Nacque a Cassacco (Udine) il 13 ottobre 1886 da Giovanni, segretario comunale, e da Teresa Monassi. Le elementari si svolsero privatamente con il maestro Pietro Mattioni, i livelli superiori lontano dal Friuli: il ginnasio a Mogliano e a Este presso i salesiani, ma il liceo a Udine, gli studi universitari a Padova, conclusi nel 1909 da una tesi sulla poesia religiosa del Settecento discussa con Vittorio Rossi. L’esordio nella scrittura fu precoce: C. collaborò, ancora adolescente, con «Il Crociato», «La Patria del Friuli», allargando via via il cerchio delle testate. L’insegnamento negli istituti tecnici connotò la prima fase della vicenda umana e professionale. Tra il 1910 e il 1916 C. fu a Macerata, Caltanissetta, Chieti e Jesi. Del 1915 è il primo titolo di rilievo: un Corso di stilistica con un robusto apparato antologico, dove importa l’articolazione dei fenomeni di lingua in un versante collettivo e in un versante soggettivo, disgiunti, ma da conciliare. C. resta in bilico tra rifiuto della tradizione e suo sostanziale recupero, a dispetto del richiamo a una «intuizione» non propriamente crociana. Fermo è l’ostracismo per barbarismi e neologismi e, a posteriori, non sempre la censura persuade: colpisce tecnicismi come «amnesia» e «fobia», latinismi come «analogo» e «delega», francesismi come «debutto», che il tempo ha provveduto ad acclimatare. ... leggi Si segnala l’insistenza sulla necessità di «cogliere l’intimo delle cose, la loro parte vitale», di concentrarsi sull’«anima delle cose», «lasciando nell’ombra i particolari secondarî, inutili ed ingombranti», dando respiro a «un’osservazione più larga e comprensiva, più profonda, più sintetica». «Sintesi» è da subito parola chiave. Un vizio cardiaco lo rese inabile al servizio militare, ma, interventista convinto, a Jesi C. fu eletto delegato distrettuale della Croce Rossa e allestì un ospedale, dimostrando notevoli capacità organizzative. Alla fine del 1916, non su sua richiesta, fu trasferito all’Istituto tecnico di Udine. Il periodo udinese ebbe durata breve, ma di grande intensità e, ad assorbire le energie di C., non furono i soli compiti scolastici. Non sfollato, il 5 novembre, dopo Caporetto, C. aderì al Comitato cittadino provvisorio, che trattò con le autorità austriache per tutelare i bisogni della popolazione, e fu assessore nella giunta comunale presieduta dal sindaco Giuseppe Orgnani-Martina. Nel 1915 aveva affidato alla «Nuova antologia» il saggio La letteratura ladina del Friuli, nel 1922 pubblicò La funzione storica del Friuli (brani di un discorso indirizzato agli ufficiali del Comando supremo a Udine il 18 gennaio 1917), individuandola nella assimilazione degli slavi. Il nodo friulano restò primario anche al termine della guerra: il 23 novembre 1919 C. fu tra i fondatori (e anzi tra i promotori più decisi) a Gorizia della Società filologica friulana, all’interno della quale assunse responsabilità considerevoli, avviandone il «Bollettino» e la più cospicua «Rivista». Ma dissapori familiari, che avrebbero portato a una separazione legale, lo costrinsero a sollecitare il trasferimento a Modena, un soggiorno che si esaurì tra il 1919 e il 1921. Dal 1922 al 1930 C. fu a Praga: lettore di italiano, subentrando a Giani Stuparich, all’Università Carlo IV, poi docente. A Praga C. fondò l’Istituto di cultura italiana, nel 1923, modello per enti analoghi sorti in seguito a Bucarest, Budapest, Varsavia, Vienna, dotandolo di un «Bollettino», dalla vita corta, per avviare nel 1927 una più ambiziosa «Rivista italiana di Praga. Organo dell’Istituto di cultura