Nacque a Flaibano (Udine) il 6 maggio 1877 (la madre era una Pirona) e a Flaibano morì il 13 giugno 1966. Perito agrimensore, le sue condizioni di benestante gli consentirono di non esercitare e di trascorrere «nella casa padronale, salvo la sosta invernale in città, una vita nascosta e raccolta» (D’Aronco), una vita che peraltro conobbe l’avventura dei viaggi: in moto, con una scelta anticonformista che caratterizzò anche altri aspetti della sua esistenza. C. non formò una famiglia propria e tra i pochi amici contava Achille Tellini, altra figura eccentrica nel perimetro locale. Si addensa nel giro breve di alcuni anni, tra il 1905 e il 1912, l’interesse più vivo per la poesia, che pure a stampa affiorerà a intervalli distanziati, ma mette conto registrare subito il ricorso allo pseudonimo, la ritrosia di apparire, di esporsi: Argeo, Settimio Agreste di Villebuine, magari contratto nella sigla S. A.d. V., a mortificare ulteriormente l’identità autoriale (o a sublimarla in geroglifico). Dove si noterà ancora la contiguità semantica di Argeo e Agreste, a dichiarare anche nel dettaglio un «senso» «profondo di attaccamento e quasi di smarrimento nel grembo della madre terra» (Faggin). Assecondano il ritmo delle stagioni (e prospettano in qualche modo una idea di canzoniere, un filo narrativo) i versi editi tra il 1911 e il 1929, con le tappe intermedie del 1921 e 1926: un tempo ciclico sottilmente inquieto, non una nicchia accomodante, un idillico e appagato abbandono. ... leggi Non collima con tale prospettiva un quinto titolo integralmente italiano, rendiconto di un viaggio del 1934 in Palestina, che oscilla tra esercizio devoto e istanza odeporica. Ma la poesia (friulana e italiana) si rastrema in una fitta sequenza di spartiti (Tipografia Menini di Spilimbergo, Litografia Roveri e Stamperia musicale Venturi di Bologna), dove la parola non si accampa autonoma e assoluta: inni liturgici (e non), romanze, serenate, villotte, che Giuseppe Zorzi mette in musica, su suggerimenti dello stesso C. Per cedere poi ad altri ambiti, non in antitesi e anzi sviluppo della poesia, riduzione a sistema di alcuni suoi spunti di necessità più criptici e scorciati: la filosofia, la parapsicologia, l’astronomia (sono almeno sette gli opuscoli astronomici in collaborazione con Umberto Pasquali tra il 1943 e il 1960). In Primevere, lemma iniziale della quadrilogia, sono evidenti i casi di anisosillabismo e anisostrofismo, e anche la griglia delle rime non asseconda l’omogeneità dello schema chiuso. Si può rilevare il fenomeno marcato del prestito («gaudio», «tedio», e, con artificiosa acclimatazione, «albeà» [albeggiare]), con il contraltare denso del lessico genuino («prodolarie» [catena della pertica del giogo], «mogarli» [bottaccino]). Si può rilevare ancora la piega vezzeggiativa («fredulìn» [freddolino], «soreglìn» [solicello], «erbute» [erbetta], «voglutt» [occhietto]), piega che, congiunta con il gusto della allitterazione («Mande il to zirli: ziu – zi – ri – zizi» [Manda il tuo zirlo: ziu – zi – ri – zizi]), rinvia a Pascoli. Primevere non rimuove i risvolti duri della fatica, ripresi anzi con puntualità (A meti blave [A seminare granoturco]), e offre scampoli di paesaggio nitido, aperto a dismisura nell’«imensitad dal cil» [immensità del cielo], nel sigillo felice della rima baciata («E l’odule, pe’ prime, a è za imatide / E a çhiante cence fin, in cil sparide» [E l’allodola, per prima, è già impazzita / e canta senza fine, sparita in cielo], con il guizzo del virtuosismo nell’indugio sul canto dell’usignolo («E al studie il çhiant, e al pirle inamorad… Come un sclipign di aghe fresch e pur… E al pirle delizios, plen di content…» [E ricama il canto, e prilla innamorato… Come uno zampillo di acqua fresco e puro… E prilla delizioso, pieno di