GIOVANNI DA UDINE DETTO IL RICAMATORE

GIOVANNI DA UDINE DETTO IL RICAMATORE (1487 - 1561)

pittore, architetto

Immagine del soggetto

Ritratto di Giovanni da Udine nell'edizione del 1568 delle Vite di Giorgio Vasari.

Immagine del soggetto

Ritratto di Giovanni da Udine, stucco di un suo collaboratore nelle Logge di Raffaello in Vaticano.

Nato il 27 ottobre 1487, G. si formò alla scuola del pittore e intagliatore ligneo Giovanni Martini, che nel 1502 si impegnò a tenerlo con sé per quattro anni e mezzo e ad insegnargli l’arte della pittura. A prestar fede al Vasari, il giovane si sarebbe poi trasferito a Venezia, dove avrebbe frequentato l’atelier di Giorgione e, in seguito, a Roma dove, a partire dal 1516, è documentato tra i collaboratori di Raffaello. In tale anno egli intervenne infatti nella decorazione della celebre stufetta del cardinale Bibbiena, ubicata al terzo piano dei Palazzi vaticani. Il soffitto e le pareti del piccolo ambiente, destinato ad assolvere la funzione di stanza da bagno, sono interamente ricoperti da motivi decorativi a grottesche, ispirati cioè a quel tipo di figurazioni fantastiche che a partire dalla fine del Quattrocento gli artisti avevano cominciato a riscoprire nelle sale interrate della Domus aurea. Oltre ad eccellere nella decorazione a grottesche, che nel corso del Cinquecento avrebbe incontrato una fortuna vastissima, G. fu particolarmente apprezzato dai contemporanei per la sua abilità nel «contrafare benissimo […] tutte le cose naturali», come ricorda ancora il Vasari, e in particolare fiori, frutti e animali. Questa sua prerogativa traspare con immediata evidenza nei festoni che si dispiegano lungo la volta e le lunette della Loggia di Psiche alla Farnesina (1517), dove egli seppe riprodurre con un mimetismo sorprendente, ma al tempo stesso con una freschezza degna della migliore pittura compendiaria romana, centinaia di specie vegetali, alcune delle quali importate di recente dal nuovo mondo. Inoltre egli ebbe il merito di riscoprire la ricetta dello stucco bianco all’antica (consistente nella mescolanza di calcina di travertino con polvere di marmo), che trovò uno dei principali campi di applicazione nelle cosiddette Logge di Raffaello, ubicate al secondo piano dei Palazzi vaticani (1517-19): qui gli stucchi realizzati da G. si distinguono da quelli spettanti agli altri collaboratori di Raffaello per la delicatezza del modellato e per l’adozione di una tecnica simile allo “stiacciato” donatelliano. ... leggi Dopo la morte di Raffaello, avvenuta il 6 aprile 1520, G. continuò a risiedere a Roma, alternando ai frequenti ritorni in Friuli un breve soggiorno a Firenze, dove nel 1522 attese alla decorazione a stucco di alcune sale di palazzo Medici, appena ristrutturate su progetto di Michelangelo. Tra i lavori più significativi realizzati prima del Sacco (1527) vanno ricordati gli affreschi delle Logge al primo piano dei Palazzi vaticani, consistenti in aerei pergolati, lungo i quali si arrampicano piante, fiori e animali di straordinaria naturalezza, e la decorazione di Villa Madama, la sontuosa dimora suburbana che il cardinale Giulio de’ Medici (il futuro papa Clemente VII) si era fatto costruire sulle pendici di Monte Mario. Da alcune lettere scambiate tra G. e Giulio Romano, incaricati dei lavori, risulta che insorsero ben presto dei contrasti che forse riguardavano non soltanto la ripartizione dei compiti all’interno del cantiere, ma anche e soprattutto la stessa tipologia della decorazione: la quale, se nel suo insieme appare elegante e raffinata, a ben guardare è priva di quel carattere unitario che caratterizza invece le imprese dirette dal Sanzio. In ogni caso all’indomani del Sacco, durante il quale, stando alla testimonianza di Iacopo di Valvasone, avrebbe ucciso con un colpo d’archibugio il gran connestabile di Borbone, l’artista ritornò per qualche tempo a Udine. Il rinnovamento architettonico della città, accelerato dal disastroso terremoto del 1511, aveva preso avvio dal Castello, la cui ristrutturazione era stata affidata a