italiana». Agli anni praghesi si lega il progetto, realizzato nel 1925, di una Antologia di scrittori italiani per stranieri adulti che studiano la lingua italiana, che parte dai contemporanei, per risalire a ritroso, un «libro interamente scevro di preoccupazioni informative», un mosaico di testi. Agli anni praghesi si lega anche il progetto di un Disegno storico della letteratura italiana, annunciato, ma risolto in alcuni anticipi parziali (Petrarca e Boccaccio, Alfieri). Un dinamismo frenetico, bruciato tra didattica, impegni come brillante conferenziere, e gli articoli inviati al «Corriere della Sera». Nel 1925 C. ottenne la libera docenza presso l’Università di Firenze, tra il 1929 e il 1937 (e dunque oltre il segmento sotto esame) stilò una ventina di voci per l’Enciclopedia italiana (da Ermes di Colloredo a Pietro Zorutti, da Caterina Percoto a Pietro Bonini, da Federico Luigini a Giulio Camillo Delminio, da Ludovico Leporeo a Daniele Florio, da Ippolito Nievo a Giuseppe Marcotti). Ma l’esperienza praghese si interruppe bruscamente e il rientro, forse dovuto alla meschinità di un funzionario del Ministero degli esteri, fu faticoso, trovando alla fine uno sbocco a Torino: insegnamento di letteratura italiana e straniera presso l’Accademia Albertina di belle arti, supplenza di letteratura italiana alla Facoltà di lettere dal 1931 al 1935 (C. supplì Vittorio Cian) e poi incarico per la stessa disciplina a magistero, e una «Rivista di sintesi letteraria» (il primo fascicolo uscì nel 1934, l’ultimo nel 1938, per un totale di undici numeri). C. collaborò anche al Dizionario letterario Bompiani. La morte sopraggiunse la vigilia di Natale del 1943, nel disagio della guerra e nella amarezza della sconfitta. Una vita zeppa di iniziative, ma costretta a un vagabondaggio oneroso, precaria per una salute malferma, e turbata e instabile è l’intera personalità di C.: i diari restituiscono una figura ambivalente e nevrotica, ombrosa, una labilità inquietante, ma anche un egotismo esasperato, «una fermissima convinzione della propria eccellenza» (Marchetti). C. «disseminò una selva di ricerche, d’appunti, d’osservazioni, di contributi che toccano i più diversi aspetti del paese» (Pilosio), un fervore intenso, ma condannato alla «frammentarietà» (Marchetti), raggiungendo raramente la misura del volume, la trama più solida e organica. Nello spettro largo degli interessi ha un ruolo marcato la letteratura orale, specie friulana. A C. si deve una Bibliografia ragionata della poesia popolare friulana (del 1920-1923); nella Antologia della letteratura friulana (del 1927) una sezione è riservata a ninne-nanne e cantilene, canzoncine a ballo, lamenti funebri e preghiere, fiabe e leggende, proverbi; e la «Rivista di sintesi letteraria» accoglie, nel 1934, una Valutazione psicologica e artistica dei canti popolari friulani, dove i due attributi dichiarano i vettori portanti, che mortificano (o comprimono) i nessi più specificamente etnografici. Sul C. folclorista sono esemplari alcune pagine di Vidossi: sulla Bibliografia («pur non esente da qualche omissione, può dirsi un modello del genere»: C. esclude «filastrocche, giuochi, indovinelli anche se in rima, a meno che non rivestano vera e notevole forma poetica»), sulla raccolta, sulla analisi critica, che contempla un aspetto filologico-storico (che «riguarda le origini, le parentele, le aree di diffusione, il modo di fiorire e diffondersi, ieri e oggi, della villotta») e uno psicologico-estetico (che «si propone di valutarla come espressione del carattere e delle attitudini del popolo