Personalità complessa, di forte rigore morale e vasta cultura, scrittore sensibile, studioso e insegnante appassionato, C. impregnò gli anni tra infanzia e adolescenza del contesto linguistico e umano carnico. Nato a Bodensdorf, sul lago di Ossiach (Austria), il 26 febbraio 1910, da madre austriaca e padre di Colza, in Carnia, con la prima guerra mondiale rientrò con la famiglia in Italia. Il padre, avviatosi in Austria al commercio di legname alle dipendenze di una ditta friulano-veneta, in Carnia aprì un’osteria a Villa Santina e una segheria a Invillino, mentre Riccardo iniziò piccoli lavori nel bosco per aiutare la famiglia. Un’alluvione, nel 1921, danneggiò la piccola attività paterna, e l’anno successivo i Castellani furono costretti a trasferirsi a San Floreano di Casarsa e nel 1924 a Casarsa. A quattordici anni C. divenne apprendista falegname e intraprese vari lavori, fino ad essere assunto come operaio presso l’impresa dove era impiegato il padre. Di sé avrebbe detto poi di aver ricevuto la propria formazione con le esperienze vissute a contatto con la natura, nel paese di montagna, attingendo allo spirito «inventivo e attivo, aperto all’apprendimento per nutrire intelligenza e senso morale della vita» (C. in Faggin, 1982). L’amore per la lettura fu precoce, gli studi frammentari, ma disciplinati dalla determinazione dell’autodidatta. Nel 1935 superò l’esame di abilitazione magistrale all’Istituto Caterina Percoto di Udine, divenendo maestro elementare. Nel 1948, sposato e padre di tre figli, si iscrisse alla Facoltà di lingue dell’Università di Urbino. La laurea, tra insegnamento, lezioni private e serali, impegni di vario genere, giunse nel 1956, e dal 1962 C. fu professore di lingua tedesca alle scuole medie, dopo venticinque anni di insegnamento elementare. ... leggi L’ambiente poetico in cui affondano le radici della poesia di C. è quello casarsese dominato dalla figura di P. P. Pasolini, che a Casarsa fu attivo dal 1943 al 1949, ma egli rimase ai margini dell’“Academiuta” «in una posizione un po’ equivoca di amicizia e ostilità» (Pellegrini, 1987) rispetto al giovane Pasolini. Partecipò, insieme a Cesare Bortotto, alle esperienze pedagogiche e ai dibattiti poetici e linguistici che preludono alla nascita della nota rivista casarsese edita tra 1944 e 1947 («Stroligut di cà da l’aga», 1 e 2, «Il Stroligut», 1 e 2, «Quaderno romanzo», 3) e che da «Il Stroligut» usciva come espressione dell’“Academiuta di lenga furlana”, ma da questa si discostava. Le ragioni del dissenso (che fu però intima frattura) sono rintracciabili in una difficoltà di fondo ad aderire all’ideologia che quell’operazione poetica presupponeva e a un distacco dal vitalismo, nonché forse dalla cultura vastissima e sensibile, ma intrisa di risvolti intellettuali, del suo animatore, pur consapevole della carica rivoluzionaria del fare poesia in friulano attorno a Pasolini. I motivi sono esposti da C. stesso in Friulanità dell’Academiuta Casarsese (1962): la poetica pasoliniana e il suo uso della lingua sono visti come un qualcosa di esterno e nella sostanza estraneo ai valori della parlata friulana; all’immagine di lingua pura, mai prima scritta, di un altrove mitico, il friulano, a suo parere, si adatta come un «involucro» che riveste una sostanza aliena, fortemente letteraria. Le due personalità sono certo divergenti (quella di C. è una natura contemplativa e nostalgica più che vitalmente militante), ma è la fedeltà alla lingua come espressione di una realtà quotidiana umile, insieme ai suoi valori non gridati, e a un ascolto dolente delle cose, a segnare l’autonomia di C. Egli si pone comunque tra i grandi nomi della poesia friulana del dopoguerra, insieme a Franco de Gironcoli, Pasolini, Nico Naldini, Novella Cantarutti, Enrica Cragnolini. Le prime poesie e prose friulane appaiono su «Ce fastu?» del 1943 (La sorzent, Autun, Di