Nacque il 19 marzo 1892 a Gorizia, città in cui il padre Augusto, friulano, era titolare di una farmacia. Conseguita la maturità nel 1910 presso lo Staatsgymnasium, si iscrisse alla Facoltà di medicina dell’Università di Vienna. Dopo un soggiorno di studio a Roma e alterne vicende, riuscì a laurearsi in piena guerra, il 2 luglio 1917. Essendo già stato richiamato al servizio militare, prestò la propria opera in qualità di tenente medico presso l’ospedale Donawitz di Feldbach, in Stiria. Dopo il crollo dell’Impero austroungarico e la fine della tragica esperienza bellica, ritornò a Vienna, dove nel 1923 sposò la scrittrice Helma Brock e nell’anno successivo si specializzò in urologia sotto la guida del prof. H. Rubritius della Allgemeine Poliklinik; a tale branca della medicina avrebbe dedicato in seguito un contributo scientifico imponente, non soltanto con la pluridecennale direzione della rivista «Urologia», ma soprattutto con oltre duecento tra monografie, relazioni e articoli tanto specialistici quanto divulgativi, che gli procurarono a livello internazionale la fama di fondatore della moderna scienza urologica in Italia. L’esercizio della professione e il costante servizio alla medicina lo portarono a risiedere in diversi luoghi: da Venezia a Feltre, Conegliano, Treviso, Trieste e Firenze, città nella quale si sarebbe fermato per più di vent’anni come primario dell’ospedale di Camerata. ... leggi Nell’ultima fase del secondo conflitto mondiale sono state le pagine del vocabolario di Iacopo Pirona e quelle poetiche di Ermes di Colloredo a ricondurlo, di volta in volta, al Friuli dell’infanzia, facendo affiorare in lui una sensibilità fino ad allora sopita; quelle stesse pagine costituirono anche una sorta di filtro (e niente più) per le prime due esili raccolte, composte a Conegliano e sciolte da qualsiasi aggancio con la tradizione, «Una urgenza emotiva legata al tempo e allo spazio e, insieme, svincolata dalle angustie dello spazio e dall’ombra del tempo» (Pellegrini): Vot poesiis [Otto poesie] (1944) e Altris poesiis [Altre poesie] (1945) uscirono entrambi dalle Officine grafiche Longo e Zoppelli di Treviso. L’esordio fu dunque tardivo, segnato addirittura dalla ritrosia (sarebbe stato l’amico Gino Scarpa, uno dei fondatori del premio Bagutta, a promuovere la stampa in tiratura minima), e tuttavia condivise la straordinarietà di un altro evento destinato a segnare in profondità il panorama letterario friulano. Anche se d. G. avrebbe conosciuto soltanto più tardi Poesie a Casarsa e l’Academiuta, Pasolini colse la novità delle due “plaquettes” e cercò, senza successo, di coinvolgerne l’autore nel proprio ambizioso programma culturale segnato da una rottura con la tradizione: «il mio friulano (ed il suo) è un linguaggio senza storia, sradicato dalle abitudini, una specie di Lete, al di là del quale troviamo una pace momentanea ma in sé assoluta» (lettera di Pasolini del 7 dicembre 1945). L’accoglienza da parte del pubblico fu una sorpresa, le due edizioncine divennero subito introvabili, ma in d. G. quel modo di fare poesia si dissolse con rapidità singolare, e l’immobilità sembrò caratterizzare le uscite successive: il titolo sarebbe stato Elegie in friulano sia nel 1951 (Edizioni di Treviso, Libreria Canova), sia nel 1968 (Milano, Vanni Scheiwiller in coedizione con la Società filologica friulana), sebbene il contenuto fondesse le due raccoltine originarie integrandole, nel primo caso, con tre frammenti e, nel secondo, con altri due inediti. I passi ulteriori allargarono ad altri canali e a un impegno più deciso, aperto al confronto con l’attualità. Nel 1972, a Vienna, dove si era ritirato due anni prima con la moglie e dove aveva fondato un Fogolâr furlan, d. G. iniziò a pubblicare il «Boletin d’informazions del Fogolâr de l’Austrie» (dal n. 11, del dicembre 1974, «Fra Marc d’Avian»), che sarebbe uscito fino al dicembre 1978, contando complessivamente ventisette numeri: un semplice dattiloscritto volto essenzialmente a mantenere vivi i contatti tra i friulani residenti a Vienna e la loro terra d’origine, ma che in realtà ospitò numerosi interventi connotati sul piano ideologico, schierati sia attraverso una non asettica lettura del passato (con le puntate su La vere storie dal Friûl contade ai zovins da un vieli [La vera storia del Friuli raccontata ai giovani da un anziano]), sia mediante l’uso sistematico e caparbio del friulano, in una varietà né sonziaca né vicina alla koiné codificata da Giuseppe Marchetti, ma adatta alle esigenze di una propria ambiziosa attività culturale. Il 1972 è anche l’anno della