friulano»). Ambito di elezione per C. fu la villotta e «centrale gli apparve» il nodo «dei rapporti della poesia popolare con la psiche, con le attitudini cioè e col carattere del popolo, attitudini e carattere ch’egli cercò di derivare dall’ambiente fisico e storico. E nella ricerca, difficilissima di questi rapporti diede la misura delle sue grandi doti di critico e di studioso» (Vidossi). Merita un cenno la toponomastica, che pure produce solo una relazione al VII congresso geografico italiano, del 1921 (Per la raccolta del materiale toponomastico italiano, con Olinto Marinelli) e le Istruzioni per la raccolta del materiale toponomastico, edite nel 1921. La critica letteraria spazia a tutto campo, dando prova di informazione accurata, respingendo tuttavia l’inerzia dello scavo erudito, puntando alla «sintesi», in una dialettica riuscita tra l’autore sotto esame e il contesto, a mediare tra il metodo storico degli anni universitari e il successivo (e non del tutto persuaso) approdo ai principi estetici crociani, nel garbo e nella eleganza di un porgere che prescinde dal rigore di saldi assiomi teorici. La bibliografia, fitta, si dirama, con adesioni e sordità, ben dentro il Novecento. Hanno spicco particolare i saggi che intrecciano personalità di caratura alta e i più modesti confini del quadro friulano: come Il Friuli nelle memorie di Carlo Goldoni (del 1907), che asseconda la falsariga dei Mémoires per evocare le atmosfere municipali dell’epoca; e come Ippolito Nievo e il Friuli (del 1931), ricco di dati, di interpretazioni. Ma altra tenuta dimostrano (e altra funzione hanno svolto) i contributi sulla scrittura friulana. A C. si deve l’edizione delle poesie di Zorutti: una edizione che esclude «ciò che è indiscutibilmente borra insignificante», ma che è attenta a non elidere il «valore rappresentativo di tempo e d’ambiente». La disposizione dei versi è cronologica, nel rispetto della fisionomia del lunario, per non alterare il gioco di «quella compagine, fatta di mestizia e di giocondità, di sentimento naturalistico e di gaiezza rumorosa, che era ordinata a dare un’impressione unica, non ad essere sciolta e considerata a spizzico». Pur se la raccolta in volume nega la possibilità di ripristinare i ritmi e i modi di lettura originari: il passaggio dal taglio di consumo, maneggevole e feriale dello «Strolic», classico opuscolo da bisaccia, alla dimensione da biblioteca cancella le premesse, seriali per statuto, dell’almanacco. A C. si devono notazioni pungenti sulla psicologia di Zorutti, sulla sua vita, sulle sue letture (da Béranger a Nalin, a Vittorelli), sull’ambiente udinese così refrattario alle novità politiche, così restio nei confronti delle idee romantiche. Il profilo è riapparso nel 1942 per i centocinquant’anni della nascita del poeta: «mirabile libro» («mirabile volume» anche per Vidossi), secondo Ferdinando Neri, «che, forse più di ogni altra sua prova, manifesta la sua visione serena, ariosa, della critica letteraria, insieme con la sua scrupolosa diligenza e, si può dire, la sua costante passione per la poesia ancora avvinta e commista all’anima popolare», ed è indubbia la finezza dell’analisi. Ma Zorutti resta «il maggior poeta che abbia avuto il Friuli anche tenuto conto dei poeti nella lingua nazionale»: nel 1942, l’anno di Poesie a Casarsa di Pasolini, non emerge un dubbio, una perplessità sulla statura del poeta e sulla sua sintonia piena con una stagione ormai rivolta. A C. si deve anche l’edizione degli Scritti friulani di Caterina Percoto, una edizione che uniforma e ripulisce la grafia, rimuovendo