Nato a Trieste nel 1902, di professione medico-dentista, plasmò da autodidatta, ma con profondità intellettuale, una figurazione greve, linguisticamente “extravagante”. Aprì studio a Tarcento dove avvenne la sua formazione pittorica. Le sue opere fornirono un’interpretazione personale, difficile ed eterodossa, del neorealismo in chiave esasperatamente espressionista. Negli anni Cinquanta affrontò i grandi temi morali emersi dalla tragedia della guerra. All’ansia di libertà dedicò il primo gruppo di tele intitolate Filo spinato. I volti dei deportati nei campi di concentramento compongono una sorta di sabba allucinato. Lo spesso e tormentato strato dei pigmenti trasforma le composizioni in bassorilievi colorati. Opere difficili, proprio per il loro collocarsi al di fuori degli schemi allora dominanti, non vennero capite e furono anzi accolte da un coro quasi generale di critiche negative. Soltanto due storici dell’arte, Decio Gioseffi e Luigi Coletti, dedicarono loro un attento, approfondito esame. Insieme al regista Marcello De Stefano, fu C. a dare il segno, in senso teorico, al movimento teilhardiano sorto in Friuli all’inizio degli anni Sessanta. La filosofia “vitalistica”, evoluzionista e cattolica, di Teilhard de Chardin trovò nel medico e nell’artista un acuto interprete. Nel pensiero del religioso egli colse un messaggio di fratellanza fra gli uomini attraverso la riconciliazione con la terra, anticipando di vent’anni – come ha scritto Gioseffi – le tesi ecologiste. Da questa immersione in una “totalità geologica” spiritualizzata derivò anche la decisione di C., ripresa poi nella “Scuola della terrestrità corale” di Aquileia da lui fondata, di rinunciare alla propria individualità creativa, coinvolgendo collettivamente nella confezione del quadro, costruito a spessi strati di argillosa materia, gruppi di giovani. ... leggi In realtà la rinuncia rimase, per molti aspetti, un’affermazione di principio, giacché fu l’originale linguaggio del maestro a lasciare l’impronta sul lavoro degli allievi. I quadri, attraverso l’elaborazione del colore in spessori materici tridimensionali, intendevano sottolineare i profondi rapporti fra l’uomo e la terra, inseriti in un unico ciclo biologico che diventa anche serena dimensione spirituale. Tema dominante, dunque, è «la buona terra, nutrice e non matrigna dell’uomo – secondo le parole di Gioseffi – che gli fornisce francescanamente il suo sostegno e lo incanta con l’acre verde spontaneo della macchia silvestre e i verdi dolci e gai dei prati, dei coltivi e dei maggesi; con le prospettive a perdita d’occhio dei campi arati lentamente montanti verso il crinale d’ignote colline o declinando altrimenti verso un orizzonte irraggiungibile lungo il convergente serpeggiare dei solchi paralleli». È una pittura che ha le apparenze ingannevoli dei naif, ma in realtà è nutrita di succhi culturali e di una complessa elaborazione sintattica. Implicitamente le prospettive irte di campagne, di prati fluenti d’erbe e di fiori, di seminativi terrosi in cui pare di sentire il profumo acre delle zolle, di densità silvestri, di figure umane immerse nell’ampio respiro della natura, intendono denunciare gli appiattimenti e le artificiosità del mondo metropolitano. C. morì a Tarcento nel 1998.
ChiudiBibliografia
E. CULIAT, Neorealismo in pittura, «MV», 1° luglio 1952; ID., Sensibilità e ragione, Udine, AGF, 1962; Scuola di Aquileia. Terrestrità corale. 1970-1982… più di dieci anni di attività, Udine, AGF, 1982; [E. CULIAT ], Scuola di Aquileia. Terrestrità corale. Ritorno al centro, Udine, AGF, 1986.
L. DAMIANI, Friuli Venezia Giulia. L’arte del Novecento, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2001, 144; La terra e l’uomo. Emilio Culiat pittore della “Terrestrità”, a cura di M. DISSABO, Aquileia, Scuola della “Terrestrità corale” di Aquileia, 2009 (con completa bibliografia precedente).
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