Nacque a Parma nel 1443 da famiglia di modesta origine, i Cavizzi, il cui nome I. latinizzò in Caviceo. I suoi avi, alla fine del Trecento, avevano acquisito un certo benessere, divenendo fautori dei Rossi, potenti marchesi di S. Secondo. I primi anni della biografia hanno contorni incerti. È probabile che a Parma trascorresse fanciullezza e adolescenza, ed è nota la frequentazione dell’Università di Bologna, dove compì studi irregolari, senza conseguire la laurea. Dovette, quindi, tornare a Parma e ricevere, forse dopo un breve soggiorno romano, l’ordinazione sacerdotale. Ma, come scrisse il biografo Giorgio Anselmi, aveva carattere «audace et arrogante», poco confacente allo stato ecclesiastico. Il C., infatti, sarebbe fuggito da Parma, perché dapprima sorpreso a trescare con una suora, e poi coinvolto in una rissa cruenta. Avrebbe allora intrapreso una lunga serie di vagabondaggi, da Verona a Venezia, e di qui in Oriente. Le vicende susseguenti al ritorno in Parma (1469), storicamente più documentate, non sono meno sorprendenti. Presto il C. si scontrò frontalmente con il vescovo della città, Giacomo Della Torre, dal quale fu fatto relegare ad Alessandria. Nel 1471 si trovava di nuovo a Parma. Qui instaurò duraturi legami con il capitolo del duomo e rinnovò la tradizionale fedeltà alla famiglia Rossi. Ne ottenne rendite e benefici che gli consentirono di vivere agiatamente, ma fu coinvolto anche in rivalità e lotte che scoppiavano frequenti tra partigiani di opposte fazioni: così nel 1477 fu vittima di violenze perpetrate a danno dei Rossi e dei loro seguaci, e nel 1482 seguì in esilio i suoi signori che erano stati definitivamente cacciati dalla città. Entrato al servizio di Pier Maria Rossi, in occasione della guerra tra Ferrara e Venezia, il C. fu inviato in qualità di oratore a Venezia (1482), città con la quale il Rossi si era schierato. ... leggi Vi rimase in rappresentanza di costui fino a conclusione della guerra (1485), quando passò a servire il doge Marco Barbarigo, e, alla sua morte, il fratello Agostino. Ma i rapporti con quest’ultimo presto si deteriorarono, e passò a Conegliano (forse già nel 1486), dove fu al servizio di Guido Rossi, e dove risiedette, pur senza continuità, fino al 1491: quell’anno, infatti, il doge ordinò che il C. abbandonasse il territorio veneziano, a causa di sue gravissime, ma non meglio precisate, malefatte. A partire dal 1491, il C. lasciò ogni incombenza politica, dandosi senz’altro alla carriera ecclesiastica, e vivendo con maggiore tranquillità e disciplina: non è certo un caso che a questo periodo risalgano quasi tutte le sue opere letterarie. Fu infatti nominato vicario generale, prima della diocesi di Rimini (fino al 1494), poi di Ravenna (fino al 1500); tale secondo incarico svolse risiedendo sempre a Ferrara, città che lasciò per trasferirsi a Firenze come vicario dell’arcivescovo Rinaldo Orsini, e quindi a Siena, sempre con l’incarico di vicario generale. Morì a Montecchio nell’Emilia, il 3 giugno 1511. Nel 1508 fu pubblicata a Parma l’“editio princeps” dell’opera sua più nota e importante, il Libro del Peregrino, ampio romanzo in volgare, narrato in prima persona dall’ombra del defunto protagonista, Peregrino. Questi rievoca la travagliata sua storia d’amore con Ginevra, la fanciulla che aveva amato fin da giovanissimo, e che, dopo vicissitudini d’ogni genere, le quali rispecchiano eventi in larga parte autobiografici, riesce finalmente a sposare. Ma il matrimonio è destinato a breve durata: Ginevra muore di parto; Peregrino, affranto dal dolore, segue ben presto il destino dell’amata. Alla prima edizione seguì quella parmense del 1513, assai importante perché corredata della biografia del C. scritta dall’Anselmi; in Italia