G. Fontana, ingegnere di origine lombarda trapiantato a Venezia. Nel 1526 era stata condotta a termine la costruzione della facciata della chiesa di S. Maria di Castello, ma per mancanza di fondi quella del campanile aveva dovuto essere interrotta poco dopo l’avvio dei lavori. La sottostante piazza Contarena era ancora priva dell’elegante loggiato di Bernardino da Morcote e, in prossimità della vecchia Torre dell’orologio, che dominava il sito, sorgeva la fatiscente chiesa di S. Giovanni. Approfittando della presenza dell’illustre concittadino, i deputati di Udine decisero di procedere alla costruzione di una nuova torre secondo il disegno presentato dall’artista, nell’occasione definito «subtilem et providum architectum». Non si sa come G. avesse risolto il basamento dell’edificio, successivamente inglobato nel loggiato, in ogni caso l’utilizzo del bugnato nel livello intermedio e la presenza di due aggettanti cornici nella parte terminale che ospita la mostra dell’orologio, inquadrata tra due eleganti colonnine scanalate con capitello composito, conferiscono alla torre una solidità strutturale che in qualche modo confermano le competenze architettoniche riconosciute dagli udinesi all’artista. Tuttavia il 3 agosto 1528, mentre si stava completando o forse era stata appena ultimata la costruzione della Torre dell’orologio, G. redasse testamento e fece ritorno a Roma, forse in previsione dell’imminente rientro di Clemente VII, per il quale avrebbe realizzato, tra l’altro, gli stucchi (oggi perduti) della cupola della sacrestia nuova di S. Lorenzo a Firenze, costruita su progetto di Michelangelo e destinata ad accogliere le celeberrime tombe medicee, scolpite dallo stesso artista. L’anno prima della morte del papa, sopraggiunta il 25 settembre 1534, l’artista aveva comunque deciso di tornare in Friuli e finire la sua vita nella città natale, come si legge nella supplica inoltrata al luogotenente di Udine il 24 febbraio 1534, nella quale chiedeva il permesso di allineare la facciata della propria abitazione con quella della casa contigua, appartenente al pittore Giovanni Antonio Cortona, nonché di aprire un portico sul lato prospiciente la roggia. Sorvolando sulla casa in questione, tuttora esistente all’inizio di via Gemona e abbellita da stucchi oggi conservati nel Museo civico di Udine, va ricordato che l’artista, malgrado il proposito di «non toccar più pennelli», fu coinvolto in diversi lavori non solo pittorici ma anche e soprattutto di carattere architettonico, come il disegno del portale e delle finestre della chiesa di S. Maria dei Battuti a Cividale (1535), il modello per la costruzione di una nuova cappella nella basilica di Aquileia (1537), il progetto di ristrutturazione del coro del duomo di Udine (1539), mai realizzato, e ancora quello relativo al campanile del duomo di San Daniele (1558 circa), rimasto incompiuto all’altezza della cella campanaria. Tra questi, gli incarichi di maggior prestigio riguardarono la predisposizione del modello della fontana pubblica in piazza Mercatonuovo (attuale piazza Matteotti) e la costruzione della scalinata sulla facciata settentrionale del Castello di Udine, che gli valse la nomina a proto e architetto pubblico. Per quanto concerne la fontana di piazza Mercatonuovo, messa in opera nel 1542 e collocata originariamente nell’angolo della piazza verso via Canciani (mentre dalla parte verso la chiesa di S. Pietro Martire avrebbe dovuto sorgere una seconda fontana), si tratta di una semplice vasca circolare, poggiante su una triplice gradinata concentrica all’interno della quale trova posto un robusto ma elegante gambo che sostiene un catino leggermente sagomato, ornato con protomi leonine. Non si tratta di un’invenzione particolarmente originale; tuttavia, caratterizzandosi per la semplicità della linea, evidentemente ripresa da qualche modello antico, essa conferma gli orientamenti classicheggianti dell’artista, che nel 1547 fu incaricato di progettare una grande scalinata per accedere dall’esterno al salone del Castello. Com’è stato osservato, la