fevràr, La vita dal contadìn [La sorgente, Autunno, In febbraio, La vita del contadino]) e su lo «Stroligut di cà da l’aga» del 1944. Proseguono su varie riviste, giungendo solo tardi a una sistemazione in volume (1976, la poesia, 1978, postumo, la prosa). Parallelamente C. (che si cimentò con «stile sorvegliatissimo» anche nella poesia satirica – C., 1959, D’Aronco, 1982 – e, ma è momento giovanile, in quella in italiano, C., 1945) svolse una rilevante attività di raccolta, pubblicazione e studio delle tradizioni orali, una ricerca paziente e precisa, che assecondava la passione per la linguistica, le tradizioni popolari e i dialetti e le lingue in generale. Secondo Cesare Bortotto, fu proprio la predilezione per questo strumento di conoscenza dell’uomo, la chiave meno nota della personalità del poeta (Bortotto, 1980). Gli interessi culturali furono però ampi, rispondendo sia a intrinseca curiosità, sia alla conquista degli strumenti conoscitivi dell’autodidatta. Si affiancarono all’impegno civile, espresso nella professione di maestro e insegnante (ricordato negli anni), nel dovere non esibito di uomo pubblico (fu a lungo giudice conciliatore) e nella fiducia nella giustizia e nella libertà di pensiero. Le responsabilità familiari lo indussero a declinare le offerte per l’insegnamento accademico (come docente di lingua tedesca presso l’Università di Urbino e di storia delle tradizioni a Padova), ma non frenarono il lavoro di scrittura. Una rapida rassegna dei saggi di letteratura segnala gli articoli su Éluard (in «Il risveglio delle lettere, della cultura e dell’istruzione», Udine, maggio 1959, maggio-giugno 1960) e su Hans Carossa (agosto 1961), di cui curò l’edizione dei volumetti Ungleiche Welten (Pordenone, 1957) Führung und Geleit (Pordenone, 1958). Suoi studi su Ippolito Nievo apparvero sui periodici «Avanti col brun!» e «Il Noncello» nel 1961, nonché sul numero unico curato dal comune di Varmo nello stesso anno. Su «Il Tesaur» pubblicò il saggio Valutazione critica del «Varmo» di Ippolito Nievo e, l’anno successivo, la traduzione della novella in friulano (Il Vâr, «Il Tesaur», 1959). Le prose (quattordici, equamente divise tra casarsese e carnico) coprono un arco più largo, che va dallo «Stroligut di cà da l’aga» dell’aprile 1944 ai «Quaderni del Tesaur» del 1960, passando per le riviste della Società filologica, e hanno «stretti agganci col mondo popolare» (Faggin, 1976, 9), tanto da intersecarsi poi con la ricca raccolta sul campo di fiabe e altre narrazioni del Friuli occidentale e con gli studi linguistici sulle parlate della destra Tagliamento. La tensione alla ricerca, nell’ansia di documentare il patrimonio orale, pare preponderante, tanto che la scomparsa di C. avvenne, improvvisa, a Barcis, sulla strada della Valcellina, il 21 aprile 1977, durante una delle numerose peregrinazioni linguistiche negli angoli meno esplorati del Friuli. Un esempio del tipo di sguardo riservato, in generale, al friulano si ha nell’intervento Dello stato odierno del friulano e di taluni idiomi minori europei («Avanti cul brun!», 29, 1962), dove C. affronta la questione dell’insegnamento della lingua senza assunti ideologici, guardando al suo naturale movimento e declino, quindi alla ragionevole opportunità di ricercare nel corpo vivo (di arte, poesia, tradizione) strumenti duraturi e costruttivi. Per comprendere anche il particolare lavoro di documentazione dei materiali orali (i cui criteri distano dai termini moderni della trascrizione scientifica) va confrontata la voce di G. D’Aronco (1979), estimatore e amico di C., che ha cura di rendere disponibile la bibliografia completa degli scritti dedicati alla fiabistica e di introdurne i testi (parte in italiano, parte in friulano), raccolti nelle zone di Casarsa e San Giovanni a partire dagli anni Quaranta, e pubblicati per lo più, tra il 1959 e