Poetessa, prosatrice, studiosa di tradizioni popolari, nonché fine osservatrice, ispirata dalla realtà minuta del borgo contadino di origine, F. nacque nel 1899, nell’antica casa di famiglia ad Avilla di Buia (Udine). Rivelò precocemente inclinazioni artistiche (per la musica, la pittura e la scultura) e intraprese l’istruzione magistrale al collegio-convitto di San Pietro al Natisone, grazie a borse di studio. È da lì che fuggì nel 1917, in seguito alla rotta di Caporetto, ricongiungendosi con la famiglia a Rimini, dove conseguì il diploma. Iniziò l’insegnamento a Viserba, quindi, rientrata dalla profuganza, proseguì a Madonna di Buia e alla scuola elementare di Avilla (ora a lei dedicata) fino al 1965. Nel 1919 sposò Prosdocimo Nicoloso, anch’egli di antico casato buiese. Dall’unione sarebbe nata Andreina, che avrebbe seguito le orme della madre divenendo una delle più significative studiose di letteratura e tradizioni friulane. Ad Avilla F. trascorse l’intera vita, esistenza non movimentata dunque, ma che toccò, attraverso le vicende familiari, i drammi della guerra e dell’emigrazione (un fratello fu internato a Mathausen, gli altri tre si dispersero in America Latina). Il tragico terremoto del 1976 la costrinse a riparare gli ultimi anni a Tricesimo, presso la figlia, e cancellò tutto un mondo da lei cantato e rappresentato. Morì a Udine tre anni più tardi, nel 1979. Scrisse versi in friulano fin dalla giovinezza, ma fu nel secondo dopoguerra, nel clima di rinnovamento legato a Pier Paolo Pasolini da una parte, e a Giuseppe Marchetti dall’altra, che esordì come poetessa (poi come narratrice) nel solco del gruppo di “Risultive” (il primo componimento appare sul «Ce fastu?» del 1948; nel 1950, in «Sot la nape», una versione da Rilke). Timp pierdût [Tempo perduto] uscì, quasi inosservato, nel 1949, presso una tipografia locale. ... leggi La presenza su «Sot la nape» e lo «Strolic furlan» divenne assidua e nel 1961 “Risultive” curò l’edizione di Vôs disdevore [Voce feriale], oltre sessanta testi che la collocano in primo piano nella poesia in friulano. La raccolta successiva, Peraulis [Parole], fu pubblicata per «Il Nuovo Caracas» nel 1965 da Mario Dall’Arco, sulle cui riviste F. figurò assiduamente, entrando in contatto anche con altri poeti regionali. Come ricorda la figlia, i versi incastonavano due piani di espressione: uno oggettivo, in piena adesione affettiva con il paese, del cui mondo era portavoce (tanto che «i suoi traslati risultano come l’esaltazione raffinata del semplice-favoloso espressionismo naturale del popolo, fatto di ingenuità, di stupore anche, in un rapporto senza forzature col tono poetico»), e uno intimo, soggettivo, che individua lo scarto dalla «vita istintuale» e rivela la «pena dell’io sempre in agguato» al battere del pensiero (Ciceri). Questo fondo di inquietudine, ma anche la disincantata accettazione dell’esistere, si fa più evidente in Peraulis, appunto, a riempire «il vuoto senza respiro che c’è tra uomo e uomo». La scrittura di F. regala momenti di «adesione incantata» (Ciceri), dove le metafore e analogie paiono attingere, più che a facili ragioni di stile, al suo intimo comporsi («cjampanis dismotis / sui arcs de buinore» [campane ridestate sugli archi dell’alba]; «’E cole nêf estrose: / une sclaride fofe sui cuviarz» [Cade neve estrosa: / una schiarita soffice sui tetti]; «la buinore / ’e bêf tal cûr des margaritis» [il mattino / si disseta nel cuore delle margherite]; «Te rose dal baràz / ’e jere la mê anime di viarte. / Cumò jo mi racuei / dentri de sede tarde / de sanmartine» [Nel fiore del rovo / c’era la mia anima di primavera. / Ora mi raccolgo / dentro la seta tardiva / di un autunnale]). L’immagine lieve delle cose sottace una domanda («Cjamese blancje / sore un fîl a sujâ. / Blancje e il prât vert. / E doi cjapìns di len, / la sàldin al distin. / Une manie si môf / vadì un salût. / […] / Il vint?» [Camicia bianca / su un filo ad asciugare. / Bianca e il prato verde. / E due mollette di legno, / la saldano al destino. / Una manica si muove / forse un saluto. / […] / Il vento?]), che è nel dialogo tra morte e vita, nel tempo scandito da ore («’E je l’ore che i muarz a’ tòrnin, / voi dibessoi e musis scjarnidis / te lûs. / A’ tocjn la vuarzine viere / ch’e polse ta l’arie / par gole di chê fadìe / che ju faseve vîs» [È l’ora in cui i morti tornano, / occhi solitari e visi scavati / nella luce. / Toccano l’aratro vecchio / che riposa nel cortile / per desiderio di quella fatica / che li faceva vivere]), e che sottrae man mano