Nacque a Fraelacco di Tricesimo (Udine) il 29 marzo 1854 da Giovanni Battista ed Elena Comelli, una famiglia di contadini non benestanti e dalla radicata tradizione cattolica. I versi stessi del poeta fisseranno una sorta di blasone umile, di divisa (e insieme una consegna): «La uàrzine e la pale / ’e son lis armis de la me famee; / si à cure dei nemai che son te stale, / si lavore e si pree, / si trate ben il puâr ed il siôr, / si pae l’esatôr, / si cîr di fà ce che al Signôr i plâs. / E si mange un bocon in sante pâs» [L’aratro e il badile / sono le armi della mia famiglia; / si ha cura degli animali che sono nella stalla, / si lavora e si prega, / si tratta bene il povero e il signore, / si paga l’esattore, / si cerca di fare quello che piace al Signore. / E si mangia un boccone in santa pace]. Ordinato sacerdote il 2 agosto 1888 (da chierico era stato costretto a tre anni di servizio militare a Trapani, quando in Sicilia infieriva il brigantaggio), il suo impegno si svolse su un doppio livello, non in antitesi e anzi all’epoca complementare, tra magistero e ministero. Fu insegnante in varie località del Friuli (Amaro, Vendoglio, Artegna, Lusevera), a volte assorbito da classi particolarmente numerose, ma comunque in grado di conseguire risultati di rilievo: una «attività svolta con energia, entusiasmo, affetto» (Melchior). Anche come sacerdote fu sottoposto a «un nomadismo certo non volontario, non dovuto a una vocazione zingara», a tradire subito «una conflittualità accesa con la gerarchia» (Melchior): cappellano a Vendoglio, dal 1880 al 1886, vicario a Lusevera, fino al 1893, parroco a Castions di Strada, cooperatore nel santuario delle Grazie a Udine, cappellano a Leonacco, Collerumiz, Farla, Cerneglons, tra il 1921 e il 1927, e infine a Bonzicco. Una mappa che stordisce per la sua mobilità, dove anche la curva delle mansioni (da cappellano a vicario, a parroco, poi di nuovo cappellano) sanziona la logica punitiva. ... leggi Una personalità scomoda, un carattere spigoloso, un anticonformismo non malleabile. D. fu anche esorcista. Dopo quindici anni di quiescenza, provato nel corpo, ridotto alla cecità, ma ancora lucido, D. morì a Fraelacco il 6 gennaio 1949. La poesia di D. è singolare per la sua intermittenza: registra uno scambio giovanile (D. è ancora seminarista) con il già noto e affermato Giovan Battista Gallerio, ma affiora più salda in età matura, verso la fine dell’Ottocento, si interrompe, per riproporsi, robusta e inconfondibile, in anni che l’anagrafe definirebbe avanzati, nell’immediato primo dopoguerra (ma Pietro Dell’Oste gli attribuisce una generosa disponibilità al componimento d’occasione e la discontinuità potrebbe essere ingannevole, con lacune da colmare). Tra il 1921 e il 1925, in un arco che vede il fascismo affermarsi con aggressiva efficienza, compaiono sul «Lavoratore friulano», settimanale socialista, le sue Floreanadis, dialoghi sanguigni, non velatamente antifascisti (esplicito un cenno al delitto Matteotti: «Lu àn sassinât chêi tâi e quâi, / che àn puarte viarte al Viminâl…» [Lo hanno assassinato quei tali e quali, / che hanno porta aperta al Viminale…]), una polemica aspra e spesso “ad personam”, Floreanadis che non risparmiano la Chiesa ufficiale, le sue collusioni con il regime, e durissimo D. è nei confronti dell’arcivescovo Antonio Anastasio Rossi. È tuttavia l’insieme a fornire un senso compiuto, che il prelievo circoscritto mortifica, ma non annulla: «’e je vergogne marze / fâ bevi il ueli a di un puar omp par fuarze, / dâ fûc es cjasis, bastonâ i cristians / come ch’a fossin cjans…» [è vergogna marcia / far bere l’olio a un poveruomo per forza, / dare fuoco alle case, bastonare le persone / come fossero cani…], «Bati lis mans a timp, mangjâ e tasê: / ’e je cheste la pulitiche di uê…» [Battere le mani a tempo, mangiare e tacere: / è questa la politica di oggi…]. Ma basterebbe il legame con un foglio socialista a dire l’autonomia gelosa, l’insofferenza nei confronti degli equilibri costituiti, delle ortodossie di comodo, e bene riassume una nota dello «Strolic furlan pal 1948» in calce ad alcuni suoi testi: «Al è un dai pôs ch’e àn usade la satire cuintri i birbanz d’ogni colôr. Lis sôs poesiis ’e ziravin scritis a man pes canonichis e tanc’ lis scrivevin a damenz: vôs libaris in timp di sclavitût» [È uno dei pochi che hanno usato la satira contro i birbanti di ogni colore. Le sue poesie giravano manoscritte per le canoniche e tanti le scrivevano a memoria: voci libere in tempo di schiavitù]. Il titolo si spiega con il teatro ideale dei dialoghi: l’udinese piazza Contarena, gli scambi tra «Venturin» e «Florean» (e gli altri personaggi di pietra a interloquire, lo stesso re Vittorio Emanuele II, con la screziatura del suo piemontese), e il bordone pungente di un «Capelan», alter ego del poeta, che si firma «Siôr barbe» [Signor zio], come nei