ne seguirono altre ventuno edizioni, cui si aggiunsero nove di una versione francese, e tre di una versione spagnola. La fortuna dell’opera fu immediata, ma non duratura: l’ultima edizione del Peregrino, antecedente a quella criticamente curata dal Vignali, fu impressa nel 1559. I rapporti del C. con l’ambiente culturale friulano, e più in particolare pordenonese, furono di non marginale importanza, benché limitati ad un arco cronologico esiguo. L’autore stesso ricorda un soggiorno in Friuli nel terzo libro del Peregrino: partito da Rimini in compagnia dell’amico Lazzarino, Peregrino è colto da una tempesta e deve riparare a Trieste; quindi, sempre in compagnia di Lazzarino, «superato il Timavo» perviene «a la decantata e ruinata Aquileia»; tre giorni dopo «per il voracissimo e fluentissimo Taiamento» giunge «ne lo imperiale luoco» di Pordenone, dove è ospite di Princisvalle Mantica, «huomo consultissimo»; in onore dell’ospite è organizzata una festa, in cui tre gentildonne eccellono per grazia e bellezza, Lucrezia di Cortona, Florida di Prata e Bartolomea Fontana; a conclusione della festa i convitati recano il loro omaggio «al caduceatore cesareo di Fedrico III, qual per componere le […] cose italice ivi era gionto». Tutto ciò sarebbe accaduto ne «la stagione che ’l maximo romano pontefice la inutile guerra decreve al re parthenopeo, e lo Sanseverinato lo exercito componeva», cioè tra la fine del 1485 e il 1486, quando Sisto IV fece guerra a Ferdinando di Napoli: fu in tale occasione che il pontefice ebbe l’appoggio di Venezia, la quale inviò a Roma il condottiero Roberto da Sanseverino. Ma di un soggiorno a Pordenone il C. parla anche in altra occasione, e cioè nell’epistola latina indirizzata al canonico lateranense Severino Calchi datata 18 aprile 1489. Gli eventi qui descritti per molti aspetti coincidono con quelli narrati nel Peregrino («cum ex Aquilegia […] nudius secundus solvissem, errore itineris […] ad Portum Naonis […] appuli, ubi ab amico viro […] Lazarino Ariminensi […] comiter […] susceptus sum»; viene poi descritta la visita fatta al C. da Princisvalle Mantica, che lo interroga sulla verginità di Maria). È perciò ben fondato il sospetto che romanzo ed epistola descrivano il medesimo soggiorno compiuto a Pordenone; e poiché la composizione dell’epistola appare sollecitata da ricordi assai recenti, ne consegue che o nell’uno o nell’altro scritto, la datazione è stata artefatta. I dati storici del romanzo sono nel caso verosimili e coerenti: ad es. il «caduceatore cesareo» va con ogni probabilità identificato con il dotto Bernard Perger; questi effettivamente si trovava in quel frangente a Pordenone come oratore di Federico III, e per lui furono organizzate feste e scrissero poesie Quinto Emiliano Cimbriaco e Cornelio Paolo Amalteo. Ma nel Peregrino depistaggi cronologici sono frequenti, e oltre a ciò occorre rilevare che il 28 luglio del 1489 il C. ricevette dallo stesso imperatore Federico III, allora dimorante in Pordenone, il dottorato “utriusque iuris”, nonché ulteriori cariche e attribuzioni, tradizionalmente connesse all’elargizione del dottorato, tra le quali il titolo di “comes palatinus”. È dunque pressoché certo che il soggiorno pordenonese sia avvenuto nel 1489, e che sia stato intenzionalmente retrodatato nel Peregrino. In Pordenone il C. conobbe e frequentò Iacopo di Porcia; questi gli indirizzò tre lettere pubblicate nella sua raccolta epistolare. L’ignoranza degli antefatti ostacola la piena comprensione della prima, con la quale il Porcia si rammarica di non aver potuto ottenere presso il vicario di Concordia quanto auspicato dal C.; il vicario ha dichiarato che non gli è data facoltà di ordinare sacerdoti, e che essa spetta esclusivamente al «gestor episcopatus»; Iacopo conclude dicendo che il C. nel suo viaggio potrà recargli vantaggio con l’autorità di cui dispone. La seconda epistola, benché priva, come le altre, di espliciti riferimenti cronologici, pare tuttavia risalire al 1489: in essa Iacopo di Porcia chiede di ricevere un «opusculum mirae suavitatis» del C. recentemente edito; esso va identificato o con il De exilio Cupidinis, o con la Lupa, opere entrambe redatte a Conegliano nel 1489. Con la terza epistola, anch’essa riferibile all’anno 1489, il Porcia, in tono scherzoso, declina l’invito a partecipare a una battuta di caccia in Pordenone. Controverso è un dato trasmesso dal Liruti, secondo il quale in una lettera a Princisvalle Mantica, Quinto Emiliano Cimbriaco si sarebbe lamentato «che il C., di Pordenone partito per Rimini, avea seco portati i poemi, che aveagli mandati, senza tenerne copia»; il Cimbriaco avrebbe quindi pregato il Mantica di «recuperarli, e liberarlo da questo dispiacere». La missiva faceva parte di un manipolo di undici epistole indirizzate dal Cimbriaco al Mantica. Dopo Liruti, di tali epistole si occupò Benedetti che, nel suo contributo sul Cimbriaco, le pubblicò avendone trovato copia «nell’archivio dei co. Montereale-Mantica di Pordenone». Nell’ultima di queste epistole, così come trascritta dal Benedetti, il Cimbriaco parla della sparizione di suoi «libelli», ma non fa cenno al C., mentre è chiaro che nella vicenda è coinvolto Pietro Edo Capretto (V.): «Ex litteris Hedi nostri cognovi libellos quorum […] nullo exemplo nobis dederam car(mina) […] Ariminum secum asportasse. Quod egerrime fero» (il senso pare essere: “da una missiva del nostro Edo [Pietro Capretto], ho saputo che i libelli di cui non avevo tratto copia per me stesso, li ha con sé portati a Rimini; di ciò sono molto dispiaciuto”). L’autorevolezza del Liruti rende tuttavia probabile che in luogo di «car(mina) […] Ariminum secum asportasse» si debba in realtà leggere: «Caviceum […] Ariminum secum asportasse» (“Caviceo se li è portati via a Rimini”: in tal modo diviene anche corretta la sintassi della frase).
ChiudiBibliografia
Epistola ad Severinum Chalcum de duobus Evangelii locis (Indice generale degli incunaboli d’Italia, 2659, s.d.t. [M. Codecà]); lettere a C. sono a cc. aiir, aiiv, aiiiiv e ripubblicate in L. SIMONA, Giacomo Caviceo…, 211-212). [I. DI PORCIA], Opus epistolarum familiarium, s.d. [1505]; G. ANSELMI, Vita de Iacobo Caviceo, in I. CAVICEO, Libro del Peregrino, Parma, Salado e Ugoleto, 1513; LIRUTI, Notizie delle vite, I, 389, 424-428; III, 436-441; L. SIMONA, Giacomo Caviceo. Uomo di chiesa, d’armi e di lettere, Berna-Francoforte, H. e P. Lang, 1974 (Pubblicazioni universitarie europee. Sezione IX, Lingua e letteratura italiana, IV); I. CAVICEO, Il Peregrino, a cura di L. VIGNALI, premessa di G. GHINASSI, Roma, La Fenice, 1993 (Università degli studi di Parma, Istituto di filologia moderna, Testi e studi, n.s.): in particolare p. 275 s., cap. XXIV e XXV (c. 136r ed. princeps) per i ricordi del soggiorno friulano; L. SIMONA, Caviceo (Cavizzi), Iacopo, in DBI, 23 (1979), 93-97; L. VIGNALI, La lingua di Iacopo Caviceo nel Peregrino. Parte prima: l’aspetto grafico e fonetico. Parte seconda: l’aspetto morfologico, «Studi e problemi di critica testuale», 37 (1988), 37-115; Ibid., 40 (1990), 69-147; A. BENEDETTI, Dame pordenonesi del Rinascimento in un passo del romanzo “Il Peregrino” di Giacomo Caviceo, «Il Noncello», 7 (1956), 23-38; ID., L’attività educativa e poetica del Cimbriaco (1449-1499) e la sua influenza nel diffondersi della cultura umanistica in Friuli, «Atti dell’Accademia di lettere, scienze e arti di Udine», s. VII, 3 (1960-63), 109-205.
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