Nacque a Buja (Udine) il 26 agosto 1806, nella borgatella di Camadusso. Figlio di modesti agricoltori, Francesco e Maria Tonino, trovò resistenza nella loro povertà alla sua vocazione sacerdotale, che manifestò all’età di dieci anni. Per tre anni studiò sotto la guida di D. Domenico Ario di Artegna e poi proseguì gli studi nel Seminario di Udine. Ordinato sacerdote il 19 marzo 1831 dal vescovo Emmanuele Lodi, insegnò dal 1832 al 1839 nel ginnasio vescovile; successivamente gli venne affidata la cattedra di teologia morale, che conservò sino al 1854, sostenendo la dottrina alfonsiana contro il rigorismo di stampo giansenista. Fu anche rettore del Seminario succursale – in cui venivano accolti i chierici di condizione meno agiata –, soppresso dopo i moti del 1848, direttore spirituale dell’Istituto delle zitelle e dell’annesso educandato, e confessore dell’arcivescovo Zaccaria Bricito. Alla morte di mons. Mariano Darù, venne eletto il 14 novembre 1853 dall’arcivescovo Giuseppe Trevisanato vicario generale della diocesi e nel 1854 nominato canonico della metropolitana. Nel concistoro del 23 settembre 1855 venne preconizzato da Pio IX vescovo della diocesi di Concordia. Dal 6 aprile al 18 giugno partecipò insieme all’episcopato del Lombardo-Veneto alle Conferenze sugli affari ecclesiastici per i presuli dell’Impero asburgico, tenutesi a Vienna, ove il 18 maggio gli fu conferita la consacrazione episcopale dal pro-nunzio alla corte imperiale Michele Viale-Prelà, assistito da mons. ... leggi Giuseppe Trevisanato, arcivescovo di Udine, e da mons. Bartolomeo Romilli, arcivescovo di Milano. Il 24 agosto 1856 prese possesso della sede di Concordia, in cui vi erano marcate divisioni sia nel clero diocesano sia nel corpo docente del Seminario di Portogruaro tra i filorosminiani aperti alle istanze liberali e gli intransigenti filoaustriaci “clauzettani”. Nel 1857 si recò a Bologna per rendere omaggio a Pio IX che ivi sostava in visita alle province settentrionali dello Stato pontificio. Fu in quella occasione profondamente colpito dalla personalità di Pio IX, nei confronti del quale sviluppò un sentimento di incrollabile attaccamento. Durante il settennato in cui fu vescovo di Concordia fece una visita pastorale e non completò la seconda. Ebbe cure particolari per il Seminario, per il quale ottenne un consistente aiuto finanziario dall’ex imperatore Ferdinando I e dalla consorte Maria Anna di Savoia, e del quale riordinò gli studi e riformò i metodi e i regolamenti secondo lo spirito del concilio di Trento con un decreto del 5 luglio 1861. Amico del p. Luigi Scrosoppi, fondatore delle suore della Provvidenza, le fece introdurre nell’ospedale di Portogruaro nel 1857. Nel concistoro del 28 settembre 1863 – in seguito al trasferimento del Trevisanato alla sede patriarcale di Venezia – venne destinato alla sede arcivescovile di Udine, di cui entrò in possesso il giorno 29 novembre 1863. Nella sede udinese ebbe fino al gennaio 1866 come suo vicario generale mons. Nicolò Frangipane, che fu poi promosso vescovo di Concordia, e come provicario mons. Domenico Someda, che dal 1866 al 1883 divenne vicario generale. Anche a Udine le sue prime cure furono rivolte al Seminario, per i cui alunni nel 1864 promulgò un nuovo regolamento disciplinare. Con l’annessione del Friuli veneto al Regno d’Italia nel 1866 l’arcidiocesi di Udine visse una fase caratterizzata da forti tensioni con le autorità politiche. Quintino Sella, commissario del re per la provincia di Udine, informando Ricasoli sulle questioni locali, faceva riferimento all’ostilità manifestata da C. nei confronti del nuovo assetto politico e non escludeva la possibilità di «spiccare un ordine che lo releghi a Cagliari od altra città analoga». Nonostante C. avesse riconosciuto, sia pure non entusiasticamente, la cessione del Veneto e del Friuli