Dello scultore veneziano A. De S. non ci sono pervenute opere realizzate nella nostra regione. Poiché il suo nome è stato spesso utilizzato per caratterizzare quella fase della scultura veneziana dal quinto all’ottavo decennio del Trecento, prima dell’avvento dei Dalle Masegne, a suoi collaboratori sono stati assegnati alcuni manufatti lapidei in Friuli e a lui è stata attribuita la direzione di una bottega che aveva sede ad Aquileia ed operava in concorrenza con quella di Filippo De Santi, appartenente forse alla stessa famiglia. La formazione e produzione giovanile dell’artista restano avvolte nell’incertezza. Oltre agli ovvi rimandi a modelli veneziani come l’Arca del beato Odorico, la critica ha individuato le fonti del suo stile nelle opere di Giovanni Pisano a Padova e ipotizzato il suo incontro a Milano con Bonino da Campione. Secondo Decio Gioseffi, la presenza nelle sue opere di stilemi toscani sarebbe spiegabile accettando l’ipotesi che Filippo e A. De S. si siano «formati in Bologna durante il soggiorno bolognese di Giovanni di Balduccio e nell’ambito dell’impresa interminabile – avviata da Nicola Pisano – dell’Arca di S. Domenico». Rimane innanzitutto aperto il problema se sia da identificare con quell’«Andriolus taiapetra Sancte Crucis» citato a Venezia il 3 aprile 1328. A fronte di alcune attribuzioni anteriori, tra cui la Tomba di Duccio degli Alberti, morto nel 1336, ai Frari di Venezia, la prima opera documentata di A. sono i due Portali di san Lorenzo a Vicenza, di cui venne portato a termine solo il maggiore, realizzato sotto la sua direzione di affermato “protomagister”, e quindi presumibilmente non giovanissimo, tra il 1342 ed il 1344. Pur lodando la bellezza dell’opera, fra Pace da Lugo, preposto alla sorveglianza dei lavori, si rammaricava scrivendo ai procuratori di S. Marco in data 1 novembre 1344 che «dictus Andreolus plus stetit Veneciis quam Vicencie nec superfuit operi ut debuit»: la notizia documentaria evidenzia un elemento caratterizzante di tutta la produzione scultorea di A., segnata dall’intervento di numerosi collaboratori, secondo un costume diffuso tra i lapicidi veneziani. ... leggi La successiva attività lo porta a Padova, dove disegna le tombe dei Da Carrara, Ubertino (morto nel 1345) e Iacopo (morto nel 1350), originariamente nel presbiterio di S. Agostino, oggi agli Eremitani; i collaboratori sono menzionati nel contratto firmato a Venezia il 16 febbraio 1351, ma risulta impossibile collegarne i nomi a singole parti dei due monumenti. Probabilmente al medesimo periodo risale l’effigie di Tito Livio sulla cosiddetta “Porta delle Debite” del palazzo della Ragione patavino. Ricordato il 30 marzo 1354 a Venezia come “arbitro”, nel 1364 A. è nuovamente presente a Padova dove si impegna a realizzare una «capelam muratam in ecclesia fratrum heremitarum de Padua muratam cum figuris», dalla quale deriva forse una Madonna che gli è stata attribuita con riserva. Ancora a Padova, nel 1372 firma un contratto, da cui risulta responsabile sia dell’architettura che della decorazione scultorea, per la cappella di S. Giacomo nella basilica del Santo, oggi cappella di S. Felice, affrescata pochi anni dopo dal pittore veronese Altichiero. Un documento datato 25 novembre 1375 lo nomina già defunto. Secondo Gioseffi, ipotesi ripresa dalla Walcher, A. De S. dirigeva ad Aquileia (ricca di marmo dei monumenti antichi da prelevare con facilità anche già squadrato), una bottega che avrebbe prodotto per la nostra regione alcune opere stilisticamente simili: l’Arca delle Quattro Vergini, il Sarcofago dei Canziani e il Sarcofago di Lodovico della Torre, conservati nella basilica di Aquileia, nonché l’Arca del beato Bertrando nel duomo di Udine. La bottega operava in concorrenza con quella di Filippo De Santi, dato che spiegherebbe il confronto espressamente richiesto dal comune di Udine tra le arche delle Quattro Vergini e del beato Odorico, effettuato nel 1331 prima che quest’ultima venisse trasportata nella chiesa udinese di S. Francesco, per individuare quella “nobilior”. Nel cosiddetto Sarcofago dei Canziani cinque nicchie trilobate contengono le figure di sant’Ermagora al centro, affiancato dai santi Canziani (Canzio, Canziano e Canzianilla) e dal loro pedagogo Proto, mentre nei pennacchi si affacciano angeli oranti a mezzobusto; per quanto riguarda la destinazione originaria dell’opera, databile al 1330, gli studiosi hanno ipotizzato che si trattasse di un paliotto d’altare oppure della fronte di un sarcofago destinato ad accogliere le spoglie dei martiri aquileiesi. Le fronti dell’Arca delle Quattro Vergini di Aquileia, retta da colonne con capitelli corinzi, sono suddivise