GUARNERIO D’ARTEGNA

GUARNERIO D’ARTEGNA (1400 - 1466)

vicario patriarcale, umanista, bibliofilo

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Documento autografo con sigillo di Guarnerio d'Artegna quale vicario in spiritualibus (Udine, Archivio curia arcivescovile).

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Lo stemma di Guarnerio d'Artegna nel fregio inferiore del codice De civitate Dei di Agostino, copiato nel 1450 da Michele Selvatico per Guarnerio (San Daniele, Biblioteca guarneriana, 8, f. 19r).

Figlio di Pietro del fu Guarnerio di ser Doffo o Dotto d’Artegna, nacque a Portogruaro o a Zoppola intorno al 1410: le fonti romane e udinesi lo menzionano infatti fino al 1436 esclusivamente come «Guarnerius de Zopola» o «Guarnerius de Portugruario». Secondo alcuni studiosi settecenteschi, quali de Rubeis, Ongaro, Bini e Liruti, ripresi in seguito da Paschini, il titolo nobiliare «d’Artegna» deriverebbe dal nome del feudo, che la famiglia aveva ricevuto dai patriarchi di Aquileia e di cui era stata privata verso la metà del secolo XIII a causa della sua fedeltà allo schieramento ghibellino. In ogni caso il nonno di G. compare ancora come «d’Artegna» nel 1369 a Pordenone, dove possedeva una casa e faceva parte del consiglio del comune. Il titolo fu ripreso da G. a partire dal 1436. Le prime scarse testimonianze biografiche pongono G., ancora adolescente, in relazione con la famiglia del cardinale Antonio Pancera da Portogruaro o da Zoppola, che nel 1400, quando era ancora vescovo di Concordia, aveva ottenuto la cittadinanza di Udine assieme al padre e ai fratelli Nicolò, Natale e Franceschino e nel 1403 aveva acquistato in feudo il castello di Zoppola. Patriarca di Aquileia in un periodo particolarmente tormentato della storia della Chiesa, dal 1402 al 1411, Antonio era stato nominato in seguito cardinale con il titolo di S. Susanna. Fra il 1417 e il 1418 aveva messo insieme il suo Codice diplomatico, un’imponente raccolta di documenti per testimoniare la sua battaglia a difesa del patriarcato e i suoi interventi nella politica generale della Chiesa, che più tardi sarebbe entrato assieme ad altri codici nella biblioteca di G. (San Daniele del Friuli, Biblioteca Guarneriana, codici 42, 74, 138, 220, 231). Dal 1420 il cardinale «aquileiese» aveva fissato la residenza in Trastevere presso il convento di S. Biagio della Pagnotta, che Martino V gli aveva dato in commenda. ... leggi Qui, nel 1428, si incontra per la prima volta G.: in un documento rogato a Pordenone il 19 febbraio, Franceschino Pancera prendeva infatti un impegno a nome di G. «dimorante con il fratello cardinale», che nel frattempo era divenuto tesoriere del collegio cardinalizio e titolare della sede di Tuscolo. È probabile che G. fosse entrato da poco a far parte della famiglia romana del cardinale: il padre Pietro, anch’egli di Portogruaro e in stretti rapporti con i Pancera, era morto agli inizi del 1427; Natale Pancera, altro fratello del cardinale, insieme con un ser Giovanni de Cecco da Pordenone, aveva assunto le funzioni di tutore del ragazzo che risulta ancora minorenne nel luglio del 1428. G. raggiunse la maggiore età attorno a questi anni, che furono anche gli ultimi di vita del cardinale, morto a Roma il 3 luglio 1431. Martino V era scomparso da pochi mesi e al suo posto era stato eletto il veneziano Gabriele Condulmer con il nome di Eugenio IV. Dopo la morte del cardinale, G. rimase a Roma ancora per qualche anno, passando al servizio di Biagio del Molin, patriarca di Grado e cancelliere reggente della cancelleria apostolica. I Registri Lateranensi ricordano infatti tra la fine del 1431 e il 1432 G. da Portogruaro, chierico della diocesi di Concordia, familiare di Biagio patriarca gradese «cancellariam sacre Romane Ecclesie regentis». Ai fini della carriera ecclesiastica gli anni passati presso la curia pontificia furono fondamentali per le conoscenze e i rapporti che G. ebbe modo di intessere. Conobbe certamente e incontrò Ludovico Trevisan, di