il 1975, sul periodico «Märchen der europäischen Völker», rassegna annuale della associazione tedesca Gesellschaft zur Pflege des Märchengutes der europäischen Völker. Uno spiccato senso estetico e una idea romantica, oltre a non risolverlo all’uso del registratore, guidarono C. a intervenire sul testo narrato, a ritoccarlo laddove consunto o frammentato, a «restaurare» ciò che si presentava come relitto di racconti un tempo eseguiti da informatori esperti, e perfino a integrare le varianti. Interventi dichiarati, a cui fanno da contraltare un lavoro scrupoloso e un apporto significativo, ma anche la concezione che i testi popolari, la fiaba in particolare, siano inclassificabili e insondabili (Castellani, 1969). Il risultato di questo impegno documentario a favore dell’oralità è ora ordinato nel volume a cura di M. Salvadori (2008), insieme a un ricordo di Nadia Pauluzzo e al saggio di G. D’Aronco, volume seguito alla donazione dell’intero patrimonio librario e dello studio di C. alla Biblioteca casarsese. Postuma, ancora per iniziativa di D’Aronco, è stata anche la raccolta dei saggi per una Grammatica storica del friulano occidentale (1980), usciti sempre appartati rispetto ai luoghi ufficiali (sul «Noncello» a partire dal 1962), che portano a confronto una mole sostanziosa di dati linguistici. In questa scrittura dai tratti a volte ridondante, spicca per raffinata sintesi la produzione poetica. Come evidenzia A. Ciceri, il ricordo di C. poeta resta legato al momento di grazia postbellico, a versi che ammaliano, nella misura classica e provenzale, nell’invito al sogno (Ti ti pojavis lizera [Ti appoggiavi leggera]), per l’«eccezionale lucentezza delle parole», la «squisita sensibilità tonale», e «una ricchezza interiore, come velata di gelosa ritrosia» (Ciceri, 1976). Questo momento ebbe il suo preludio nella palestra di tradizione poetica casarsese, con Bortotto e Castellani primi ad accogliere e interloquire con i progetti di Pasolini. Sarebbe stato C. ad aprire lo «Stroligut» del 1944 e a comparire accanto a Pasolini nella importante nota Dalla lingua al friulano con un testo da Corbière come esempio di versione moderna in un friulano privo di impronta dialettale (Pasolini, 1947). Di lui Pasolini coglie «un’autenticità di vocazione davvero notevole» (Pasolini, 1949, 133) e, ormai a distanza, la possibilità di dare al Friuli «uno dei suoi più bei canzonieri» (Pasolini, Introduzione, CXXV). Il canzoniere avrebbe visto la luce tardi, nel volume del 1976 (Ad our dal mond [In margine al mondo]), raccolta di componimenti distillati negli anni e quasi celati tra le pagine dei periodici dal 1943 al 1971 (alcuni restano esclusi, in più due inediti, in carnico, del 1973, in casarsese, del 1975), accompagnati in appendice da versioni in prosa del poeta che sciolgono, pur liricamente, le connotazioni del friulano. Tra i testi, una lingua musicale, cesellata e densa, costruisce un tessuto di versi incantato ed enigmatico. Il dolore dell’uomo partecipa con un accenno di stupore alla luce argento o oro, o bianca e ferma del giorno. La natura non è spettacolo inebriante, ma mistero (Faggin, 1976, 7), i cui elementi ed esseri oscillano tra veglia, sapere e innocenza («Aunàrs gudjàs di seda scura e buna / di brusa e di ligrìa, / o, vualtris no veis brìa / di essi nuja al mond» [Ontani tessuti a maglia con seta scura e buona, con bruna e con allegria, oh, voi non avete bisogno di essere alcunché al mondo]), mistero che si fa dolore che chiude (si legga Recuart vif [Ricordo vivo]). Il sentimento panteistico attrae il poeta a sciogliersi nell’anima del tempo («Molà, ’na volta, / lassàmi / disfà dut quant in anima. / Slargiàmi via cu’l flat di chista not / blancia di luna. / E messadàmi inta’l penseir sidìn / ch’al vegla sora il mond» [Lasciare andare, solo una volta, lasciarmi sciogliere tutto in anima. Distendermi