Qualora realmente avvenuta a Latisana, la nascita del G. potrebbe essere collocata, con una buona approssimazione, tra il 1573 e il 1577, in corrispondenza della lacuna più estesa che si lamenta per i primi registri canonici della pieve abbaziale; le successive fasi della vita rendono verosimile questa ipotesi. Il G. è figlio di Andrea e dal suo matrimonio con una certa Tiberia nacquero almeno quattro figli, soltanto il primo dei quali avrebbe avuto vita brevissima, mentre un’ultima figlia nacque invece dall’unione con la serva. Il G. iniziò ad esercitare la professione notarile nel 1596, ma alcuni anni dopo, in una data non meglio precisata, gli venne affidato l’incarico di cancelliere della giurisdizione di Latisana, ufficio che nel 1601 risultava ancora mantenuto da Giovanni Pasquali. Il 10 settembre 1628, nell’adunanza del «consiglio generale chiamato d’Arringo», fu eletto tra i membri «di dentro la Terra» nel magnifico consiglio dei dieci governatori che amministravano la chiesa di Latisana. Alle sedute partecipò con assiduità fino al 14 febbraio 1630. Altri documenti sembrano disegnare per lui la posizione di piccolo proprietario, come lascia supporre anche un legato steso un anno prima della morte, avvenuta a Latisana il 23 aprile 1633. Una nota, nell’ultimo dei suoi registri, precisa che il figlio Andrea, «doppoi siolto di prigionia», ne eredita la professione il 17 giugno 1642, per consegnarla a sua volta al figlio Marc’Antonio, chiamato con il nome dell’avo. La figura del G., autore di due commedie plurilingui, non è stata studiata che in tempi recentissimi. Alle sue opere, citate nella Drammaturgia dell’Allacci, è riservato soltanto un cenno puntuale di Nicola Mangini. ... leggi Riguardo al primo lavoro, intitolato I travagli d’amore e dedicato a Francesco Lando, è verosimile che l’edizione del 1622 sia la “princeps” (poiché la dedica risale al 29 settembre di quell’anno, e dunque la data del frontespizio, da leggersi “more veneto”, rinvierà ai primi due mesi del 1623); nel 1632, poche settimane prima della morte dell’autore, vide la luce una successiva edizione, svilita, purtroppo, da innumerevoli guasti. Nel 1629, ancora su sollecitazione di alcuni estimatori, fu pubblicata l’altra commedia, o “favola maritima”, con il titolo L’amorosa. Alcuni tratti significativi accomunano le due opere. La trama verte, come di consueto, intorno alla vicenda di un rapporto amoroso impedito: nei Travagli a causa dell’abusato espediente dell’inimicizia fra le famiglie d’origine degli amanti e la conseguente separazione forzata di Florindo da Rosmonda (e la relazione di ripiego del giovane studente); nell’Amorosa in seguito al confino di Edoardo, il quale ha dovuto abbandonare a Candia l’amata Sulpizia. Sullo sfondo cittadino di Padova nel primo caso e quello marittimo di Caorle nel secondo, G. dispone ogni volta una ventina di personaggi, espediente essenziale di un plurilinguismo ormai di maniera, ma tutt’altro che spregevole. La gamma degli idiomi contempla in entrambe le commedie, oltre al veneziano e all’italiano (più cospicuo nei Travagli, ma con sensibili oscillazioni di tono), il bergamasco e la lingua graziana. Se l’inclusione del pedantesco nella prima commedia non desta sorpresa, possono invece stupire altre scelte, meno prevedibili ma funzionali a gusti insoliti: il buranello e il friulano nei Travagli e, naturalmente, il caorlotto nell’Amorosa, dove anche per il veneziano si forniscono ulteriori precisazioni (sui personaggi provenienti «da Castello de Veniesia» o sull’ammiraglio Brocchetta, «per nascimento chiozotto, per allevation da Venesia, e per habitation istriano»). Nella dialettica sull’amore, ma ancor più nei monologhi degli innamorati, vengono messi in opera tutti gli artifici retorici e concettuali della tradizione e in particolare di quella petrarchistica. La polemica antiletteraria, la satira nei confronti dell’istituzione e la caricatura dell’intellettuale si fanno acri nella caratterizzazione del pedante. Suo doppione, nella prima commedia, è il dottor Graziano, uno dei personaggi canonici la cui riformulazione nelle opere di G. è meglio riuscita. Nel linguaggio del dottore il colorito dialettale vagamente bolognese, fondato su poche caratterizzazioni fonologiche e morfologiche, autorizza l’alterazione delle componenti lessicali mediante l’immissione di elementi allogeni e la deformazione fonetica paronomastica; lo scopo, ben s’intende, è burlesco, e il risultato è una vera e propria elocuzione artificiale, tutta leggibile nei termini di una polisemia pesantemente evocativa o di una verbosità cronicamente sconnessa. Così come accade ad altri personaggi, la robusta figura di Graziano