paesi, con formula di affettuoso rispetto, si indicava il (e ci si rivolgeva al) prete, una formula che l’italiano irrigidisce e ossifica. Il vincolo tra satira e statue di pietra è collaudato: da Pasquino in poi. Ma il paradigma di riferimento è altro: «Zorutti e Giusti, / poeti dei miei gusti», uno Zorutti letto come modello di poesia civile, fustigatore dei costumi, e ancora controcorrente, non allineato, è il richiamo a Giusti, a metà Ottocento il poeta della satira per antonomasia. In accezione irridente e velenosa agiscono i non numerosi inserti italiani (emerge anche una scheggia di veneto udinese), e basti a riprova l’esempio iperbolico di «autoemulesaltazion», un ircocervo (D. però scrive anche in italiano medio, non parodico). D. rivendica una fedeltà profonda alla tradizione ed è di fatto ribelle anche il ricorso al friulano nelle prediche in un frangente in cui la politica linguistica del fascismo e le stesse direttive della Chiesa rimuovono e censurano le parlate locali. Al filone più combattivo ad ogni modo si affianca in D. uno sguardo acuto, ma non amaro, sulla società, sul contesto umano che gli lievita intorno, con una spiccata vena autobiografica. E non di maniera sono gli scorci della realtà contadina: dei suoi giorni agri, della povertà che stringe, ma anche delle pause, degli attimi liberatori. Nella miseria generale, nella comune pena del vivere, si profilano, con asciutto pudore, le difficoltà economiche, la fame non metaforica dei preti di campagna: «’e scuen qualchi femenute / par ch’o cuinzi quatri rîs // e ch’o puedi sostentâmi / di scuindon vignî a puartâmi / une crodie di ardiel, / un muset, qualchi murel // di lujanie…» [qualche donnetta deve / perché condisca quattro risi // e perché mi possa sostentare / venire a portarmi di nascosto / una cotica di lardo, / un musetto, qualche rocchio // di salsiccia…]. Così a Cerneglons, in termini analoghi e anzi più ricchi nella litania alimentare a Bonzicco, dove non ingannerà la figura del catalogo, che per statuto evoca paesi di cuccagna, sogni di abbondanza, dispositivo di privilegio del genere burlesco. Si incide infine l’autoritratto impietoso (e iterato) degli anni estremi, con l’umiliazione di un declino senza riparo: «Otantecinc son su la gobe, / ’o scuen tignîju, nissun m’ài robe. / Soi uarp afât e cjampanâr, / ’o ài bon il nâs e il sgrasalâr. / I dinc’ mi mancjn e plui no pues / muardi la cjâr intôr dal ues» [Ne ho ottantacinque sulla gobba, / devo tenermeli, perché nessuno me li ruba. / Sono completamente cieco e sordo come una campana, / ho buono il naso e la gola. / I denti mi mancano e non posso più / mordere la carne intorno all’osso], per battere con malinconica indulgenza sul motivo del cibo. Con una fisicità che si espone acida e asprigna, non addolcita o smorzata: «’O scuen russâmi schene e culàrie / che mi è vignude ancje l’urtiàrie. / ’O lassi in bande duc’ i acidenz / dai miei segrez apartamenz. / Gobo gobeto quan’- ch’o cjamini / no poi lis scarpis, ma lis strissini…» [Devo grattarmi schiena e culatte / perché mi è venuta anche l’orticaria. / Tralascio tutti gli accidenti / dei miei appartamenti segreti. / Gobbo gobbetto quando cammino / non appoggio le scarpe, ma le trascino…]. Dove la rima baciata non manca di convogliare spunti di una comicità dolente, il grottesco di un corpo che si sfalda, pur se resta ferma l’impressione di una umanità di altri tempi: reattiva e pensosa. Una vita che al suo epilogo, con asciutta dignità, può dettare il suo testamento: «’O lassi ai miei parinc’ la povertât…» [Lascio ai miei parenti la povertà…].
ChiudiBibliografia
G. DRIULINI, Floreanadis di Sior Barbe, con una nota di C. Ermacora, Udine, La Panarie, 1955; R. MELCHIOR, Giuseppe Driulini tra piega satirica e autobiografia, t.l., Università degli studi di Trieste, a.a. 1997-1998, raccoglie un corpus di cinquantadue testi, corredandoli di traduzione, apparato delle varianti, con relativa analisi, e di un commento puntuale, mirato a restituire chiarezza ai fatti di cronaca e ai personaggi, ai quali i versi alludono o che citano.
DBF, 308; V. ZORATTI, Dignano al Tagliamento. Note storiche della pieve e filiali, Udine, Percotto, 1929, 340-344; C. ERMACORA, Vino al sole, Udine, La Panarie, 1930, 73-80; ID., La messa di «sior barbe», «Ce fastu?», 22/3-4 (1944), 208-212; C. GATTI, Giuseppe Driulini, poeta satirico e maestro, «Sot la nape», 3/1 (1951), 16-23; A. VIGEVANI - E. MIRMINA, Giuseppe Driulini: il suo «clima» e il suo Friuli, «Ce fastu?», 29 (1953), 72-79; E. PASCOLO, Ricuart di Driulin, «Int furlane», 1/1 (1963), 3; G. COMELLI, Tricesimani illustri, in Tresésin, 317-319; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 167; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 289; R. MELCHIOR, Giuseppe Driulini, «M&R», n.s., 18/1 (1999), 139-169.
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