pubblicazione di La plòe te pinede [La pioggia nel pineto], a cura di Giorgio Faggin, per le edizioni di «Int furlane»: una sede significativa per le nuove otto liriche, tra le quali compare anche, in traduzione, proprio La pioggia nel pineto di D’Annunzio: un omaggio e insieme una sfida affettuosa nei confronti dell’amico Leone Traverso. La svolta fu dunque marcata anche nella poesia, che non insisteva più sulla lingua interiore e preziosa degli inizi, ma dischiudeva il ventaglio di un vero e proprio codice sociale alle traduzioni, nuovo e fondamentale capitolo dell’attività del poeta. L’attenzione viene rivolta alle voci più vicine al suo io lirico: i tedeschi R. Billinger, H. Hesse, J.W. Goethe («è encomiabile per la perfetta aderenza all’originale […] e per la qualità del linguaggio poetico» la versione dell’Erlkönig, puntualmente commentata da Faggin), G. Matten, J. Weinheber, ma anche (con l’aiuto di Jožko Šavli) il poeta carinziano sloveno G. Januš ed infine A. Gradnik. È una traduzione anche l’ultima fatica letteraria di d. G., Il Ciant dai Cianz [Il cantico dei cantici], il libro biblico del cantico di Salomone: «la più matura opera di F. de G., d’un nitore esemplare», «un lungo canto d’amore, di semplicità gregoriana, in un friulano medioevale che ha profondità intense e sconosciute» (C. Macor). Nel 1977 tutta la produzione poetica venne raccolta nel volume Poesie in friulano, curato da Celso Macor ed edito dalla Cassa di risparmio e dal comune di Gorizia. Rispetto alla scrittura scientifica, la cui analisi richiederebbe competenze specialistiche, l’attività giornalistica di d. G. poggia su un linguaggio, su tematiche e su destinatari molto diversi. Sebbene di fattura non omogenea, fanno gruppo a sé alcuni ritratti delineati con fine sensibilità: quello di Loris Pasquali, pittore di origini toscane stabilitosi in Friuli («Montecatini e le sue terme», 1967), quello di Leone Traverso («Studi urbinati», 1971), quello di Gino Scarpa, amico e collaboratore prezioso nella rivista internazionale per lungo tempo diretta («Urologia», 1973), e infine quello di Pasolini («Corriere del Friuli», 1976), con cui d. G. intrattenne uno scambio epistolare durato sette anni. Una non comune capacità di sintesi e un metodo solido traspaiono da un contributo di taglio storico che recensisce la monumentale opera in tedesco nella quale lo storico Josef Riedmann esamina i rapporti dei conti e signori del Tirolo con l’Italia nel XIII e XIV secolo («Studi Goriziani», 1978). A Gorizia dall’ottobre 1914 al luglio 1915 propone invece una ricostruzione fortemente autobiografica di alcuni tragici momenti della grande guerra. Ricordi bellici compaiono anche nell’articolo Incontro di due superstiti (dedicato allo scrittore F. Teodor Csokor e comparso prima in tedesco sul quotidiano viennese «Die Presse» nel 1974, poi in «Iniziativa Isontina» nel 1975), che racconta alcune esperienze vissute nel grande ospedale per prigionieri di Feldbach. Dal 1971 fu assidua e consapevole la collaborazione con il periodico «Int furlane», a costituire un fronte di impegno ideologico affine a quello che si aprì con il foglio viennese. I toni militanti si fecero accesi nella polemica con Luigi Ciceri: la stizzita replica alle accuse personali si trasformò in un’occasione di critica pubblica verso l’assenza di una politica culturale da parte della Filologica e verso la supremazia di Udine e del Friuli centrale, ma anche in una convinta affermazione dello statuto di lingua del friulano, dell’esistenza di una minoranza etnica, di una visione unitaria del Friuli; sul piano personale, si intuiscono un orgoglio e una immedesimazione nella friulanità profondamente barbicati tanto nel terreno della civiltà contadina quanto in quello della cultura europea: ancora una volta il solco è quello stesso che a inizio Novecento aveva reso Gorizia la culla della friulanità e di una sorta di nazionalismo non antitetico rispetto ai sentimenti italiani. E alla città d’origine d. G. continuò a rimanere legato anche durante la quiescenza viennese, seguendo con preoccupazione affettuosa la sua evoluzione culturale e le sue polemiche: «la sua era una gorizianità di antica forza intellettuale, portata alla conoscenza delle culture e delle lingue dei vicini, aperta a tutte le diversità considerate ricchezza umana e culturale» (Macor). Oltre alla corrispondenza con Pasolini, nella vicenda di d. G. sono fondamentali i rapporti amicali intercorsi con Macor e con Faggin. Quest’ultimo ha non soltanto curato il volumetto del 1972, ma è stato anche il promotore discreto e sollecito dell’estremo ritorno