soluzione prescelta, che fonde insieme motivi desunti da Michelangelo (in particolare dalla Biblioteca Laurenziana a Firenze e dal Palazzo senatorio a Roma), non tiene conto della funzionalità: infatti la doppia rampa di scale è troppo ripida e alta e il suo raccordo con la struttura retrostante non avviene in maniera armonica; tuttavia, osservandola dal cortile, essa si inserisce con equilibrio nel contesto della facciata posteriore, conferendo a quest’ultima una dignità pari a quella della facciata principale, rivolta verso la città. Sebbene il bolognese Sebastiano Serlio l’avesse definito «intelligente architetto» e l’apprezzasse per il «buonissimo giudizio», acquisito grazie al discepolato presso il «divino Raffaello», durante la sua permanenza in Friuli G. dette il meglio di sé nella decorazione a stucco e ad affresco. Tralasciando i lavori eseguiti in palazzo Grimani a Venezia tra il 1537 e il 1540, la sua opera più significativa è costituita dal lungo fregio conservato in una sala del Castello di Spilimbergo (ala ex Ciriani). Celebrato a partire dal Vasari, esso rappresenta dei putti che sostengono dei festoni ornati di fiori e di frutti. Come ricorda il di Maniago, «nella parte di mezzo, che ciascun festone cadendo per proprio peso lascia vota, vi sono alternativamente dei medaglioni di stucco in rilievo e delle armature antiche dipinte. I medaglioni sono dello stile più puro e rappresentano quello di mezzo Diana in atto di inseguire le fiere e gli altri due, uno il ritratto in profilo del cavalier Iacopo di Spilimbergo, l’altro della sua consorte Luigia in età avanzata». Dai Diari udinesi degli Amaseo (V.) risulta che nel 1511, anno del famoso «eccidio del giovedì grasso», Giacomo I di Spilimbergo era già sposato con Aloisa Candida; sappiamo ancora che nel 1526, abbracciata la causa imperiale, ottenne dall’arciduca Ferdinando il titolo di nobile austriaco e conte della Meduna. Nel medaglione in stucco di G., Giacomo I è indicato come «eques», qualifica riferibile con ogni probabilità al titolo di cavaliere dello speron d’Oro (ereditario in perpetuo) che l’avo Walterpertoldo IV aveva ottenuto dall’imperatore Carlo IV nel lontano 1335: essa non aiuta dunque a precisare la cronologia dell’intervento, che alcuni studiosi tendono a dilazionare nel tempo ma che, indipendentemente dalla data di assunzione del lavoro da parte di G., si può ragionevolmente collocare tra il 1533, anno in cui l’artista è documentato in Friuli, e il 1542, allorché presta alcuni ducati a «madonna Alovisa, moglie che fu de’ messer Iacomo de li signori consorti di Spilimbergo», come risulta da un’annotazione autografa nel suo Libro dei conti. Se dal punto di vista stilistico il fregio è caratterizzato da quella freschezza tipica delle migliori opere di G., per quanto riguarda l’iconografia esso presenta strette connessioni con i sarcofagi a ghirlande romani, di cui sussistono numerosissimi esemplari, come risulta dai repertori. Da tali manufatti risultano inoltre ripresi non solo i motivi dei festoni e dei putti, ma anche l’idea di alternare ai ritratti dei committenti, come già in palazzo Branconio dell’Aquila a Roma (costruito su progetto di Raffaello e decorato in stucco da G.), mascheroni e cimieri. Per quanto riguarda la figura di Diana, oltre alle affinità di impostazione e modellato con vari stucchi vaticani, va rilevata la somiglianza con un rilievo votivo dedicato a Diana cacciatrice, di cui resta il ricordo attraverso un disegno di Pirro Ligorio che presenta sulla sinistra un alberello, proprio come è rappresentata a Spilimbergo. Accanto a quelle archeologiche, tra le fonti iconografiche degli stucchi di G. sono state riconosciute anche opere di artisti contemporanei, come il Camelio e il Riccio. Sebbene tali rapporti risultino particolarmente evidenti per taluni soggetti profani, i cosiddetti scherzi derivati da bronzetti del Riccio, è probabile che per i medaglioni in stucco raffiguranti i conti di Spilimbergo egli si sia ispirato invece a modelli meno aggressivi di quelli offerti dallo