via col fiato di questa notte bianca di luna. E mescolarmi col pensiero quieto che veglia sopra il mondo]), ma non è fuga, è semmai coscienza della distanza e della solitudine immanente (perché egli avverte «le pene sotterranee delle cose», Faggin, 1976, 8), e della distanza di lui stesso, testimone muto sul limite (Ad our dal mond [In margine al mondo]). La vita è scorrere, e il tema dell’acqua, della sorgente (che piange, in uno dei testi più pasoliniani, «il fì pierdùt tai blànc gravòns / da la planura… Il flun ch’a lu clamà / a la vintura, ghi lu à inglutùt, biel fì d’arzent» [il figlio perduto nei bianchi greti della pianura… Il fiume che lo chiamò alla ventura glielo ha inghiottito, bel figlio d’argento]) e del fiume (si veda Tiliment) si presenta fin dagli esordi come «emblema del moto inarrestabile delle cose» (oltre che della vicenda personale «simile a quella dei tronchi tagliati e fatti fluitare lungo il Tagliamento», Ciceri, cit., 616), ma la poesia è da subito pervasa da un anelito verso «un alc che nu savìn / di vei pierdùt tal fons / da l’univièrs» [un qualche cosa che noi sappiamo di aver perduto per sempre] del nostro bene di vita (Antun di uèra [Autunno di guerra], «Stroligut», aprile 1944; Ciceri, cit., 615-616, versioni in prosa sempre in C., 1976). Nei testi in carnico è aperto il dialogo con i luoghi, il fare, le creature, animate e inanimate, dell’infanzia, sempre a decifrare un contatto, uno sguardo nel silenzio pregno di una natura che è partecipe al «sgrîsul dai mistéris ch’a ti spîin» [brivido dei misteri che ti spiano], che osserva, lamenta, ha pensieri, mentre si fa stringente il riandare all’infanzia del «frut lontan» [fanciullo lontano], che specchia un «me tornât fanît» [me ritornato sbiadito] (Il peç [L’abete]), o si apre lo slargo del tempo umano su un oltre di luce calma e buona (Larin cui dîs [Andremo con i giorni]). Stessa tensione e stesso intenso respiro, a cogliere tutto un mondo e un’umanità di azioni mute, hanno i brevi racconti di C. Essi consegnano alla letteratura in friulano uno dei suoi esempi più significativi di prosa d’arte.
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Opere di R. Castellani: La not di san Silviestri, Portogruaro, Tip. Castions, 1959; Ad óur dal mont. Liriche friulane e carniche di Colza. 1942-1975, Udine, SFF, 1976; Il bati dal timp, Udine, SFF, 1978; Il friulano occidentale. Lineamenti storico-linguistici delle componenti dialettali, Udine, Del Bianco, 1980; Li fadis da li Miriscis e altris contis. Leggende e racconti popolari di Casarsa e San Giovanni, a cura di M. SALVADORI, Casarsa della Delizia/Udine, Città di Casarsa della Delizia/SFF, 2008.
DBF, 170-171; P.P. PASOLINI, Dalla lingua al friulano, «Ce fastu?», 13/5-6 (1947), 24-26; ID., Poesia d’oggi, «La Panarie» (1948), 131-139; CHIURLO - CICERI, Antologia, 614-627; G. FAGGIN, Introduzione, in CASTELLANI, Ad óur dal mont, cit., 5-10; VIRGILI, La flôr, II, 176-178; G. D’ARONCO, Riccardo Castellani e la narrativa popolare friulana, in Miscellanea 1, Trieste, Università di Trieste - Facoltà di Magistero, 1979, 365 s. (testi di narrativa popolare raccolti da C. e sulla tradizione orale anche in Studi di letteratura popolare friulana, diretti da G. D’Aronco, 1-3, Udine, SFF, 1969-1973); C. BORTOTTO, Riccardo Castellani studioso friulano, in CASTELLANI, Il friulano occidentale, cit., 7-13; D’ARONCO, Nuova antologia, 117; G. FAGGIN, Ricordo di R. C., «Sot la nape», 4 (1982), 71-74; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 56-57; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 301; P.P. PASOLINI, L’Academiuta friulana e le sue riviste, a cura di N. NALDINI, Vicenza, Neri Pozza, 1994; ID., Introduzione, in M. DALL ’ARCO - P.P. PASOLINI, Poesia dialettale del Novecento, Torino, Einaudi, 1995 (ed. originale 1952).
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