Il documento più antico che contiene notizie su E., l’autore del Pastore, è il Canone Muratoriano, redatto alla fine del secolo II, conservato in un manoscritto di origine bobbiese della Biblioteca Ambrosiana del secolo VIII: «Erma scrisse (conscripsit) nella città di Roma il Pastore mentre sulla cattedra episcopale romana sedeva Pio suo fratello». L’arco di anni del regno di Pio (142 al 155) deve intendersi riferito al tempo in cui il Pastore, che è opera composita le cui parti sono state scritte in tempi diversi, fu consegnata al pubblico dei lettori nella sua redazione finale. Il Canone Muratoriano nega che il Pastore possa essere accolto nel canone degli scritti “ispirati”, tra i libri profetici o i libri apostolici, in ragione della sua recenziorità (la formula usata è chiara: «nuperrime, temporibus nostris») e, pur raccomandandone la lettura privata, esprime aperte riserve sull’opportunità che venga letto “pubblicamente” nelle chiese. Un autorevole testimone come Origene (Commento all’Epistola ai Romani, X 31), che conferisce al Pastore l’autorità di libro “ispirato”, non vede invece difficoltà a ricollegare il suo autore con l’età apostolica e identifica senz’altro E., l’autore del Pastore, con l’Erma che Paolo manda a salutare alla fine dell’Epistola ai Romani (XVI 14); ma questa non è notizia attinta dalla tradizione, è congettura. Accanto alle testimonianze esterne, ci sono i dati che si possono ricavare, con molta prudenza, dallo stesso Pastore. E., il protagonista delle prime quattro Visioni, doveva essere nato in una provincia dell’impero; raccolto da un mercante di giovani schiavi, era stato condotto a Roma e venduto a una donna di nome Rode. ... leggi Affrancato dalla schiavitù, esercitò il commercio e l’agricoltura; sposato con una donna che viene presentata come ciarliera e maldicente, ebbe più figli. L’impegno negli affari gli fece trascurare l’educazione dei figli che addirittura durante una persecuzione (si tratta forse della persecuzione ordinata da Traiano) arrivarono al punto di tradire i genitori, denunciandoli alle autorità imperiali. La rovina economica di E., seguita a questi avvenimenti, determinò un cambiamento radicale della sua vita spirituale; divenne un fervente cristiano e si impegnò a svolgere nella comunità una missione penitenziale, illustrando il significato dei messaggi celesti da lui ricevuti. Ma tutto ciò che nel Pastore può riferirsi a reali esperienze vissute dal protagonista è velato, se non nascosto, nella costruzione letteraria che si richiama alla tradizione apocalittica e al genere parenetico. Quanto si legge nel Canone Muratoriano a proposito della “pubblicazione” del Pastore è ripreso nel Catalogo Liberiano (secolo IV) e nel Liber Pontificalis (secolo VI), dove però troviamo significative aggiunte: «Pius, natione Italus, ex patre Rufino, frater Pastoris, de civitate Aquilegia». Su questi dati aggiuntivi si fonda la tradizione dell’origine aquileieise di Pio e di Erma (cfr. Marchetti, Friuli, 45-47). L’editore e commentatore del Liber Pontificalis L. Duchesne ritiene che chi ha compilato la scheda biografica relativa a Pio, poiché conosceva bene Rufino di Aquileia come traduttore di varie opere di Padri greci e in particolare della Historia ecclesiastica di Eusebio, abbia con naturalezza catturato il nome e la patria di Rufino, attribuendo l’uno al padre di Pio (e di E.), l’altra alla loro terra d’origine. L’autore del Liber Pontificalis mostrerebbe, parlando di «frater Pastoris», di confondere al pari di Rufino l’autore del Pastore (E.) con il libro stesso. Sarebbe però assai riduttivo ritenere che solo perché Rufino figura tra le fonti del Liber Pontificalis è stata data a Pio e a E. Aquileia come patria. Ben diversamente, doveva esserci il preciso disegno di collegare una città come Aquileia con la fase più antica della storia della Chiesa, in particolare con la figura di un vescovo autorevole (a cui veniva attribuito, tra gli altri provvedimenti, il decreto in base al quale poteva essere accolto tra i fedeli e battezzato «hereticum venientem ex Iudaeorum herese») e con l’autore di un’opera penitenziale che in molte chiese