una decina d’anni più anziano di lui, che si era laureato in arti e medicina a Padova attorno al 1425 e che il nuovo pontefice volle presso di sé come medico personale e come familiare. Destinato a una carriera folgorante e figura di spicco nella curia papale da Eugenio IV a Paolo II, il Trevisan sarebbe diventato nel 1439 anche patriarca di Aquileia, sede di cui sarebbe rimasto titolare fino alla morte (1465) pur mantenendo la sua residenza presso la curia papale. Le fonti archivistiche e l’analisi delle postille del Plauto Guarneriano (cod. 54), copiato ad Aquileia nel 1436, fanno emergere il particolare rapporto, nato negli anni in cui entrambi stavano al servizio della curia, fra G. e l’udinese Bartolomeo Baldana, che aveva iniziato la carriera al servizio del cardinale Francesco Condulmer nipote del papa. Una postilla al testo di Plauto ripercorre con la memoria terre e castelli del patrimonio di S. Pietro e dello Spoletino che il Baldana aveva visitato da commissario apostolico attorno ai cinquantatre anni. La consuetudine di vita con G. avrebbe trovato una singolare conferma in seguito, nel 1452, con la legittimazione di Pasqua, figlia di G., e di Giovanni figlio di Bartolomeo immediatamente prima del loro matrimonio. Il rientro di G. in Friuli va inserito nel contesto di avvenimenti abbastanza drammatici per la Chiesa, che vide la precipitosa fuga del pontefice da Roma (giugno 1434) e la spaccatura fra il papa e l’assemblea conciliare riunita a Basilea. Dagli inizi del 1434 all’agosto del 1439 uno degli esponenti più in vista del concilio e uno dei più acerrimi nemici di Eugenio IV fu il patriarca di Aquileia Ludovico di Teck, che sostenuto dall’imperatore Sigismondo rivendicava la restituzione del Friuli occupato dai Veneziani. In una situazione delicatissima e dagli esiti tutt’altro che scontati, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista religioso, si può pensare che la partecipazione diretta alla vita del capitolo aquileiese di un uomo di provata fede curiale, come G., fosse ritenuta indispensabile per far spostare gli equilibri dal partito filoimperiale al partito filopapale e veneziano. Pur essendo stato nominato canonico di Aquileia fin dal 1430, G. è registrato presente alle sedute del capitolo solo dalla fine del 1434. Le attese della curia nei suoi confronti e il ruolo da lui svolto all’interno dei capitoli friulani (nel frattempo era stato nominato anche canonico di Udine) trovano conferme significative. Non più tardi del 1436 ricevette la nomina di “litterarum apostolicarum abbreviator”; nel 1438 il visitatore apostolico del capitolo di Udine, Tommaso Tommasini vescovo di Recanati e Macerata, nel riconoscergli competenza e autorevolezza, gli attribuì diritto di voto in tutte le delibere capitolari, nonostante avesse ricevuto solo gli ordini minori: «satis practicus est, doctus et expertus in factis ipsius capituli et in temporalibus providus et circumspectus; quamvis in sacris non existat, nichilominus possit, valeat et debeat admitti pre reliquos canonicos existentes in sacris ad omnes actus et tractatus capitulares dumtaxat temporales et predictis omnibus vocem habeat ac in sacris existeret»; nel 1439 (dicembre 14), durante il concilio di Firenze, Eugenio IV gli concesse il privilegio di esenzione dal giudice ordinario «tamquam cortisianus et Romane curie sequens». Una lettera di Poggio Bracciolini del 2 maggio 1438 attesta la presenza di G. a Ferrara durante le sedute conciliari, come pure il privilegio papale del dicembre 1439 suggerisce in modo abbastanza convincente la sua presenza a Firenze, dove il concilio si era trasferito. A meno di un mese di distanza, l’11 gennaio 1440, Ludovico Trevisan riceveva la nomina a patriarca di Aquileia al posto del defunto Ludovico di Teck stroncato dalla peste a Basilea. Due lettere di Giovanni da Spilimbergo, indirizzate rispettivamente a Tommaso della Torre e a Giacomo da Udine il 4 febbraio, collocano in questo periodo, nel cuore dell’inverno 