oscillazioni e precarietà, creando (o sostenendo) il mito di un friulano immacolato. A C. si deve anche un compendio, La letteratura ladina del Friuli, uscito dapprima nella «Nuova antologia», poi a Roma nel 1915 e nel 1918, con un destinatario non provinciale, infine a Udine nel 1922. Dove al Friuli si rivendica, dopo uno schizzo storico, etnico e linguistico, una individualità distinta, pur sottolineando e ribadendo la sua romanità secolare. E secco è il rifiuto di un felibrismo friulano in una lettera a «La Panarie» del 1935, dove ad allarmare è il postulato autonomistico del felibrismo, incompatibile in un’area ai confini. Del 1927 è l’Antologia della letteratura friulana: «Minutamente informata, sorretta da gusto esemplare, l’antologia va dai primi scritti d’arte del Trecento ai contemporanei, offrendo un quadro compiuto della poesia d’autore e popolare, e tracciando per ciascun periodo e per ciascun personaggio notizie biografiche, sovente di prima mano, e giudizi critici sempre approfonditi e persuasivi» (D’Aronco). Ma anche con verdetti irricevibili. L’Antologia offre una sistemazione storica e critica che si vorrebbe paradigmatica, elabora un assetto lapidario, fissando un canone cristallizzato di nomi, di testi, di gerarchie. Con limiti filologici palesi: come la omologazione grafica cui sono costretti i brani scelti. Ma anche con emendamenti perentori quanto improvvidi: come nel caso di «jade», agliata, risolto in «jote», sorta di minestra, in un testo di Nicolò Morlupino, perché il primo termine «non dà senso». Anche nel discorso critico agisce lo stesso registro tassativo: «la trivialità senza ragione e quindi senza bellezza di moltissime ottave» del travestimento cinquecentesco del primo canto del Furioso (e così se ne dissolve la peculiarità stilistica), la «innata povertà fantastica» di Giovan Battista Donato (che è invece caratterizzato da estrosità indomabile); e si potrebbe procedere con una tabella parallela di referti positivi, altrettanto drastici, dove in discussione non è il giudizio singolo, ma il fare categorico, tagliente, «definitivo». C. estende anche ai contemporanei il suo magistero: con prefazioni (a Ercole Carletti, Giovanni Lorenzoni), recensioni e interventi (su Vittorio Cadel, Pieri Corvat, Enrico Fruch, Giambattista Gallerio), che orientano e dettano il gusto. È però indiscutibile il merito enorme «di avere esteso i suoi studi a tutto il campo della letteratura fiorita nel Friuli, così in lingua come in dialetto, così d’arte come popolare; e di avere conferito a tali studi tutto il rigore acquistato nelle ricerche in campo nazionale» (Vidossi). Ma C. è anche poeta: in italiano e in friulano, con una programmata complementarità dei due codici. La metrica di Piccoli voli (del 1906) è varia: distici, quartine di ottonari, sonetti, e la raccolta si muove tra ricordi letterari («E noi, sorella primavera, a te / direm le laudi…», dove è palpabile la maglia dannunziana) e non scontate immagini di paese («La domenica, a vespero, emigranti / pochi. La donna delle arroste, alzando / il viso rosso, cerca le giganti / pipe tedesche, che van diradando // di tra la folla…», con impiego sistematico dell’enjambement). E una dizione comunque eletta nel lessico («case ebriate di sole») e nel taglio figurato («Da Tricésimo un incendio di vetri…»). Optano per la prosa ritmica le raccolte posteriori. Evidente è l’erotismo di Strofi (del 1922, con dedica ad Alfredo Schiaffini). Dove non è demotica la giunzione di aggettivo e sostantivo («ebro vento», «freschezza ebriosa», «fumida piana»), ma di regola non