scultore padovano. Un punto di riferimento alternativo potrebbe essere costituito dal vicentino Valerio Belli, la cui presenza operativa nell’Urbe coincide esattamente con quella di G., mentre il suo rientro a Vicenza, avvenuto nel 1530, anticipa appena di qualche anno il definitivo rimpatrio dell’artista udinese. Dopo il suo rientro in Friuli, oltre a imprese decorative di un certo impegno, quali il fregio nel Castello di Spilimbergo e la perduta decorazione a stucco della cappella di S. Maria del Monte presso Cividale (1536-37), G., come già aveva fatto a Roma, si dedicò anche all’esecuzione di numerosi lavori minori, tra cui gli stendardi per il capitolo del duomo di Cividale (1539-42), di cui resta il ricordo in uno schizzo tracciato su una pagina del suo Libro dei conti. Raffiguranti l’Angelo annunciante e la Vergine annunciata gli stendardi in questione, logoratisi nel corso degli anni, nel 1729 furono sostituiti da delle copie. Ancora esistenti alla fine del Settecento, i frammenti originali furono visti da Michele della Torre e Valsassina, che fornì al di Maniago una accurata descrizione. Tuttavia il cattivo stato di conservazione e l’impossibilità di un esame diretto dei frammenti attualmente esposti sotto l’organo del duomo impedisce di accertare se si tratti effettivamente dei gonfaloni di G. o di ciò che resta delle riproduzioni settecentesche. Negli ultimi anni della sua residenza in Friuli, G. (che sarebbe morto a Roma nel 1561) probabilmente attese alla decorazione di una saletta, un tempo adibita ad archivio, nella torre di ponente del castello di Colloredo, successivamente inglobata nel corpo di fabbrica settecentesco. Il centro del soffitto era occupato da una tela raffigurante l’Abdicazione di Carlo V, avvenuta nel 1556. Il dipinto, purtroppo distrutto durante il terremoto del 1976 insieme con circa due terzi degli affreschi, attestava l’orientamento filoimperiale della famiglia Colloredo, un membro della quale, Giambattista di Girolamo, aveva militato in quegli anni proprio nell’esercito di Carlo V, mentre il figlio Pompeo sarebbe morto al servizio di Filippo II di Spagna. Dal punto di vista stilistico l’interessante ciclo, costituito da una commistione di stucchi ed affreschi, dimostra un’attenzione dell’artista per gli esiti della cultura decorativa mediocinquecentesca non solo veneta, ma anche e soprattutto romana: è probabile infatti che, in occasione dei suoi ripetuti viaggi nella capitale, G. abbia avuto l’opportunità di conoscere e meditare su quanto Perin del Vaga, Luzio Romano e altri artisti erano venuti realizzando in Castel Sant’Angelo nel corso degli anni Quaranta del secolo, orientando a sua volta le proprie scelte verso partiture decorative più complesse e articolate, come si può apprezzare per l’appunto negli affreschi superstiti del castello di Colloredo, che illustrano il tema della caduta attraverso una serie di episodi mitologici ispirati alle Metamorfosi di Ovidio e che furono in gran parte realizzati con la collaborazione di aiuti: oltre al figlio Micillo, di cui per altro poco sappiamo, accanto a G. figurava spesso un certo Donato Bagatini, che nel 1561 lo avrebbe raggiunto a Roma per affiancarlo nella decorazione delle Logge al terzo piano dei Palazzi vaticani e che, dopo la sua morte, sarebbe entrato a far parte dell’équipe di pittori e stuccatori incaricati di portare a termine i lavori.

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Bibliografia

N. DACOS - C. FURLAN, Giovanni da Udine 1487-1561, Udine, Casamassima, 1987; G.C. CUSTOZA, Giovanni da Udine. La tecnica della decorazione a stucco alla “romana” nel Friuli del XVI secolo, Pasian di Prato, Campanotto, 1996; M. DI PRAMPERO DE CARVALHO, Perché Giovanni da Udine fu sepolto al Pantheon? Giovanni da Udine con Bramante e Raffaello, Udine, Gaspari, 2003; C. FURLAN, Il Pordenone e Giovanni da Udine: artisti friulani e «universali», in Arte in Friuli. Dal Quattrocento al Settecento, a cura di P. PASTRES, Udine, SFF, 2008, 179-187.

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