viene raddoppiata nei dottori Occo e Arrunzio dell’Amorosa, ma anche il bergamasco Zambon, la cui uscita nei Travagli era fugace e quasi doverosa, ha corrispondenti in Senzabezzi e Missiersì, meglio ambientati nel macchinoso intreccio della seconda commedia. Il servo friulano Malacarne, interlocutore privilegiato di Pantalone nel primo lavoro, e dunque vicino al centro della commedia, guadagna un posto di rilievo che travalica la mera funzionalità. Il carattere pressoché inedito del codice che lo distingue rende ardui i tentativi stringenti di tipizzazione, sebbene i suoi lineamenti richiamino le figure del servo smaliziato e del villano scaltro, incrociando peraltro i vizi accusati dal blasone popolare riguardo al comportamento dei friulani emigrati a Venezia. L’astuzia, l’opportunismo, la voracità, la predilezione per il buon vino, la pusillanimità lo conducono più volte a fuggire le situazioni pericolose, ma Malacarne non può che riuscire piacevole sin dalle prime battute: «Miò pari si clamave barbe Meu di Badoccli sclappechiaviel di Villevuarbe e me hume si domandave l’agne Blasie, cu fo fie dal barbe Iacum Tentimbon di Foram di sot, e iò, a cui cu mi clame, rispuint par Malechiarn» [Mio padre si chiamava ‘barbe’ Bartolomeo di Badoccli spaccacapello di Villaorba, e mia madre si chiamava la ‘agne’ Biagia, che fu figlia del ‘barbe’ Giacomo Tentimbon di Forame di sotto, e io, a chi mi chiama, rispondo per Malacarne] (I, 7). Al di là di questa non ordinaria comparsa, appaiono dunque esigui gli elementi di originalità o, piuttosto, di scarto rispetto alla consuetudine dell’ostinato plurilinguismo teatrale coltivato nella realtà veneta, nella cui orbita gravitava anche Latisana. In ragione di riferimenti letterari e culturali, intenzioni, modalità creative e giustificazioni teoriche, il fenomeno si dipana in una tradizione diuturna e variegata. Quanto si conosce della biografia del G. è sufficiente per escludere la sua attività dai circuiti della commedia dell’arte, mentre la brevità delle scene, l’allusività oscena del comico e la molteplicità delle lingue rendono conveniente il confronto con il genere delle “ridicolose”, sorto dalle relazioni tra i modi della commedia dell’arte e gli statuti di quella erudita, e alimentato anche dalla maniera delle eminenze della commedia veneziana cinquecentesca. Il prologo, che ospita la discussione sulla norma e sulle scelte dei “moderni”, dichiara anche il fine dell’autore: «nella lingua del forlano, nei spropositi del Graziano e nell’accortezza e burle d’un astuto ragazzo prendersi piacere». L’impegno nella realizzazione del plurilinguismo non è più rivolto alla tipizzazione, che ormai discende facilmente da pochi tratti ben riconoscibili, né tantomeno al realismo, che nel dispiegarsi della produzione pluridialettale del Rinascimento veneto aveva lentamente ceduto il passo alla forzatura caricaturale. Trovano risalto, piuttosto, la sollecitazione parodica, la moltiplicazione divertita e sfrenata dei piani di significato, la rappresentazione iperbolica dei personaggi. I destinatari prossimi delle commedie ricevono una fisionomia meno vaga dalla dedica dell’Amorosa: «Alcuni virtuosi giovinetti, miei concittadini, volendo con qualche piacevole e onesto trattenimento passar l’ore noiose dell’increscevole inverno, mi ricercarono i mesi passati a voler comporre una comedia, ma solazzevole, alla moderna». Questi giovani latisanesi, stimolati probabilmente dalla lettura della commedia precedente, sono dunque esigenti, disinibiti, desiderosi «di novitade e di diletto», sensibili al gusto ormai manieristico per il difficile e per la deformazione, preparati ad apprezzare la riflessione teorica, poetica e drammaturgica e forse anche a percepire i rapporti con la tradizione letteraria ufficiale. Emergono così appetiti e competenze che conducono ad ammettere una circolazione e una fruizione plurilingue più diffuse di quanto facessero immaginare i precedenti cinquecenteschi. Proprio a Latisana, infatti, era attivo come oste il portogruarese Simon Vettoruzzo, interlocutore di quel Giovan Battista Donato che si dedicava a esperimenti arditi ed eclettici che accoglievano, oltre a veneziano e friulano, anche il bergamasco, la “lingua francolina” ed eterogenee mescidanze latine.
ChiudiBibliografia
N. MANGINI, La tragedia e la commedia, in Storia della cultura veneta, 4/1, Il Seicento, Vicenza, Neri Pozza, 1983, 317; G. ZANELLO, I travagli d’amore, commedia plurilingue di Marc’Antonio Gattinon, t.d., Università degli studi di Udine, a.a. 2003-2004; V. GALASSO, Marc’Antonio Gattinon commediografo latisanese del primo Seicento, «Sot la nape» (2009, in corso di stampa).
Nessun commento