Di Romans di Varmo (Udine), ma nato a Prestrane, in Slovenia, il 28 febbraio 1940, morì a Pordenone il 29 novembre 1994. Colpito da una grave malattia invalidante nel 1964, D. A. fu costretto a interrompere gli studi di giurisprudenza e, negli anni, scoprì la scrittura friulana. Di taglio popolare i primi testi: dialoghi vivaci e pungenti tra Drin e Delaide [Andreino e Adelaide] destinati a radio Scarpantibus di Codroipo, accolti poi dal settimanale diocesano «La Vita Cattolica». Di ben altro impegno e di ben altro impatto le prove successive: un romanzo, Il timp par ledrôs [Il tempo a ritroso], che nel 1981 ottenne il premio Pighin, una raccolta di versi, Cjalant tal flum la lune [Guardando nel fiume la luna], una bibliografia che va integrata con le traduzioni poetiche da Rabindranath Tagore e Tommaso Landolfi. L’amicizia e in qualche modo il patrocinio di Angelo M. Pittana hanno orientato le scelte linguistiche di D. A. che, in Drin e Delaide concede ancora spazio al friulano locale (dittonghi discendenti come «carbineirs», «jeir», «volenteir», «davour», «doul», «four»; sequenze come «li’ baretis», «li’ bestiis», «li’ stalis», dove l’articolo perde la marca sigmatica; plurali come «omis»), per poi abbandonarlo definitivamente, accostandosi con limpidezza al paradigma unitario messo a punto da Pittana. Il romanzo ha impianto tradizionale, con uno svolgimento lineare a dispetto della tecnica affinata del flashback. Un emigrante torna, dopo trent’anni di assenza, per riallacciare le fila di un vecchio amore, ma, alla vigilia della partenza e a conclusione di un soggiorno minato dalla inquietudine, nei fatti irrisolto, in una atmosfera vagamente allucinata, la morte interviene a sciogliere, forse meccanicamente, il nodo dei dubbi. ... leggi Pur se, nell’autoanalisi decisiva del protagonista, lo scopo ultimo del rientro non risulta più l’affetto della donna: «In realtât, lui al veve provât a corij-daûr al timp piardût, ai agns brusâz dibant tal forest: in atris peraulis ’e sô zoventût» [In realtà, lui aveva provato a rincorrere il tempo perduto, gli anni bruciati inutilmente all’estero: in altre parole la sua gioventù]. Il racconto, anche nei tratti in cui si impone la volontà dell’ottimismo, la decisione della speranza, è minato dal brivido della paura, con fitte emergenze lessicali. La memoria, capzioso rifugio della speranza, rivela il suo carattere non dinamico, la sua essenza funerea: «chel des memoriis al jere un tramai sterp» [quello delle memorie era una trappola sterile], e non a caso l’aggettivo «sterp» addensa nel corso delle pagine le sue epifanie: «memoriis sterpis» [memorie sterili], «rabie sterpe» [rabbia sterile], «vite sterpe» [vita sterile], «vois sterpis» [voglie sterili]. Il fenomeno migratorio offre una cornice per una riflessione protratta sui rapporti tra l’io e la realtà che muta, tra la realtà che muta e il mondo fermo dei ricordi, barriera ultima alla minaccia aggressiva della morte, pur se il romanzo si dà come un colloquio sottile con una morte rimossa e respinta, ma alla fine vincente. La vicenda dimostra l’impossibilità di percorrere il «timp par ledrôs», di risalire a ritroso ad un’altra età per recuperare e saldare fili spezzati, ma dimostra anche (e soprattutto) il carattere «ledrôs», intricato e maligno, dell’esistere. Più scoperta e accusata la soggettività, l’autobiografismo, della raccolta poetica, «che scava nel passato per rivivere con amarezza le illusioni fallaci e riportarle al doloroso presente» (Faggin). Non metaforici sono gli ancoraggi del pensiero, il «rumiâ memoriis» [ruminare memorie] e lucida e trasparente è la confessione della sofferenza, la durezza del «sintîsi in crôs» [sentirsi in croce]. Nel titolo, che si direbbe ammiccare alla magia dell’idillio, affiora l’istantanea della diagnosi fredda della malattia, che annienta le speranze, di uno «scûr» [buio] senza varchi. La misura metrica è sciolta da ogni vincolo (di schema e di rima: fatta eccezione per Voe lontane [Voglia lontana], che batte sull’uscita in –ût, la rima è priva di responsabilità formali), procede con un proprio respiro, con proprie armoniche ritmiche e foniche. Ma importa annotare: «speranzis crevadis» [speranze spezzate], «vôi» «vueiz di speranze / e pûr sglonfs di prejere» [occhi… vuoti di speranza / e pure gonfi di preghiera], «Come se no ves di sei la muart / l’unic destin dai vîfs, / come se finî nol fos il sâl dal mont, / l’ultime veretât che ur scjampe ai vîfs» [Come se non dovesse essere la morte / l’unico destino dei vivi, / come se finire non fosse il sale del mondo, / l’ultima verità che scappa ai vivi], ma anche «e par viodi ancjemò / ch’al è dome vivint ogni destin / che si dâj il sens dret / a ogni ombre di vite» [e per vedere ancora / che è solo vivendo ogni destino / che si dà il senso preciso / a ogni ombra di vita]. Una accettazione della morte, sbocco ineludibile e atteso, che non mortifica la vita: «ogni destin», «ogni ombre di vite».
ChiudiBibliografia
Drin e Delaide, «La Vita Cattolica», 10 febbraio, 3, 17 e 31 marzo, 7 aprile, 16 giugno, 7 luglio 1979; Il timp par ledrôs, Jentrade di C. Macor, Udine, Iniziativa Isontina/Union scritôrs furlans, 1982 (seconda edizione, Udine, Ribis, 1985); Cjalant tal flum la lune, Jentrade di Agnul di Spere [A. M. Pittana], Pordenone, GEAP, 1984. Le traduzioni da Tagore e Landolfi in I timps e lis peraulis. Lis plui bielis poesiis des leteraduris forestis. Antologjie poetiche cun viars di 48 autors di 15 lenghis, Locarno, Fogolâr furlan dal Tessin, 1980, 153-155.
DBF, 260-261; A. CICERI, Recensione a Il timp par ledrôs, «Sot la nape», 35/1 (1983), 69-70; R. PELLEGRINI, «Il timp par ledros»: une storie ben implantade, «Gnovis pagjinis furlanis», 4 (1986), 17-20; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 70-71 e 525; R. PELLEGRINI, La scrittura degli (e sugli) emigranti, «M&R», n.s., 17/2 (1998), 44-46; A. M. PITTANA, Mario De Apollonia: un scritôr nobil, «La Bassa», 15/29 (1994), 154-155.
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