professore di eloquenza a San Vito e poi maestro di umanità a Udine, avendo per alunni Alessandro Citolini, Cornelio Frangipane e Cornelio Musso. ... leggi Andava maturando intanto il progetto per cui divenne personaggio tra i più famosi e chiacchierati del suo tempo: il Teatro della memoria, work in progress che lo impegnò tutta la vita. Concepì dapprima un repertorio che mettesse a disposizione, in ordine alfabetico, la grande mole di passi da lui ricavati mediante la scomposizione di classici latini e italiani, utilizzabili per la composizione di nuovi testi poetici od oratori attraverso raffinati artifici combinatori che furono celebrati dall’Ariosto, dall’Alamanni e da Bernardo Tasso. Dal semplice lessico e dal mero orizzonte retorico, C. passò a ideare un dizionario analogico ed enciclopedico, organizzato secondo uno schema universalmente valido e comprendente la totalità del sapere, e si rifece ai precetti della mnemotecnica che prescrivevano la creazione mentale di sistemi di luoghi (“loca”) contrassegnati da immagini evocative (“imagines agentes”) nei quali distribuire le parti del discorso (“verba”), rendendone agevole il recupero alla memoria. Scartati altri modelli, C. pervenne alla scelta di utilizzare come edificio mnemonico un teatro, e di realizzarlo materialmente. Molti dubitarono che il Teatro della memoria fosse mai stato costruito, ma due lettere di Viglio Zwichem a Erasmo da Rotterdam testimoniano inconfutabilmente che nel 1532, a Venezia, C. stava ultimando un edificio ligneo in grado di accogliere almeno due persone. Vi entrò Viglio, e riferì di aver visto un gran numero di cassette, disposte secondo diversi ordini e gradi e contrassegnate da immagini. C. gli presentò la sua opera definendola, tra l’altro, una “mente” e un’“anima artificiale”. Il Teatro era destinato al Francesco I re di Francia, che da due anni stipendiava C. per la realizzazione dell’opera di cui si era assicurato l’esclusiva (di qui forse il segreto di cui C. circondò l’opera, attirandosi non pochi sospetti). Soltanto in prossimità della morte C., che nulla diede alle stampe in vita, dettò all’amico Girolamo Muzio L’idea del Theatro, operetta sommaria in base alla quale la storica Frances Yates ha ricostruito il Teatro della memoria immaginando un impianto vitruviano alla rovescia: in luogo della scena gli spettatori/fruitori, ai quali su sette ordini di gradinate, suddivise in sette settori, si offriva lo spettacolo di un congegno memorativo articolato in quarantanove luoghi (forse a loro volta settuplici) individuati da un singolare sistema di coordinate derivate sincretisticamente dall’astrologia, dalla cabala, dalla mitologia, e contraddistinti da immagini dipinte. Non sono mancate, a cominciare da quella della Yates, le interpretazioni del Teatro in chiave occulta magico-mistica; altrettanto suggestive e legittime sono quelle che vedono in esso una sorta di enciclopedia ipertestuale e multimediale o addirittura, come già intravide Marchetti, un antenato del “cervello elettronico”; certamente voleva essere anche una macchina combinatoria e generativa. Intorno a tale disegno tutte le altre opere di C. – trattati, poesie, discorsi – si configurano come una costellazione intorno a un centro di gravità e, se rivestono interesse in ciascun ambito specifico, in quello trovano una chiave di lettura sistematica. Tra il 1520 e il 1530 il «divino» C., come da molti era salutato, condusse vita mobilissima, tessendo una fitta rete di rapporti con eminenti letterati ed artisti, tra i quali il Bembo, l’Aretino, Francesco Zorzi, Girolamo Muzio, Romolo Amaseo, Marcantonio Flaminio, Achille Bocchi, Trifon Gabriele, Veronica Gambara, Sebastiano Serlio, Francesco Salviati, Tiziano. A quest’ultimo C. si rivolse per la realizzazione delle “imagines agentes” del suo Teatro; una copia dell’Idea del Theatro corredata da duecentouno fogli di pergamena dipinti da Tiziano, conservata nella Biblioteca dell’Escorial, andò distrutta nell’incendio del 1671. Nel 1521 C. fu a Bologna come lettore di umanità, nel 1524 a Padova; nel 1525 a Genova, nel 1527 a Pordenone, nel 1528 a Venezia, Portogruaro, San Vito, Gemona; nel 1530 di nuovo a Bologna per assistere all’incoronazione imperiale di Carlo V, poi ancora in Friuli e finalmente, in compagnia dell’amico Muzio e del conte Claudio Rangoni, si recò in Francia. A Parigi ritrovò il vecchio amico Benedetto Tagliacarne («Theocrenus»), conobbe l’Alciati, strinse amicizia con lo Sturm, che di lui fece lodi al Bucer, si attirò l’inimicizia del Dolet e non poche invidie per aver ricevuto da Francesco I una lauta commissione per il promesso Teatro. Nello stesso torno di tempo C. intervenne nelle diatribe innescate dal Ciceronianus di Erasmo diffondendo un discorso pubblicato postumo con il titolo Della