occidentale al Regno d’Italia e avesse rivolto un deferente indirizzo di saluto a Vittorio Emanuele II, ricevendolo alla stazione quando si recò a Udine il 15 novembre 1866, le relazioni tra la Chiesa udinese e le autorità locali non si rasserenarono e alcuni sacerdoti ritenuti avversi al nuovo governo furono allontanati dalle loro sedi. Anche in Friuli vennero attuate misure legislative che comportavano la dispersione dei religiosi dalle loro case e il tentativo di estinguere la vita contemplativa delle monache di clausura. L’episodio più grave di intolleranza anticlericale si ebbe la sera del 15 marzo 1867 quando venne invaso e messo a soqquadro l’episcopio da una folla ostile e forse intenzionata a provocare la fuga dell’arcivescovo. C. aveva omesso l’Oremus pro rege nel Te Deum del giorno prima nel corso del rito religioso per la celebrazione dell’anniversario della nascita del re Vittorio Emanuele II e del principe ereditario Umberto, e tale omissione fu interpretata dal mondo liberale udinese come un ulteriore atto di sfida nei confronti dell’ordinamento politico e dello Stato unitario, a favore del quale si era espressa la provincia di Udine con il plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866. A partire dal giorno dell’invasione e sino al 25 marzo dell’anno successivo – quando intervenne alla solenne funzione dell’Annunziata nella metropolitana – rimase per protesta chiuso nel palazzo arcivescovile. Venne invitato dal ministro Menabrea – per ricompensarlo delle amarezze patite – ad assistere al matrimonio del principe ereditario Umberto con Margherita di Savoia, che venne celebrato a Torino il 22 aprile 1868. Con la legge di liquidazione e conversione dell’asse ecclesiastico del 15 agosto 1867 il patrimonio immobiliare ecclesiastico della diocesi venne considerevolmente intaccato; gli acquirenti dei beni ecclesiastici furono colpiti da scomunica e i funerali religiosi furono negati a coloro che rifiutavano di sottostare alle norme di sanazione ecclesiastica. C. dovette inoltre nel giugno 1873 chiudere le classi ginnasiali ospitate nel Seminario e frequentate da alunni laici non avviati alla carriera ecclesiastica. Al fine di evitare l’applicazione della legge del 27 marzo 1869 che aboliva la dispensa dal servizio militare per i chierici, C. istituì, con lettera circolare del 22 agosto 1869, la «Pia opera a sussidio dei chierici poveri», destinata a fornire loro l’aiuto economico necessario per ottenere l’esenzione dalla leva militare. C. fece prevalere all’interno della Chiesa udinese un modello gerarchico-autoritario, destinato nelle intenzioni del presule friulano ad essere lo strumento più idoneo a combattere le tendenze eterodosse che a suo giudizio investivano l’intero corpo della società politica e civile. Nella istruzione pastorale del 16 maggio 1869 – giorno della Pentecoste – che annunziava la ormai prossima apertura dei lavori del Concilio Vaticano I, C. affermò che i «mali religiosi e sociali del mondo presente» derivavano dal disconoscimento dell’autorità della Chiesa cattolica, «l’autorità suprema del Vicario di Cristo», e che l’unico rimedio efficace per rimuovere i mali consisteva nel rimuovere la causa che li aveva prodotti, ripristinando l’autorità e la sottomissione al pontefice romano. Come non vi sono posizioni intermedie tra la verità e l’errore, così – abbandonando ogni impossibile “neutralità” e “giusto mezzo” – «bisogna essere cattolici col Papa e come il Papa, od abjurare la Religione di Cristo». Egli aveva sostenuto peraltro, fin dal momento in cui assunse la guida della diocesi di Concordia, che fondamento dell’intera vita religiosa dei cattolici era la fedeltà alla Santa Sede e al pontefice regnante Pio IX, facendo dell’unità con Roma il segno dell’appartenenza alla vera fede cristiana. Per C. il principato civile dei papi era il mezzo