felicità…]). Con il sottinteso appena alluso, non ancora dispiegato di un presupposto filosofico: «Cun Te la vite e’ torne, e’ riprodus: / Destin dal Moto ch’a no-l cesse mai!» [Con te la vita torna, si riproduce: / destino del movimento che non cessa mai!], «rivivarai / Tel cur grand da l’uman ch’a no ’l mur mai» [rivivrò / nel cuore grande dell’umanità che non muore mai]. Non grande per contro si dimostra il cuore della critica: «Se è un fiore, questo libro può passare come una promessa di cose migliori; se vuol essere un frutto, è un povero frutto staccato ancora immaturo dall’albero che lo produsse». Così Giovanni Lorenzoni. Il secondo titolo, Ròses di pradarie [Fiori di prateria], non denuncia contatti con l’estate, ma è questa la stagione che ritaglia. Dove è schietto l’omaggio a Zorutti, con Ploe in campagne [Pioggia in campagna] che rimodula La plovisine [La pioggerellina]: «E’ cole la ploje, / Dutt cress e al zermoje, / La biele verdure / A giold te fresçhiure…» [Cade la pioggia, / tutto cresce e germoglia, / la bella verdura / gode nella frescura…]. Ma dove ha conferme generose lo sguardo diretto, non amidato, sulla verità fisica dei campi («Zâl l’è il forment ch’al pende e s’ingranis…» [Giallo è il frumento che si piega e granisce…], sulle opere e i giorni (A tajà forment [A mietere il grano], I seans (setors) [I falciatori]), con fotogrammi asciutti e perfino acri, ma oggettivi, non espressionisticamente tesi. Il lavoro si rapporta alla maglia dei sentimenti, all’affiorare castigato degli affetti, con l’amaro del loro epilogo, ma si rapporta anche, con finezze psicologiche, con sfumature delicate, alla crudeltà atmosferica che cancella i frutti della fatica. La raccolta però, che pure allinea due cartoline da Lignano, è nel segno della sera che sopraggiunge, della notte che avvolge, e la notte innesca interrogativi sul destino, sul mistero della vita: da Chiant di griis avostans [Canto di grilli agostani], che nella vicenda del grillo coglie una identità con la vicenda umana, all’impaginato grande di De Profundis, con la voluta larga della sua apertura («Pai çhiamps, pai prads, pal scur da la campagne, / Pai trois da la coline là squindude / Al rive adasi il sun di une çhiampane…» [Per i campi, per i prati, per il buio della campagna, / Per i sentieri della collina là nascosta / giunge lentamente il suono di una campana…]). Dove si profilano più sottili risvolti, come l’incessante trasmutare: «de tiere frede / Dutt ven, dutt va, dutt torne come aruede» [dalla terra fredda / tutto viene, tutto va, tutto torna come ruota], con percussivo ritmo anaforico. Nella vertigine di una prospettiva senza confini: «Infinitat che mai si è comprendude, / Rivoltament che mai gambiant, al mude…» [Infinità che mai si è compresa, / rivolgimento che mai cambiando muta…]. L’immensità stordita si ripropone in Griis di Jugn [Grilli di giugno], un ingorgo di domande comunque ricondotte a un imperscrutabile ordine superiore. Ròses di pradarie include due traduzioni: La quiete dopo la burasçhie [La quiete dopo la tempesta] e I doi frutz (traduzion) [I due fanciulli], di cui si tacciono gli autori. Leopardi e Pascoli sono tuttavia punti di riferimento cruciali (Pascoli anche per la metrica) e a premere non sono i versi più amabilmente scolastici, ma quelli più impervi: la tematica notturna è attraversata da stupori e smarrimenti, da un interrogarsi dove è certo attiva la memoria del Canto notturno e della Ginestra, come è attiva la memoria de Il ciocco di Pascoli. Anche a Ròses di pradarie la critica nega il consenso cordiale: «ha difetti a iosa: scienza e filosofia mal digerite, derivazioni mal dissimulate, lungaggini inespressive, ingenuità d’ogni sorta, opacità di verso e di parola, italianismi sintattici e lessicali, persino versi