Imitatione, in cui egli sosteneva un modello stilistico di purezza ciceroniana in opposizione all’eclettismo erasmiano. Erasmo stesso la confuse con l’aspra Oratio di Giulio Cesare Scaligero e ad essa – e al Discorso in materia del suo Theatro scritto da C. al suo ritorno in Italia – rispose nel 1531 con l’Opulentia sordida, mentre chiedeva informazioni a Viglio Zwichem, al quale come detto si deve la prova dell’esistenza di un Teatro ligneo. Di esso (presumibilmente smontabile per poter essere traportato in Francia) nulla è rimasto; sappiamo però che Alessandro Citolini si impadronì di parte del materiale scritto ricavandone la Tipocosmia, al termine della quale si irride al Teatro di C., presentato come una grande sfera. Questo pare suffragare l’ipotesi che in realtà si trattasse di un anfiteatro, come altre testimonianze riferiscono, di forma quindi circolare, simile forse al Tempio della pittura del Lomazzo. Nel 1533 C. ottenne dal governo veneziano un privilegio per un Petrarca novo con l’artificio di Iulio Camillo, che però non fu mai dato alle stampe. I successivi viaggi in Francia furono occasione di polemiche alle quali C. rispose con la Pro suo de eloquentia Theatro ad Gallos oratio. Nel 1536 C. iniziò a cercare un nuovo mecenate, rivolgendosi inutilmente ad Ercole II di Ferrara: la vicenda francese si era conclusa con la delusione di Francesco I. Negli ultimi anni della sua vita C., ridotto in miseria, dedito a pratiche alchemiche, si propose di recarsi in Croazia, dove lo aspettava una ricca eredità. Nel 1542 era invece a Ginevra, ove la sua presenza suscitò i sospetti di Calvino; forse negli ambienti riformati C. sperava trovassero favore le sue idee eterodosse, ermetiche e astrologiche. Trovò finalmente un nuovo committente per il suo Teatro in Alfonso d’Avalos, marchese del Vasto, governatore di Milano ma in questa città, dopo un ultimo viaggio in Friuli, morì improvvisamente il 15 maggio 1544. Alla morte di C. tutte le sue opere giacevano manoscritte. Nello stesso 1544 furono editi a Venezia i Due trattati dell’eccellentissimo M. Iulio Camillo: l’uno delle Materie che possono venire sotto lo stile dell’eloquente, l’altro della Imitazione; nel 1550 sia a Venezia che a Firenze fu edita l’Idea del Theatro, e l’anno dopo furono date alle stampe le Due orationi di Giulio Camillo al re christianissimo. Nel 1552 il Dolce curò per l’editore Giolito de’ Ferrari Tutte le opere in un volume contenente il Discorso in materia del suo Theatro, la Lettera del rivolgimento dell’huomo a Dio, i Due trattati delle materie e dell’imitatione, le Due orationi e le Rime (ventuno sonetti e un’ode). Il volume fu ristampato nel 1554 e nel 1555; nel 1560 Giolito lo ripropose con l’aggiunta di undici sonetti e un’ode, del trattato De’ verbi semplici e di sette lettere, e lo fece seguire da un secondo contenente La Topica, il Discorso sopra Hermogene, l’Espositione sopra il primo et secondo sonetto del Petrarca, la Grammatica e due lettere. I due volumi di Tutte le opere furono ripubblicati nel 1566-67 a cura di Tommaso Porcacchi, con l’aggiunta di una «tavola di cose notabili» e una lettera, e ancora nel 1568, 1579 e 1580. Nel 1579 uscirono presso Domenico Farri L’opere di M. Giulio Camillo, riproposte nel 1584 presso Alessandro Griffio. Nel 1553 il Giolito pubblicò il Petrarca novissimamente revisto, e corretto da M. Lodovico Dolce. Con alcuni dottissimi avertimenti di M. Giulio Camillo e, dopo le ristampe del 1544, 1577, 1558, 1560, gli Avertimenti a parte come Annotationi di M. Giulio Camillo sopra le Rime del Petrarca. Nel 1560 fu parzialmente pubblicata a Venezia, presso Rampazetto, la Topica; nel 1571 a Parma uscirono, presso Seth Viotto, i Sermoni della cena di Nostro Signore Giesu Christo, composto dall’eccellente Signore Giulio Camillo Gentil’huomo Firentino [sic]. Nel 1587, presso Somaschi, in Venezia, la Pro suo de eloquentiae Theatro ad Gallos oratio preceduta da 81 esametri Ad Petrum Bembum. Nel 1594 a Udine presso Natolini fu pubblicato l’Artificio della Bucolica di Virgilio a cura di Gian Domenico Salomoni, assieme a Le Idee, overo forme della oratione da Hermogene considerate et ridotte in questa lingua; entrambe ripubblicate nel 1602 col titolo Artificio sì dello scrivere et giudicare le ben scritte orationi come anco dell’orare per via delle Idee di Hermogene. Con alcune bellissime considerationi sopra la Bucolica di Virgilio, e ancora nel 1608 come Modo del ben orare e del comporre le orationi cavate dall’idee del dottissimo Ermogene. Iniziò poi l’oblio del grande retore e della sua utopia: una sorta di damnatio memoriae dovuta alla censura controriformistica e illuministica, durata sino agli anni Sessanta del secolo scorso.
ChiudiBibliografia
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