demotico è il vocabolario («e la bocca flagri come un rosolaccio di campo», «inàura l’umido bosco», «rorante», detto dell’anima), con isolati scarti metaforici («l’incenso dei boschi», «vigilar delle stelle»). L’abbandono della metrica tradizionale non elude la rima, interna o in clausola, anche a mascherare schemi canonici («e un sussurrare di veli, stesi dal magico vento, era sul piano lento, era al bordo dei cieli»: una cantabilissima quartina a rime incrociate). Poemetti in prosa sono le Nove poesie del 1929 (edizione in commercio del 1930, «con qualche ritocco»), dove si osserverà la piega traslata di «candido disco di gelo» (la luna), «laghi di fiamma» (al tramonto), «per le onde un formicolio di minute rose d’oro» (all’alba). In coda alle Nove poesie un Bilancio dalla diversa strategia: «Ho appeso una lampada al Sole», un unico rigo nel bianco della pagina. Componimenti dalla tipica scansione «ungarettiana» (a dispetto di un ruvido giudizio del 1929: «Ungaretti, scaltro poetino innalzato a grande poeta») non mancano in Poesie (del 1954), come Refrigerio («Vorrei / nevicarti / sul cuore») o Stato d’animo («Abito da ieri / una casa lieve / di vento»). Ad altro ruolo (e ad altro rango) sono destinati i versi friulani: «Rappresentano essi, con i temi che non escono dagli spettacoli di natura campestre, dalla dipintura di scene rustiche, dall’amore pacato, e più con il tono, che direi in tutto minore – triste o idillico che sia – l’espressione di una parte di me, che cerca la sua forma, istintivamente, nella parlata nativa. L’altra, si ricovera altrove, nei versi italiani». Pur se C. non sottrae, in un ragionamento sottile, di accorta prudenza, «alla poesia dialettale» la possibilità di «esprimere sensi che sorpassino quelli che un uomo del popolo, sia pure di sentire delicato, può avere»: «Senza dubbio, occorre superare difficoltà enormi, perché il dialetto, nato fra il popolo e per il popolo, possa prestarsi a esprimere certi sentimenti raffinati, ma non è lecito ad alcuno fissare a priori al vernacolo fantastici limiti di contenuto e di espressione». Si avverte ad ogni modo la mano del critico che interpreta e classifica: C. «regola sempre, nei versi, la fantasia con la dottrina» (Marchetti), «non poteva farsi popolare e dialettale senza un certo sforzo di volontà, senza rinunciare cioè a una gran parte di se stesso» (Valeri), e nel suo canzoniere friulano «v’è arte e v’è artificio» (Cumin). Con una nitidezza di propositi che si definisce nel tempo. I Versi friulani del 1908, con una dedica a Fruch e Corvatt, nel loro ventaglio metrico (distici, ternari non rimati, quartine di senari e settenari, sonetti) non includono schemi mutuati dalla poesia popolare. Istantanee di paese non risapute (ancora gli emigranti stagionali) si alternano con scorci di paesaggio, con i ritmi della natura, ma anche con una chiave più introspettiva, con notturni più inquieti. Sono trentasette i testi nella edizione del 1908, dieci dei quali vengono espunti nella edizione del 1921, che ne aggrega altri quindici. La scelta del 1954 ne cancella sei, per assorbire in parte Lis vilotis des oris [Le villotte delle ore], già apparse nell’opuscolo per nozze Malattia della Vallata-Montanino del 1925 (e – ma non tutte – nello «Strolic furlan» per il 1923). Nella edizione del 1921, con dedica al padre, si colgono i ritorni al mondo dell’infanzia e dei primi acerbi amori, l’omaggio istituzionale a Zorutti, la dimensione stilizzata di una vita quieta, ripiegata nel cerchio riposante della campagna. Dove sono visibili tracce carducciane (il Comune