sbagliati», «ma ha, anche, della poesia», «un senso quasi pànico del mistero, della natura». Così Bindo Chiurlo. Inzalidis d’autun lis fueis a còlin… [Ingiallite d’autunno le foglie cadono…] è il terzo titolo e, nel suo enunciato, sembra voler rispettare la logica della circolarità, ma la raccolta è meno organica e compatta: rompe i limiti del paese, per osservare il Friuli e la Carnia, per procedere oltre, affiancando ai versi friulani una corona di testi italiani. Serenità, dolcezza, ma anche malinconia, attesa delusa, e ripiegamento, sollecitazione al rimemorare. Il rimemorare di C. non è morbido, stagnante, ma dinamico, transitivo: «Chest puest a mi riquarde timps passads / di vitis precedents e o viv la vite / di chei che han vivud chì, za smenteads» [Questo posto mi ricorda tempi passati / di vite precedenti e vivo la vita / di quelli che hanno vissuto qui, già dimenticati]. In una metafisica continuità: «O sint passà culì, viodint, pensant / dai spirits che no muerin, che si çhiatin / tel misteri dal mond eterno e grand» [Sento passare qui, vedendo, pensando / spiriti che non muoiono, che si trovano / nel mistero del mondo eterno e grande]. Il lessico non respinge il prestito, che si amalgama con le tessere autentiche, per disegnare immagini di impressiva verità documentaria, come in Tornant al gno paîs [Tornando al mio paese]: «i sint passà ogni tant dai çhiarugéi / cun tràulis ch’a van vie cun grang bordèi, / po dopo i sint lis cidulis dal pozz / ch’a cìulin; sbèrlin frutis cu’ i seglotz…» [sento passare ogni tanto degli avantreni degli aratri / con tregge che vanno via con grandi strepiti, / e dopo sento le carrucole del pozzo / che cigolano; gridano ragazze con i secchi…], in una partitura tutta chioccia, allitterante sui suoni aspri. Più articolata e complessa è la fisionomia di Nêv e fantasiis [Neve e fantasie], che si avvale delle illustrazioni di Asterio Peressi e in coda propone quattro robuste note di chiarimenti: ardui temi filosofici (il senso apparente della individualità e l’illusione del concetto di mondo esterno come cosa in sé), economici e sociali (ma si veda: «Il regno profetizat da Crist si vizinarà a poch a poch man man che la lezz da l’Amor a sostituirà che de sole fuarze; e l’umanitad a vegnarà al so scopo sol cussì, no altri che cussì» [Il regno profetizzato da Cristo si avvicinerà a poco a poco man mano che la legge dell’Amore sostituirà quella della sola forza; e l’umanità raggiungerà il suo scopo solo così, nient’altro che così], religiosi (in italiano: la fede, la convinzione della sopravvivenza). L’ultima, più concisa, investe le illustrazioni di Asterio, appiglio per un non banale postulato teorico: l’arte non ha il valore di un mestiere, frutto di apprendistato, con funzioni pratiche, è invece un dono di natura e le sue radici affondano nel mistero della nascita. In avvio si situano testi più vicini alla fase della stampa ed è netta la rivendicazione di una soggettività metrica che obbedisce a un proprio respiro, subordinando alla curva del pensiero verso (che assume la parola e non la sillaba come piede e misura) e rima (la cui schiavitù produce maniera ed è perciò inganno), una cadenza che asseconda «chel ch’i pensi drenti» [quello che penso dentro]. C. respinge così le critiche che erano state rovesciate sui suoi versi. Persiste il bilinguismo inaugurato con Inzalidis. Nella seconda parte, Realtât e poesiis [Realtà e poesie], ha scoperta evidenza la realtà della fabbrica e (a contrasto, ma anche a complemento) il florido benessere urbano, in una costruzione a dittico. Uno scenario inedito per la poesia di C. e importa la sutura che lo stesso C. postula: «Il mond jè une çhiadene; / si dan di vivi un l’altri, / e ognun a à la so pene» [Il mondo è una catena; / si danno da vivere l’un l’altro, / e