1439-40, un viaggio di G. al di là delle Alpi, senza specificarne le ragioni. G. ebbe certamente un ruolo diretto nelle trattative tra il patriarca e la Repubblica Veneta, che portarono nel giugno 1445 all’accordo che definiva una volta per tutte le questioni rimaste aperte dopo la conquista veneziana del 1420: il patriarca riconosceva alla Signoria il possesso della Patria e la Signoria accettava la giurisdizione ecclesiastica del patriarca, lasciandogli anche la giurisdizione feudale sulla città di Aquileia e sui castelli di San Vito e di San Daniele. Le fonti ricordano almeno due viaggi fatti da G. a Venezia in occasione delle trattative: il primo nel febbraio 1444, assieme al collega canonico Cristoforo Susanna, per incontrare il Trevisan; il secondo nel 1445 assieme al canonico Giovanni da Zucco. Fu dopo questi accordi (ottobre 1445) che G., il quale aveva ricevuto gli ordini maggiori già nel 1443, divenne pievano di San Daniele. Con la nomina a vicario generale del patriarca avvenuta verso la fine del 1445, G., pur non arrivando mai ad ottenere la dignità vescovile (forse per certi suoi trascorsi di gioventù che la curia non poteva ignorare), raggiunse l’apice della carriera ecclesiastica. La carica gli dava competenze amministrative e giudiziarie particolarmente ampie, vista l’assenza del patriarca dalla sede. Il Trevisan infatti visitò la diocesi di Aquileia una sola volta, nell’estate 1451, mentre il papa si era trasferito provvisoriamente a Fabriano a causa della peste. La visita fu allora preceduta da un incontro ufficiale con il suo vicario G., avvenuto a Padova. Dal punto di vista giuridico-pastorale l’azione del vicario fu orientata soprattutto al ripristino della disciplina ecclesiastica con l’imposizione della residenza e con provvedimenti punitivi nei confronti del clero concubinario, proseguendo con ciò i tentativi di riforma avviati nella diocesi di Aquileia alla fine del decennio precedente dai legati papali, il vescovo Tommaso Tommasini e l’abate di S. Giustina Ludovico Barbo. L’incarico di vicario generale si protrasse fino ai primi mesi del 1454. Una delibera del comune di Udine del 26 luglio dello stesso anno suggerisce infatti che in tale data, a seguito della rinuncia o della sostituzione di G., si fosse già provveduto alla nomina di un nuovo vicario. Di fatto i documenti di data posteriore menzionano G. esclusivamente come pievano di San Daniele, oltre che canonico di Udine. Al trasferimento di residenza da Udine in contrada dei Battuti (dove si trovava una «domus solite residentie» del vicario) a San Daniele del Friuli sembra riferirsi il primo inventario autografo dei suoi libri compilato il 25 agosto 1456. G. trascorse l’ultimo decennio della sua vita, che non si segnala per avvenimenti particolari, nella quiete della pieve di San Daniele senza mai interrompere i rapporti con Udine, divenuta la capitale della Patria e la sede del luogotenente veneto, dove egli conservava tra l’altro un beneficio canonicale presso la chiesa di S. Maria Maggiore. Il 7 ottobre 1466, nel dettare il suo testamento, G. legava alla pieve di San Daniele «tutti li suoi libri che si ritrovava havere con obligo alla chiesa di far fabricare in loco honesto et condecente una libraria et in quella tutti l’istessi libri ponere, con sue catene ligati, et ivi conservarli per uso dell’istessa chiesa et che non siano mai levati di detta libraria per accomodar altri. Et se alcuno volesse sopra detti libri legere o studiare et al Consilio et Comunità piacesse, possa sopra detti libri e nell’istessa libraria e non altrove legere et studiare con licenza del consiglio et comunità di San Daniele». La comunità di San Daniele da parte sua, avrebbe dovuto indennizzare con 400 ducati i due nipoti di G., Samaritana e Cipriano, che la figlia Pasqua aveva avuto rispettivamente da Giovanni Baldana e da Niccolò da Spilimbergo, primo e secondo marito. La morte colse G., all’età di circa cinquantasei anni, il 10 ottobre 1466 nella sua casa di San Daniele del