l’emozione adolescente. L’ambito di espressione più complesso è però quello narrativo, un codice ancora fragile che, negli anni in cui scriveva F., andava infittendo e diversificando le sue proposte. Gli inizi furono, ancora in tono minore, sulle riviste della Filologica dal 1954. Anche la narrativa (due sillogi di racconti, Cja’ Dreôr [Casa Dreôr], 1967, e Cja’ Fors [Casa Fors], 1970, e due romanzi, Cjase di Dalban [Casa di Dalban], 1972, e La tiere di Lansing [Terra di Lansing], 1974) è ispirata all’ambiente buiese. F. è «pittrice di un mondo rusticano che le è vicino, ma con il quale non si confonde», e di cui scopre sempre il volto più pieno (D’Aronco). Tra realismo, con prese di distanza e immedesimazioni di sapore verghiano, e sguardo poetico, nutrito di esperienza partecipe, in una prosa vigorosa che può contare su una lingua ricca, affinata e fluida, e su forti caratterizzazioni, si dipanano drammi e vicende delle famiglie patriarcali («Cja’» ha proprio il significato di clan, agglomerato di case, «piccoli mondi gremiti di gente e di storie, disordinati, caotici», Ciceri, 1970, «un insieme che brulica di vitalità fiera, picaresca, accanita», Sgorlon, 1970). La bravura di F. sta nella capacità di piegare una lingua ricca all’incisività narrativa. In Cjase di Dalban, vincitore del primo premio al concorso indetto dalla Filologica nel 1971, l’«ampio affresco» ha al centro una robusta figura di donna, anello portante in una vicenda di più generazioni che articola in una visione pessimistica della storia. Tiere di Lansing, dal luogo tedesco di emigrazione dove parte la fortuna del protagonista (e ha radice il suo senso di colpa), è intessuto «sul gran canone naturalistico della terra», metafora di ogni altro possedere, ma soprattutto segno della volontà di riscatto da un passato di povertà e oggetto di tentativi di pacificazione destinati a fallire («ogni an un cjamp gnûf; ma, apene so, al jere come s’al vès mudât savôr» [ogni anno un campo nuovo; ma, appena suo, era come se avesse mutato sapore]). Nella prefazione Elio Bartolini sottolinea la tenuta letteraria di questa ossessione e, al di là di alcuni scompensi («certo tono gnomico e certa abbondanza didascalica», tempi a volte inerti e consolazioni ovvie), la forza che è nel saper «mantenere essenziale la spietata consequenzialità della sua parabola», portando così all’essenzialità anche la parola (con «colpi di una sicurezza perentoria»). Non trascurabile neppure il contributo di F. alla lessicografia e all’etnologia (sulle riviste della Filologica, in particolare, compaiono i suoi studi su proverbi e locuzioni idiomatiche, ma anche su usi e costumi locali). Giorgio Faggin ha dichiarato il suo debito per la compilazione del Vocabolario, al quale i testi di F., nonché la sua preziosa disponibilità, hanno fornito ben 4.900 “excerpta”. Nei racconti e romanzi, Faggin individua inoltre «un gran numero di sentenze e massime che denotano profondità di pensiero e fine sensibilità». Estrapolati e ordinati per concetto, formano una raccolta di 118 aforismi, che «possono stupire per pregnanza e saggezza» e dai quali risalta «uno speciale talento gnomico, una lucida ‘Weltanschauung’ che riflette in qualche modo, oltre a quella dell’autrice, la mentalità collettiva della gente friulana» (Faggin).
ChiudiBibliografia
Opere di M. Forte: Timp pierdût, Buia, Coop. tipografica, 1949; Vôs disdevore, Udine, Edizioni di Risultive, 1961; Peràulis, Roma, Il Nuovo Caracas, 1965; Cja’ Dreôr, Presentazione di A. Ciceri, Udine, SFF, 1967; Cja’ Fors, Presentazione di A. Ciceri, Udine, SFF, 1970; Cjase di Dalbàn, Udine, SFF, 1972; La tiere di Lansing, Prefazione di E. Bartolini, nota di A. Ciceri, Udine, Tarantola-Tavoschi, 1974.
C. SGORLON, «Cja’ Fors» di Maria Forte, «Sot la nape», 22/3 (1970), 105-107; CHIURLO - CICERI, Antologia, 666-668; Maria Forte Nicoloso, 30.11.1899-10.7.1979, «Sot la nape», 31/2-3 (1979), 129; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 67-68; A. CICERI, Scrittrici friulane contemporanee in lingua friulana, in A. CICERI - M. TORE BARBINA, Scrittrici contemporanee in Friuli, Torre di Mosto, Rebellato, 1984, 213-217; O. BURELLI, Maria Forte e la «Cjase di Dalbàn», «Ce fastu?», 61 (1985), 81-90; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 63; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 301; M. COMINO, Floridure di madais par Maria Forte, «Sot la nape», 52/1 (2000), 101-106; G. FAGGIN, Aforismi di Maria Forte, «Mondo ladino», 27 (2003), 383-397.
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