nei primi secoli, nonostante il Canone Muratoriano, era stata considerata “sacra scrittura” (si può citare al riguardo testimonianze coeve o di poco posteriori al Canone Muratoriano come quella di Ireneo di Lione o di Clemente Alessandrino). Non è casuale neppure il sincronismo per cui la festa del primo vescovo di Aquileia secondo la tradizione, Ermagora, cade il giorno successivo (12 luglio) a quello indicato nel Liber Pontificalis come anniversario di morte di papa Pio. Il Pastore è un’opera sulla cui composizione si è molto discusso; comprende in realtà due parti distinte, nate molto probabilmente in tempi diversi: le Visioni (I-IV), che hanno a protagonista E. il quale riceve da una augusta figura femminile raffigurante la Chiesa successive rivelazioni celesti e racconta alla comunità le sue esperienze visionarie, sono nettamente distinte dal blocco formato dai 12 Precetti e dalle 10 Similitudini (preceduto dalla quinta Visione che fa in realtà da introduzione), in cui diverso è il messaggero celeste, non più l’anziana Signora, ma l’Angelo della penitenza che viene descritto in abito da pastore. In questa seconda parte il nome di E. non viene più fatto. Se la cornice è apocalittica, il carattere specifico dell’opera è penitenziale e la grande diffusione che ha avuto nei primi secoli, nonostante le forti perplessità che poteva suscitare la concezione teologica dell’autore, si spiega proprio con questo appello alla “metànoia” (che significa “conversione”, cambiamento radicale del modo di sentire e di volere) rivolto alla comunità dei fedeli e continuamente ripetuto. La lettera celeste che E. riceve dall’anziana signora che rappresenta la Chiesa e che deve trasmettere alla comunità (seconda Visione) contiene appunto una esortazione alla “metànoia” per la quale si dà ora l’ultima occasione. Nella terza Visione è introdotta l’allegoria della torre in costruzione (simboleggia la Chiesa, intesa in una dimensione escatologica): le pietre squadrate che entrano nella costruzione sono i buoni cristiani, quelle per vari difetti inutilizzabili e messe da parte sono i peccatori che devono essere riaggiustati attraverso la penitenza per poter entrare nella costruzione. La quarta Visione è presentata come una prefigurazione della persecuzione che sta per abbattersi sulla comunità cristiana (un mostro terribile appare ad E.; può essere affrontato vittoriosamente solo da chi ha grande fede). I Precetti costituiscono una “regola” di morale giudaica con integrazioni cristiane: le prescrizioni riguardano i valori preminenti della vita spirituale: fede, amore della verità, pazienza, dominio di sé, lealtà, castità. Le Similitudini (o Parabole) illustrano con sequenze di esempi allegorici aspetti peculiari legati alla vita ispirata ai valori religiosi (nella seconda Similitudine, per esempio, la vite e l’olmo sono proposti come modello per i servi di Dio in quanto indicano la necessità di un reciproco sostegno e aiuto del ricco e del povero: il ricco deve dare generosamente al povero, il povero deve ricordare il ricco nella preghiera, la ricchezza che ha avuto da Dio). Ma la nona Similitudine riprende e ritratta (evidentemente in una situazione storica diversa) l’allegoria della torre. C’è una novità interessante: la costruzione della torre resta sospesa per un certo tempo per consentire anche ad altri cristiani di pentirsi. Questo mostra che l’opera è stata composta in tempi diversi, è cresciuta su se stessa. Un indizio forte della divisione e della separata circolazione, all’origine, della parte “apocalittica” e della parte “prescrittiva” viene da fonti papiracee: PapBodmer XXXVIII (secolo IV/V) conteneva originariamente solo le Visioni (I-IV), PapMichigam 130 (secolo III) conteneva Precetti-Similitudini e ignorava Visioni I-IV. Più di 20 sono i frammenti papiracei di provenienza egiziana che ci hanno restituito porzioni più o meno ampie del Pastore; attestano una larghissima diffusione (in regioni lontane rispetto a Roma) dell’opera poco dopo la sua “pubblicazione” (il papiro più antico si data alla fine del secolo II), ma da nessuno è venuta qualche luce sull’origine prima dell’opera