ognuno ha la sua pena], a riformulare l’antico apologo di Menenio Agrippa, in sintonia con il frangente storico. La prima parte, Nêv e fantasiis [Neve e fantasie], nel segno fascinoso della neve, si mantiene in un rapporto solidale con la natura, con un paesaggio noto per lunga consuetudine. Con le speculazioni che ne discendono: il mistero della natura, il tempo che scorre senza rivelare un suo fine, il ribadito principio della continuità («Sint un fil ta l’invisibil / ch’a mi leje a chest paîs / […] // Come se altris ch’a pesçhiassin / cheste tiere a di culì / vein di gioldi la me vite / traplantade in avignì» [Sento un filo nell’invisibile / che mi lega a questo paese / […] // Come se altri che calpestassero / questa terra qui / debbano godere la mia vita / trapiantata nel futuro]), e gli occhi che si perdono nell’abisso del firmamento. Secondo Pasolini, C. è «un ‘caso’ di forza espressiva elementare», «idealmente al primordio della lingua», «lingua e parlante sono una cosa sola: non c’è la possibilità di un distacco, di una riflessione: come in un semplice contadino; sì che il Friuli vi compare scorciato in particolari magici, irreali appunto perché carichi di realtà naturale: non affiora alla luce della coscienza». Rispetto alla scrittura friulana il pellegrinaggio in Palestina si può considerare una sorta di appendice, di frutto tardivo, ma non senza motivi di attenzione: per la lingua ingessata («Ei sparve!»: ormai anacronistico il pronome) e, insieme, sensibile al nuovo (il lemma «auto»), per la grana allitterante di qualche endecasillabo. Ma più per la barriera che assume nei confronti dell’altro: arabo o ebraico che sia. Con a sigillo comunque l’immagine gioiosa di un dono colmo di significato, pegno e promessa di nuova vita: «e i bimbi, pronipoti di Maria, / t’assaltano giulivi e ti fan festa / offrendoti dell’uva e melagrani / e le anfore simboliche del vino».
ChiudiBibliografia
Primevere (da lis Stagions). Poesis in argoment di Settim[i]o Agreste di Villebuine, Codroipo, Tip. Carlo Cengarle, 1911; Ròses di Pradarie. Poesies di Argeo (cun dos traduzions di classichs), Udine, Del Bianco, 1921; Inzalidis d’Autun lis fueis a còlin… Poesiis di Settimio, Spilimbergo, Tip. D. Menini, s.d. [ma 1926]; Nêv e Fantasiis Realtât e Poesiis di S. A. d. V., Illustrazioni di Asterio [Peressi], Spilimbergo, Tip. D. Menini, s.d. [ma 1929]; Luci ed armonie e nostalgiche memorie dal paese di Gesù. Ritmi poetici sul Pellegrinaggio del 7 - 8 - 934 nella Palestina, Spilimbergo, Tip. Succ. Menini, s.d. [1934?], anche questo firmato con la sigla S. A. d. V.; Griis di Jugn, Poesie friulane scelte e presentate da G. Faggin, Udine, SFF, 1972.
DBF, 189; G. LORENZONI, Recensione a Primevere, «Forum Iulii», 3/3 (1912), 182-184; B. CHIURLO, Recensione a Ròses di Pradarie, «Rivista della Società filologica friulana», 2 (1921), 154-156; ID., La letteratura ladina del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 19224, 75; CHIURLO, Antologia, 430-431; Recensione a Nêv e fantasiis, realtât e poesiis, «Archivi de leterature furlane antighe e moderne», 7 (30 zenâr 1930), 55 di copertina; P.P. PASOLINI, La poesia dialettale del Novecento (1952), in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. SITI - S. DE LAUDE, con un saggio di C. Segre, Cronologia a cura di N. Naldini, Milano, Mondadori, 1999 (I Meridiani), 854-855; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 167; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 290-291; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 20-22, 42-45, 524.
Un commento
flavio vidoni 4 Aprile 2017
A cura di flavio vidoni, nel 2016 comune e pro loco di flaibano hanno edito "robis di fruts", la raccolta anastatica dei quattro volumi di poesie pubblicati a suo tempo da celso cescutti.