in tre riquadri, di cui quello centrale accoglie un rilievo marmoreo delimitato da colonnine tortili: nella fronte anteriore sant’Ermagora benedice le Quattro Vergini (Eufemia, Dorotea, Tecla ed Erasma), in quella posteriore è raffigurato Cristo giovane tra due devoti inginocchiati; anche questo sarcofago è databile al 1330, nell’ambito di un progetto di rimodernizzazione della basilica aquileiese avviato dal patriarca Pagano. Le due opere presentano caratteri stilisticamente simili, quali il panneggio semplificato delle figure e i volti poco differenziati, dal contorno a “U”; tali consonanze sono rilevabili anche nel Sarcofago di Lodovico della Torre del 1365 al centro del quale, affiancato alle estremità dal consueto motivo dell’Annunciazione (avente come prototipo quella di tradizione veneto-bizantina di Sesto al Reghena), è raffigurato un Cristo benedicente connotato da palesi affinità con il medesimo soggetto che compare sull’architrave del vicentino Portale maggiore di san Lorenzo. Alla bottega aquileiese di A. è stata ricondotta anche l’Arca del beato Bertrando, ora collocata nel battistero del duomo di Udine, realizzata nel quinto decennio del XIV secolo per conservare le reliquie dei santi Ermagora e Fortunato, eponimi del Patriarcato, e destinata dopo l’uccisione del patriarca Bertrando di Saint-Geniès a custodirne dal 1353 le spoglie. Il sarcofago, sui cui lati compaiono Storie dei santi Ermagora e Fortunato, è sorretto da cinque statue di marmo, le cosiddette “sarcofore” nelle quali sembrano essere rappresentati Valentiniano e le Quattro Vergini aquileiesi, che Carlo Someda De Marco assegnava direttamente allo scultore veneziano. A giudizio di Venuti, nell’opera la cultura veneziana si compenetra con gli elementi sintattici del linguaggio plastico lombardo, influenzato da Giovanni di Balduccio, e con gli apporti e le conoscenze dell’ambiente culturale bolognese, spiegabili supponendo che la bottega di A. convogliasse la manodopera di artisti di diversa provenienza geografica. Secondo la Walcher i modi più tipici dello scultore si ritrovano nel misurato pittoricismo di alcune scene, quali la Predica di sant’Ermagora, mentre la connessione con l’Arca del beato Odorico di Filippo De Santi emerge in particolare nella salda volumetria delle sante che reggono il sarcofago e nella ripresa iconografica della figura giacente che sta per essere calata nel sepolcro. Al contrario, Tigler assegna l’arca, esclusa la cornice superiore di mano veneziana, ad un maestro campionese, proveniente da Milano e aggiornato direttamente sugli ultimi sviluppi della scultura lombarda fra Balduccio e Bonino, negando le affinità con l’opera di A. e la stessa esistenza della sua bottega aquileiese. Ad uno stretto collaboratore di A. attivo in Friuli spetterebbe poi l’Arca di Nicolò I conservata nella chiesa di S. Giovanni dei Cavalieri a Prata di Pordenone, cappella gentilizia dei signori del luogo appartenuta all’ordine gerosolimitano. Destinato a Nicolò da Prata e alla moglie Caterina di Castrocucco, il sarcofago pensile è racchiuso superiormente da una fascia decorativa a fogliame e partito da tre rilievi marmorei divisi da specchiature alabastrine: al centro la Vergine, con in mano una rosa e sulle ginocchia un vivace Bambino, a destra san Giovanni Battista e a sinistra san Francesco; l’epigrafe sepolcrale riporta, oltre al nome dei coniugi, una data di morte – 23 agosto 1344 – che l’iscrizione non consente di riferire con certezza a Nicolò o alla sua consorte. Caratterizzato nella partizione e negli elementi decorativi da un’impronta tipicamente lagunare, nel 1970 il sarcofago è stato assegnato da Caterina Furlan ad un collaboratore di A. per la puntuale ripresa di alcuni rilievi del Portale maggiore di san Lorenzo a Vicenza, evidente in particolare nel gruppo della Vergine con il Figlio, in cui colpisce il medesimo divergere degli assi delle due figure, nonché il panneggio delle vesti che ripete identiche cadenze e accorgimenti. Lo stringente confronto con i rilievi vicentini e, nel contempo, le affinità stilistiche con l’arca di Prata (in particolare nella figura della Vergine, comune alle tre opere) hanno fatto attribuire a questo scultore anche la Tomba del beato Jacopo Salomone, ora nel Museo di Forlì, commissionata dai Veneziani nel 1340 e pertanto appartenente al gruppo di opere anteriori a quelle documentate di A., ma esemplificative di alcuni suoi tratti caratteristici; è dunque palese come la Madonna del Portale di san Lorenzo si basi su prototipi anteriori, oggi perduti, da riferire con ogni probabilità allo stesso A.
ChiudiBibliografia
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