e sull’identità del suo autore. Può essere richiamata qui l’autonoma posizione critica di G. Fontanini (Historiae literariae Aquileiensis libri V, Romae, 1742, I, 63-67) che, pur accreditando la testimonianza del Liber Pontificalis, ritiene che il fratello di Pio non possa essere identificato con l’E., autore del Pastore. La storia della tradizione del Pastore è percorsa da segni contrastanti. Nel secolo IV/V Rufino sembra attestare che nella Chiesa aquileiese il Pastore era letto, Girolamo dice che, tra i Latini, questo libro «paene ignotus est». Girolamo si preoccupa però anche di sottolineare la sua grande diffusione nella Chiesa greca orientale dove, se non propriamente testo canonico, era considerato di grande utilità per la formazione dei fedeli. Le attestazioni in questo senso di Atanasio ed Eusebio sono esplicite. Nella grande edizione della Bibbia greca rappresentata dal codice Sinaitico (metà del secolo IV), ora conservato nella British Library, il Pastore è compreso, insieme con l’Epistola di Barnaba: la sua collocazione alla fine, in una sorte di appendice, dice che si trattava di un’opera discussa, ma di cui si riconosceva il valore come libro di catechesi. A partire dal secolo VI d. C., la situazione si inverte: nella Chiesa greca orientale, per effetto di condanne dogmatiche (nel Decreto Gelasiano viene bollato come «apochryphus»), il libro di E. conosce un declino e non è quasi più trascritto, mentre la sua versione latina più antica (risalente al secolo II/III d. C.; esiste una seconda traduzione latina, di circolazione limitata) conosce una grande “fortuna”, attraversa tutto il medioevo occidentale, influenza l’allegoria visionaria medievale (Alano di Lilla, Ildegarda di Bingen). Mentre il testo latino continuerà ad essere presente, e continuamente trascritto, nei diversi ambienti religiosi, l’unico testimone bizantino superstite è il codice dell’Athos (monastero di S. Gregorio) del secolo XIV. Dopo l’“editio princeps” di Faber Stapulensis (1513), per secoli si continuerà a leggere il Pastore solo nel testo latino. Il recupero del testo greco si avrà alla metà del secolo XIX con le scoperte prima del codice dell’Athos (1856), poi del Sinaitico (1859). Alla ricostruzione del testo originale concorrono, oltre ai numerosi papiri (alcuni significativamente estesi) e alle versioni latine di cui si è già detto, altre versioni in lingue orientali (etiopica, copta, persiana), nonché la copiosa tradizione indiretta (Ps. Atanasio, Antioco Sabaita).
ChiudiBibliografia
Descrizione aggiornata delle fonti manoscritte e dei testimoni indiretti del Pastore nella più recente edizione critica: Hirt des Hermas, eingeleitet, herausgegeben, übertragen und erläutert von M. LEUTZSCH (Schriften des Urchristentums, 3), Darmstadt, 1998, 117-124. In particolare sui papiri si veda K. ALAND (†) - H.U. ROSENBAUM, Griechische christliche Papyri, II/1. Kirchenväter-Papyri, Beschreibungen, Berlin-New York, 1995 (Patristische Texte und Studien, 42), 237-264. Per ulteriori aggiornamenti, A. CARLINI, Gli studi critici sul Pastore dopo la pubblicazione di PBod 38 e la presenza delle Visioni di Erma nei testi poetici del Codex Visionum, in Le Codex des Visions, études publiées par A. HURST et J. RUDHARDT, Genève, Droz, 2002 (Recherches et rencontres, 18), 123-138. Sintesi sulla vita di Erma e sul Pastore nella voce Hermas, Reallexikon für Antike und Christentum, 108/109 (1988), 682-701. Due recenti Commenti informano bene e diffusamente su tutti i temi e le problematiche del Pastore: Der Hirt des Hermas, übersetzt und erklärt von N. BROX, Göttingen, Vandenhoeck, 1991 (Kommentar zu den Apostolischen Vätern, 7); Shepherd of Hermas, A Commentary by C. OSIEK, in Hermeneia. A Critical and Historical Commentary on the Bible, Minneapolis Fortress Press, 1999. Sul Canone Muratoriano, cfr. B.M. METZGER, The Canon of the New Testament. Its Origin, Development, and Significance, Oxford, Clarendon Press, 1987, 194-201; sul Liber Pontificalis, cfr. L. DUCHESNE, Le Liber Pontificalis, texte, introduction et commentaire, Paris, Thorin, 1886, I, 132-133.
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