rustico) e pascoliane (il topos del paesaggio immerso nella nebbia). Prevale, con la terzina, la misura del sonetto e della villotta. Ed è la villotta la chiave dell’aggancio con l’universo popolare. Con esiti noti e felici: come la malinconica sequenza di Ciase scure («Buine sere, ciase scure, / ciase scure in miec’ dai ciamps, / e iò spieti tè criure / che ti ilùminin i lamps…» [Buona sera, casa scura, / casa scura in mezzo ai campi, / e io aspetto nel gelo / che ti illuminino i lampi…]), la inusualità delle similitudini, con guizzi maliziosi («Biele frute, biele frute / alte e fres’ce come un pôl: / se iò fòs ’ne passarute / sóre te larès di svôl» [Bella ragazza, bella ragazza / alta e fresca come un pioppo: / se io fossi un passerotto / su di te andrei in volo]). A essere rimodulati sono anche i canti della questua rituale: «Bón dí e bón an, siôr parón, / che Dio us dédi dal bén! / chest an e chest an cu-vén!…» [Buon giorno e buon anno, signor padrone, / che Dio vi dia del bene! / questo anno e l’anno che viene!…]). Nel complesso: «Innovò senza volere, antecipando la stagione di una poesia friulana non estranea alla raccolta anima del popolo di cui ritrae la parlata, il sentire, l’ambiente, ma non pregiudicata da questi fattori…» (Cantarutti). Resta da segnalare per il friulano la traduzione del Miracolo delle noci dai Promessi sposi su commissione di Ciro Trabalza (per Dal dialetto alla lingua, grammatichetta del 1917 per le scuole elementari).
ChiudiBibliografia
Antologie: Antologia di scrittori italiani per stranieri adulti che studiano la lingua italiana, Udine, Libreria Editrice Udinese, 1925 (poi Antologia di scrittori italiani particolarmente ordinata all’apprendimento della lingua, Udine, Libreria editrice Aquileia, 1929); Antologia della letteratura friulana, Udine, Libreria Editrice Udinese, 1927 (ristampa anastatica con aggiornamento di Andreina Ciceri, Tolmezzo, Stabilimento Grafico Carnia). Bibliografie: Bibliografia ragionata della poesia popolare friulana. Saggio, Udine, SFF, 1920 (= Sala Bolognese, Forni, 1986); Bibliografia ragionata di studi friulani, «Rivista della Società filologica friulana», 2 (1921), 59-72, 153-158. Edizioni: P. ZORUTTI, Le poesie friulane pubblicate sotto gli auspici dell’Accademia di Udine, Udine, Bosetti, 1911; C. PERCOTO, Scritti friulani, Udine-Tolmezzo, Libreria editrice Aquileia, 1928. Poesie: Piccoli voli. Versi, Udine, Del Bianco, 1906 (nozze Chiurlo-Disnan, XIX Maggio MCMVI); Versi friulani, Tolmezzo, G. Moro Editore, 1908 (seconda edizione accresciuta, Udine, Libreria Carducci, 1921); Strofi, Firenze, Vallecchi, 1922; Nove poesie, Udine, Casa Editrice Aquileia, 1930 (edizione non venale per nozze Leicht-Sassoli de’ Bianchi, settembre 1929); Poesie, Prefazione di D. Valeri, Udine, La Panarie, 1954. Saggi: Carlo Goldoni e il Friuli nel Settecento, Gorizia, Pallich & Obizzi, 19102; Corso di stilistica ad uso dei Ginnasi Superiori e degli Istituti Tecnici con letture ed esempi, Ascoli Piceno, Giuseppe Cesari, 1915 (poi Principi di letteratura ad uso delle Scuole medie superiori, Ascoli Piceno, Giuseppe Cesari, 1923); La letteratura ladina del Friuli, «Nuova antologia», 17 settembre 1915, 47-73, anche in estratto (edizioni successive, Roma, L’Universelle, 1915 e 1918; Udine, Libreria Carducci, 1922; ristampa, Udine, Ribis, 1978); La funzione storica del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 1922; Ippolito Nievo e il Friuli, Udine, Doretti, 1931; Pietro Zorutti poeta del Friuli, Padova, «Le Tre Venezie», 1942.
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