Nacque, nel 1883, e visse a Gorizia, città che non abbandonò se non per un breve periodo durante la grande guerra. Proveniva dal borgo di Piazzutta, uno dei più popolari della città, dove l’adesione al friulano era viva e il sentimento di separazione dalla madrepatria si nutriva anche in termini linguistici. Di umili condizioni, dopo i corsi presso l’Istituto tecnico, frequentò per un breve periodo l’Accademia delle belle arti di Venezia, ma, venuta meno la borsa di studio concessagli dalla giunta provinciale, nel 1902 entrò nell’amministrazione comunale di Gorizia, stabilmente presso l’ufficio tecnico dal 1908, mentre fu anche ausiliario della Biblioteca comunale. Con Carlo Battisti, che ne stese un limpido ritratto, collaborò alla sistemazione della Biblioteca statale e della Biblioteca civica, dove prestava servizio nelle ore libere. Di sentimenti filoitaliani, nel 1907 fondò una sezione del Partito repubblicano, attirandosi il sospettoso controllo da parte delle autorità (partecipa attivamente anche alla antiaustriaca Unione ginnastica goriziana, esponendosi contro la politica dell’Impero). Nel 1915, per evitare il reclutamento nelle file austro-ungariche, tentò la fuga in Italia, ma inutilmente e, spedito ai confini ungheresi, riuscì a disertare solo nel 1918, nascondendosi fino alla Liberazione. Si dedicò quindi all’impegno culturale e letterario, apparentemente staccato dai nuovi problemi dell’Italia, e al fascismo chiese, nel rifiutare con pacata convinzione l’iscrizione al partito, semplicemente di essere lasciato in disparte. Tra i fondatori della Società filologica friulana, che si avviò proprio a Gorizia nel 1919, C. si occupò di poesia, tradizioni orali, toponomastica, grafia e lessico friulano, portando sulla pagina una originalità da autodidatta e un popolare, non mediato, canto d’amore per Gorizia e il Friuli. ... leggi Ricorda Battisti che alle deficienze della preparazione culturale C. seppe sempre supplire con un’onesta e accurata ricerca e la nobile ansia del nuovo, che lo spinse a studi talvolta «ardui». Della frequentazione della Biblioteca civica è frutto la riedizione della versione friulana delle Georgiche di Virgilio di Giovan Giuseppe Bosizio, con criteri però avulsi da ogni considerazione filologica, con l’obiettivo di «uniformarsi più ch’era consentito alla grafia adottata dalla Filologica». Altri scritti del primo dopoguerra, comparsi su «Studi Goriziani», sono dedicati alla toponomastica del contado di Gorizia. Versi cantabili occupano le colonne del «Fioretto», giornale umoristico che uscì a Gorizia dal 1921 al 1930, per poi essere accolti in agili libretti dai titoli eloquenti, Sbrindui [Brandelli] (1926), Frussòns [Briciole] (1927), Gragnelùs [Granellini] (1929), Sclezis [Schegge] (1930), Flòrs da redenzion [Fiori della redenzione] (1932), Pivètis [Primule] (1939), fino al più maturo Spins e speranzis pa biela Gurizza [Spine e speranze per la bella Gorizia] (1949), ancora poesie patriottiche a tratti concitate e irte di stereotipi (A l’Italia no ’i coventin [All’Italia non occorrono]), ma colme di amore per la sua terra (L’Isùnz [L’Isonzo], A Gurizza! [A Gorizia], Gurizza in flor [Gorizia in fiore]). Come rileva Eraldo Sgubin, nelle prime sillogi, più che un poeta, C. «si rivela un cronista attento che registra puntualmente i fatti che succedono in città» nei passaggi vecchio-nuovo, e un pittore delle figure umane che, con i loro pregi e difetti, formano la «colorita galleria di tipi caratteristici della Gorizia di quegli anni». La città ha in C. il suo cantore in lingua friulana «più convinto, entusiasta e insieme delicato», in versi che la esaltano ammirati e commossi (e non è raro che molti, tra quelli, moltissimi, di tema patriottico, o sentimentale-naturalistico, si restituiscano all’adesione popolare attraverso le note di musicisti come Ezio Stabile, M. Macchi, G. Mazzolini: conosciuti sono A planc cala il soreli [Adagio tramonta il sole], Al clar di luna [Al chiaro di luna], Ciaris mans [Care mani], Un’aguta [Un’acquetta]…). C. esprime un animo dai valori unitari e non scalfibili, a cui allude lo pseudonimo di Marmul [Marmo], e la cui vena rifugge le tristezze attraverso il canto semplice delle bellezze naturali e la salda «calma santa» che lo fa «vivi senza nui», vivere senza nubi (si vedano a riprova Li’ mes speranzis [Le mie speranze]: «Su ’n fil d’arint stan li speranzis / dal cur me sglonf e miez piardùt / […] / E co la luna generosa / manda la lus d’arint a spas, / content il fil ’a lus e trema, / e ’l puor me cur ciata la pas» [Su un filo d’argento stanno le speranze / del mio cuore gonfio e a quasi perso / […] / E quando la luna generosa / spande la luce d’argento, / contento il filo luce e trema, / e il mio povero cuore trova la pace]). Una poesia che raramente si stacca dal tono villottesco per riflessioni più intime, che esprime un mondo stretto a pochi, chiari elementi (patria, chiesa, casa), dove la indefinita complessità delle vicende del Novecento, specie nelle tensioni del territorio friulano di confine, è respinta con accenti fermi («Ognidùn a ciasa so che culì comandi jò» [Ognuno a casa propria che qui comando io], «Internazionalizzà: / […] / Sì, Triest tradìt zent voltis / no ti lassin respirà: / sot il mant’ dal ‘Teritori’, / ‘Lor’ ti vuelin biel ciastrà / […] / Ze ti ’zova mai dezzidi / su la ‘étnica’ dai lucs: / co la ‘etnica italiana’ / gi la dan ai ‘Mamalùcs’?» [Internazionalizzare / […] / Sì, Trieste tradita cento volte / non ti lasciano respirare / sotto il manto del “Territorio”, / “Loro” ti vogliono ben castrare / […] / Cosa giova decidere / sull’“etnica” dei luoghi: / quando l’“etnica italiana” / la danno ai “Mammalucchi”?]). Con la semplicità di un sentire ottocentesco nelle dichiarazioni d’amore alla patria, alla città e alla natura (con infiniti scorci), nella piega allegra e nei quadretti illustrativi senza dolorosi scandagli che hanno come punto di riferimento la vita varia del borgo nativo e uno sguardo leggero pur non privo di umanità, di pungente ironia o critica ai tempi. Un capitolo a sé, ma connesso alla difesa del Friuli e all’ideologia della libertà dei popoli, in sintonia con i temi poetici, è quello che lo mette in assidua corrispondenza con Achille Tellini, sostenitore dell’idea di un’unità e autonomia panladina del Friuli e noto esperantista. Oltre ad alimentare l’amore per la ricerca folclorica, questi contatti stimolano in C. una riflessione sulle grafie che lo porta a elaborare una complicata proposta per il suo Vocabolario integrativo friulano-italiano (1928). L’aggettivo si riferisce alla volontà di completare il vocabolario del Pirona con «le grafie finora usate dagli scrittori friulani». Incompiuti sono lo sforzo per un alfabeto europeo che unifichi i sistemi grafici di tutte le lingue, nonché, su un diverso piano, la traduzione del primo canto dell’Inferno. Ultima opera edita è l’antologia di canti popolari goriziani, del 1959, con composizioni di musica e parole di vari autori del Friuli orientale e goriziano, specchio di temi e modi tipici della villotta. Diciotto testi sono del curatore. C. morì a Gorizia nel 1960.
ChiudiBibliografia
Opere di R. Carrara: Sbrindui, Gorizia, Tip. Nazionale, 1926; Frussòns, Gorizia, Tip. L. Lukezic, 1927; Vocabolario integrativo friulano-italiano, Gorizia, Tip. Sociale, 1928; Gragnelùs, Gorizia, Tip. L. Lukezic, 1929; Sclezis, Gurissa, Tip. L. Lukezic, 1930; Flors da redenzion, Gorizia, Stamparia Sociale, 1932; Criteri seguiti nella trascrizione delle «Georgiche» tradotte da Gian Giuseppe Bosizio e Glossario, Gorizia, Tip. Sociale, 1934; Virgilio e il Friuli, Gorizia, Tip. Sociale, 1934; Pivetis [dedicate ad Achille Tellini], Gorizia, Tip. Sociale, 1939; Spins e speranzis pa biela Gurizza, Gorizia, Tip. Sociale, 1949; Gorizia nelle sue canzoni: antologia di canti popolari del Friuli orientale, s.l., s.n., 1959.
DBF, 165; C. BATTISTI, Dolfo Carrara (Marmul), «Studi Goriziani», 27 (1960), 9-14; G. HUGUES, Il mondo poetico di Dolfo Carrara, ibid., 28 (1960), 27-38; M. FRAULINI, La cultura del Friuli orientale: la provincia letteraria di Gorizia, Trieste, s.n., 1962; E. SGUBIN, Lingua e letteratura friulane nel goriziano, in Marian, 571-615.
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