esteriore, lo strumento necessario a garantire il primato di giurisdizione pontificio sulla Chiesa universale. Chiunque negava la necessità del potere temporale dei papi misconosceva pertanto la sua infallibilità e si poneva indubitabilmente fuori della comunione ecclesiale. L’arcivescovo C. seguì i lavori del Concilio Vaticano I, fermandosi a Roma fino alla proclamazione del dogma della infallibilità pontificia, di cui fu uno dei più strenui propugnatori. La chiusura entro rigidi schemi difensivi, volti a preservare una fisionomia di Chiesa in contrasto con orientamenti ormai prevalenti nei ceti urbani colti, chiamati a ricoprire ruoli di primo piano nel nuovo contesto apertosi con il processo di unificazione nazionale, rese ancor più marcato l’isolamento del clero e dei cattolici friulani e produsse gravi lacerazioni nel tessuto stesso della comunità ecclesiale diocesana. Il dissenso nei confronti della rigida chiusura operata da C. di fronte al nuovo ordine politico ebbe modo di esprimersi pubblicamente in occasione delle celebrazioni civili e religiose del 2 giugno 1867, Festa civile dell’unità italiana e dello statuto. C. inviò al clero una lettera circolare in cui veniva precisato il giudizio negativo della Sacra Penitenzieria sulla partecipazione del clero alla festa dell’unità italiana e veniva comunicata la decisione della Sacra Congregazione dei riti di ritenere «del tutto illecito il cantare l’inno ambrosiano Te Deum nell’anniversario di questa Festa». Una parte non trascurabile di parroci e sacerdoti friulani non si uniformò a tale obbligo, e nei mesi successivi fu loro richiesta una piena ritrattazione dell’errore compiuto con l’esplicito atto d’insubordinazione all’ordinario diocesano. In questo contesto si colloca la dissidenza dottrinale e disciplinare di alcuni sacerdoti che, da un lato, rivendicavano un ruolo meno «politico» e più «evangelico» per la Chiesa e, dall’altro, auspicavano che la pace rifiorisse fra l’Italia e la Chiesa, a cui si chiedeva di abbandonare quei principi che avevano reso la religione un puro e semplice «instrumentum regni». Durante l’episcopato di C. compirono i primi passi in Friuli sia il movimento cattolico – con la costituzione a Udine nel maggio 1871 dell’Associazione cattolica friulana, di cui divenne presidente fin dal 1873 l’avvocato Vincenzo Casasola, nipote dell’arcivescovo – sia la stampa cattolica, con la pubblicazione del settimanale promosso da don Luigi Fabris «La Madonna delle Grazie» – che uscì dal 5 dicembre 1868 sino al primo dicembre 1877 – e del quotidiano «Il Cittadino italiano», diretto da don Pietro Bolzicco, il cui primo numero uscì il primo gennaio 1878. Nel 1880 si celebrarono i clamorosi processi intentati contro C. dai sacerdoti dissidenti Giovanni Vogrig e Giacomo Lazzaroni, parroco di Gonars, che si conclusero con la condanna dell’arcivescovo al pagamento di una grossa multa. In tale circostanza C. ricevette la solidarietà del clero e dei fedeli, che si strinsero attorno a lui nuovamente in occasione delle feste giubilari per il cinquantesimo di sacerdozio e venticinquesimo di episcopato il 18 maggio 1881. Di C. ci restano molte lettere pastorali in linea con i principi della teologia dogmatica e morale del tempo, riaffermati dal Concilio Vaticano I: in particolare la condanna del secolo XIX «travolto da sì funeste e desolanti vertigini» e la necessità di riconoscere la indefettibilità della Chiesa e l’infallibilità del papa, mantenendo il principio d’autorità visto come il fondamento della prosperità, non solo della Chiesa e dello Stato, ma anche della vita familiare e di ogni forma di relazione sociale. C. morì a Rosazzo, nella residenza estiva dei vescovi di Udine, il 12 agosto 1884 e venne sepolto nella chiesa del cimitero di Udine.
ChiudiBibliografia
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