Nacque a Ballabio il 9 agosto 1915 da Mario, ingegnere e imprenditore nato a Fagagna, e la milanese Ada Riva. Visse gran parte della sua infanzia tra Brescia e Milano, dove il padre e lo zio Timo nel dicembre 1913 avevano fondato, insieme ad altri, l’Acciaieria Angelini e C. (dal 1915 Danieli e C.), una delle prime in Italia a utilizzare il forno elettrico. Tuttavia, a causa delle non perfette condizioni di salute e della gracile costituzione, “Piciti”, così lo chiamavano in famiglia, trascorse lunghi periodi nella dimora dei nonni a Caminetto di Buttrio. Qui si stabilì solo nel 1929, quando il padre decise di trasferirvi sia la famiglia che la piccola officina per la tempera delle incudini, unico ramo ancora in attività della vecchia acciaieria, liquidata già nel 1923 a causa di un dissesto finanziario, le cui conseguenze si fecero sentire per diversi anni. In quel periodo il giovane D. si divideva tra la scuola, frequentando il Liceo Iacopo Stellini di Udine, e la fabbrica, dove trascorreva gran parte del tempo, dovendo sovrintendere ai lavori in luogo del padre che, dopo aver avviato l’attività, aveva continuato a lavorare alle Officine meccaniche (Om) di Brescia e Milano (prima di diventare responsabile della manutenzione impianti, era stato collaudatore e pilota per la scuderia dell’azienda, partecipando, tra l’altro, a diverse edizioni della Mille Miglia e della 24 ore di Le Mans). Per D. quella fu senz’altro la prima palestra, dove poté cimentarsi con i problemi di un’officina meccanica, mettendo contemporaneamente a frutto l’inventiva e lo spirito pratico di cui era dotato. Nel 1934 conseguì, da privatista, la maturità scientifica e si iscrisse alla Facoltà di ingegneria di Padova, che pure frequentò poco a causa dell’aumentato lavoro dell’officina PCT (sigla desunta dal suo nomignolo). All’inizio del 1938 gli fu offerta la possibilità di andare a lavorare alle Om, come responsabile della sala prova materiale e trattamenti termici. ... leggi Accettando l’incarico, D. si trovò nelle condizioni di dover dividere il suo tempo tra le Om (prima a Brescia e poi a Milano), l’Ateneo patavino, frequentando le lezioni al sabato, e l’Officina di Buttrio, dove si recava la domenica mattina. Furono anni di grandi sacrifici, duranti i quali andò consolidando alcuni tratti della sua personalità, caratterizzata da un forte senso di responsabilità e da una grande determinazione. Nel 1941 si laureò in ingegneria industriale meccanica con una tesi dal titolo Progetto di ampliamento e sistemazione di officine di fucinatura e trattamenti termici. L’esperienza fino a quel momento acquisita tornò utile anche durante il servizio militare, che svolse, prima a Trieste presso il 5° Centro automobilisti e poi a Pescara, dove frequentò il corso Allievi ufficiali. Rientrato a Milano fu assegnato alla Motorizzazione come ispettore di tutte le officine meccaniche dell’Italia nordorientale occupate nella riparazione di automezzi militari. Riprese pure il lavoro alle Om, dove nel frattempo era diventato direttore di tutte le sezioni di meccanica, montaggi e prove motori. Nel 1942 sposò Teresa Zoratti, dalla quale ebbe quattro figlie – Cecilia, Ada Maria, Annachiara, Marina –, e due anni più tardi fece definitivamente ritorno in Friuli, iniziando a lavorare come direttore tecnico alla SAFAU, acciaieria con laminatoio di Udine. Vicino al Partito socialista, nel periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale ricoprì diverse cariche pubbliche, riuscendo eletto viceprefetto di Udine e poi sindaco di Buttrio. Assunse inoltre il ruolo di consigliere della Banca del Friuli, incarico che mantenne fino all’inizio degli anni Settanta. Nel 1948, d’accordo con i Galotto (proprietari della SAFAU e soci dell’Officina Ing. Mario Danieli & C. cui era stato annesso un laminatoio), si recò in Argentina nel tentativo di impiantare una piccola impresa siderurgica, per la cui attività si sarebbero dovuti sfruttare i rottami delle navi affondate nel rio Paranà. Vi rimase tre anni, durante i quali avviò anche un’officina per alcune lavorazioni meccaniche, ma l’estenuante attesa dei permessi necessari e l’eccessiva burocrazia lo indussero ad abbandono il progetto e a rientrare in Italia. Dopo una lunga riflessione, e dopo aver resistito alle lusinghe provenienti dai vertici dell’Ansaldo e della Zanussi, nel novembre 1954 lasciò la SAFAU per dedicarsi totalmente all’officina di Buttrio che, ceduto il laminatoio ai Galotto, era passata alla produzione di macchine e attrezzature per imprese siderurgiche. Venuto a mancare il padre nel 