alla poesia, oltre che autorevole e informata voce critica; entrambi sono i destinatari di alcune lettere indispensabili per ricostruire la personalità e la poetica del poeta goriziano, che si spense il 29 maggio 1979 a Vienna e che venne sepolto nello Zentralfriedhof. Il carattere eccezionale, inspiegabile, quasi prodigioso della prima fuggevole stagione poetica è stato sottolineato da d. G. stesso, proprio in una lettera a Faggin; i versi del primo tempo infatti «prescindono da una idea di friulanità piena, integra e genuina, e si incidono incantati e rarefatti, impalpabili arabeschi sonori, e pur esito di un concreto tempo storico, di un incubo che assorda e che spinge alla ricerca di un varco, di una via di fuga, di una compensazione, di una pur provvisoria salvezza» (Pellegrini). In realtà, alla volontà di regressione linguistica che ha segnato quel momento di grazia vissuto a Conegliano va affiancata un’abitudine alla gestazione lenta e sofferta, tesa a vagliare accuratamente le parole che si condensano intorno a poche immagini isolate. Il tono dei versi, amaro, sovente elegiaco, appare ispirato da problematiche e da una sensibilità affini a quelle dell’ermetismo, ma è stato pure segnalato che pessimismo, essenzialità e lucidità logica richiamano il clima spirituale della “finis Austriae”. Peraltro la raffinata modernità di questa poesia è frutto di una passione filologica che va alla ricerca assidua della parola desueta e preziosa, per creare «un linguaggio sradicato dalle abitudini» (così in una lettera a Faggin), un amalgama lessicale che accosta in modo singolare l’arcaismo alla voce viva e affettuosa. Anche le traduzioni, pur consolidando la frattura di cui si è detto, e pur inserendosi in una consuetudine tipicamente goriziana, nascono sotto il segno di una sensibilità nuova, così come inedito e fugace è l’accostamento alla narrativa, tentato con il racconto fantastico ’E timonele [Al carrettino]. La varietà delle firme presenti tra gli stralci di critica raccolti nel volume del 1977, e riproposti nella sua riedizione del 2002, dà la misura dei riconoscimenti ottenuti dalla poesia di d. G. anche nel panorama italiano. Se le intuizioni di Silvio Benco colgono con accortezza le potenzialità maturate dal poeta mediante l’adozione di un idioma regionale, tale scelta non convince l’amico Leone Traverso, scrittore, saggista e traduttore, professore all’Università di Urbino: pur riconoscendo l’«aura musicale» del friulano, egli continua a rimanere perplesso di fronte alle angustie della dimensione eccessivamente popolare di tale codice. Ammirati e partecipi i rilievi critici di Pasolini, che emergono non soltanto dalle lettere, ma anche da un paio di articoli e da Poesia dialettale del Novecento (Parma, 1952): disegnano una sintonia piena, fondata sull’analogia della vicenda esistenziale e sulla novità nell’uso tanto del lessico quanto delle risorse foniche. La poesia di d. G. non ha mancato di stimolare i musicisti: Antonio Veretti ha posto in musica otto elegie, eseguite per la prima volta a Venezia nel 1965 al Festival internazionale di musica contemporanea.
ChiudiBibliografia
La gran parte dell’opera letteraria di F. de Gironcoli si trova raccolta in: Poesie in friulano, Brazzano (Gorizia), Braitan, 2002; F. DE GIRONCOLI, A Gorizia dall’ottobre 1914 al luglio 1915, in Cronache goriziane. 1914-1918, a cura di C. MEDEOT, Gorizia, Arti grafiche Campestrini, 1976; ID., Poesie in friulano, a cura di C. MACOR, Brazzano (Gorizia), Braitan, 2002.
DBF, 269; CHIURLO, Antologia, 640-645, 894; Mezzo secolo di cultura, 91; C. MACOR, Franco de Gironcoli, «Studi Goriziani», 49 (1979), 7-13; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 46-51; G. FAGGIN, L’Erlkönig in friulano, in Ars maieutica. Scritti in onore di Giuseppe Faggin, a cura di F. VOLPI, Vicenza, Neri Pozza, 1985, 61-69; E. SGUBIN, Lingua e letteratura friulane nel Goriziano, in Marian, 590-592; BELARDI - FAGGIN, Poesia, 48-51, 525-526 (la scelta antologica 134-161); C. MACOR - G. FAGGIN - G. ELLERO, In ricordo di Franco de Gironcoli poeta, «Studi Goriziani», 76 (1992), 93-106 [con rinvii bibliografici ed excerpta dalle lettere a Faggin]; E. MAURO, Franco De Gironcoli, t.l., Università degli studi di Trieste, a.a. 1996-1997; ID., Franco De Gironcoli, «M&R», n.s., 18/1 (1998), 67-100; GALLAROTTI, 168-173; FAGGIN, Letteratura, 119, 170-174; R. PELLEGRINI, Una nota su Franco De Gironcoli, in Multas per gentes. Omaggio a Giorgio Faggin, a cura di M. PRANDONI - G. ZANELLO, Padova, Il Poligrafo, 2009, 237-246.
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