1955, D., non senza consultarsi con le maestranze (una cinquantina di operai), decise di far decollare l’attività. Mise a frutto gli anni di esperienza alla SAFAU, durante i quali si era potuto rendere conto dei problemi tecnico-produttivi che affliggevano le acciaierie e i laminatoi italiani di piccole e medie dimensioni, costretti a fare i conti con le scarse risorse finanziarie a disposizione. Va sottolineato che D. intraprese questa strada in assoluta controtendenza, tenuto conto che proprio in quel periodo si stava dando attuazione al Piano Sinigaglia, il quale, come noto, definiva a livello nazionale una strategia mirante a favorire lo sviluppo della cosiddetta siderurgia a ciclo integrale: aziende di grandi dimensioni, capaci di produrre acciaio di qualità e a costi contenuti. I viaggi all’estero compiuti nella prima metà degli anni Cinquanta, gli consentirono da un lato di apprezzare il livello tecnologico raggiunto in Paesi come la Germania, l’Austria e la Svezia, storicamente più avanzati nella produzione di macchinario siderurgico, e, dall’altro, di ideare e realizzare attrezzature dimensionate alle esigenze dei piccoli produttori di laminati, concentrati soprattutto nel Nord Italia, i quali necessitavano di macchine leggere, flessibili ed economiche. I primi a beneficiare e a saper sfruttare le intuizioni di D. furono i “tondinari” del Bresciano (meglio noti come Bresciani), ossia i produttori di tondino per cemento armato, che a partire dagli anni Sessanta divennero un modello da imitare non solo in Italia, ma anche all’estero. Il rapporto speciale e simbiotico instaurato con gli utilizzatori dei suoi prodotti, consentì a D. di crescere con loro, passando dalla produzione di attrezzature e macchine per laminatoi (cesoie volanti, placche di raffreddamento, gabbie finitrici, ecc.) alla progettazione e costruzione dei cosiddetti “minimills”: piccole e medie acciaierie elettriche con colata continua e laminatoio. L’affermazione dei “minimills” a livello internazionale, come paradigma tecnico-economico alternativo alla grande acciaieria a ciclo integrale, fu resa possibile anche grazie al processo innovativo messo in atto da aziende come la Danieli. Basti pensare alla colata continua, una delle poche innovazioni tecnologiche che hanno rivoluzionato la siderurgia negli ultimi cinquant’anni: dopo aver installato e avviato il primo impianto alla Riva, acciaieria di Caronno Pertusella (1964), D. contribuì in modo determinante alla sua diffusione in tutto il mondo, inserendosi a pieno titolo tra i principali produttori di macchinario per la siderurgia nel panorama internazionale. Da quel momento il lavoro si intensificò molto e le Officine meccaniche di Buttrio crebbero in dimensione e capacità produttiva, permettendo a D. di raggiungere uno degli scopi prefissatisi all’inizio della sua avventura imprenditoriale: «dar lavoro al maggior numero di persone […] e per quanto possibile sviluppare le risorse naturali di laboriosità della gente del posto» (a metà anni Settanta la Danieli contava circa 1500 dipendenti). Completamente dedicato alla sua azienda, D. seppe imprimerle fin dall’inizio un carattere aperto all’innovazione e alla contaminazione di idee provenienti da ogni parte del mondo. Del resto, i suoi numerosissimi viaggi all’estero non avevano il solo fine di infittire e rinsaldare la trama di relazioni commerciali, che fecero della Danieli una realtà con una spiccata vocazione all’export, ma anche di promuovere la cultura dell’aggiornamento continuo: «il mondo cammina e progredisce e dobbiamo anche noi “in quel di Buri” tenerci sempre giovani e ‘vispi’ e tempestivi». Seguendo questa filosofia, nel volgere di poco più di vent’anni la Danieli riuscì a passare dalla produzione di singole «macchine verdi» (questo il loro caratteristico colore) alla progettazione e costruzione di “minimills” “chiavi in mano”, vere e proprie isole di lavoro friulano sparse per il mondo. D. fu insignito dell’onorificenza di cavaliere del lavoro nel 1975, anno dal quale iniziò il graduale passaggio di consegne alla figlia Cecilia, cui lasciò la direzione generale dell’azienda nel 1980. La trasformazione definitiva da impresa familiare (imperniata sulla figura di D.) a impresa manageriale, fu seguita da D. in qualità di amministratore delegato e presidente, cariche che abbandonò solo a metà degli anni Ottanta. Rimase nel consiglio di amministrazione fino al 1991. Colpito da una grave malattia che tra l’altro lo aveva reso quasi non vedente, morì a Udine il 10 agosto 1993.
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