Friuli. Come scriveva in modo efficace Claudio Griggio, «invenzione e merito di questo uomo di chiesa, di non eccezionale ingegno» fu la realizzazione della «straordinaria biblioteca di carattere unitariamente umanistico», che si conserva pressoché integra nel luogo in cui egli la volle lasciare. Pur non essendo una grande biblioteca quanto al numero dei volumi (l’inventario del 1461 elencava 165 unità), essa si presenta come un fondo particolarmente coerente nella scelta degli autori antichi (i greci vi compaiono solo in traduzione latina) e contemporanei (mancano completamente gli autori in volgare) e può essere considerata a giusto titolo il punto di riferimento della moderna cultura umanistica in Friuli. Nel presentare una visione d’insieme della cultura rispecchiata in questa biblioteca, Laura Casarsa riconosce che essa «ha svelato molti dei suoi arcani. Manoscritti e copisti, testi e scritture, tecniche di confezione e decorazione ricompongono, oggi, concretamente l’organico disegno culturale ideato e attuato nell’arco di una raccolta trentennale». Partendo da una serie di elementi, fra cui l’identificazione di gran parte dei copisti, la datazione puntuale di molti manoscritti, il raffronto tra i due inventari compilati rispettivamente nel 1456 e nel 1461, l’analisi delle filigrane e, non ultime, le fonti d’archivio, è stato possibile ricostruire le fasi di formazione dell’intera biblioteca che vanno dagli anni aquileiesi all’ultimo decennio trascorso nel «ritiro» di San Daniele del Friuli. È ragionevole pensare che il soggiorno romano di G. tra il 1428 e il 1434 abbia inciso solo indirettamente sulla sua formazione culturale e sulla storia della sua biblioteca. Un rapporto con Poggio Bracciolini in quegli anni è difficile da ipotizzare: troppo giovane G. e abbastanza irrilevante il suo ruolo all’interno della curia per pensare a una sua frequentazione con il segretario papale. Sarebbe tuttavia difficile negare l’influsso esercitato da un ambiente come quello curiale, divenuto uno dei centri di elaborazione della nuova cultura. Alla chiesa di S. Biagio, negli anni in cui G. risiedeva, il cardinale Giordano Orsini aveva destinato la sua raccolta libraria, considerata dagli studiosi una fra le biblioteche più interessanti del primo Quattrocento. Di tenore più modesto sembrerebbe invece il fondo librario del cardinale Antonio Pancera, di cui G. era stato familiare. I pochi libri del Pancera – entrati nella biblioteca di Guarnerio attraverso gli eredi del cardinale – riguardano soprattutto il diritto canonico. Due soli volumi della raccolta, gli attuali Guarneriani 138 e 220, aprono uno squarcio sulle letture profane del committente: si tratta dei Notabilia Francisci Petrarche Rerum familiarium, contraddistinti dallo stemma del cardinale. Raccolta libraria non trascurabile è anche quella del vescovo Biagio dal Molin, presso il quale G. aveva trascorso una breve parentesi della sua giovinezza prima di abbandonare Roma. Più significativi sembrerebbero i contatti con la curia in occasione delle sedute conciliari di Ferrara e di Firenze fra il 1438 e il 1439; né si può dimenticare che negli stessi anni in cui G. vedeva realizzarsi il progetto della sua biblioteca, a Udine gli emissari di Giovanni Tortelli, bibliotecario di Niccolò V (1447-55), trattavano con il convento di S. Francesco per acquistare i codici greci lasciati da Ludovico di Strassoldo. Il progetto di realizzare una biblioteca di ampio respiro prese corpo quasi certamente subito dopo il rientro di G. in Friuli. In una prima fase, a partire dall’inverno 1435-36, G. compare come copista di interi manoscritti. Le Commedie di Plauto, l’attuale Guarneriano 54, furono da lui ultimate ad Aquileia il 10 gennaio 1436; il De officiis di Cicerone il 2 febbraio 1441 (Guarneriano 69: «Guarnerius scripsit raptissime»); le De clamationes maiores dello Pseudo Quintiliano il 12 dicembre successivo (Guarneriano 79: «Guarnerius scripsit. Laus Deo. Amen»); le Periochae omnium librorum di Tito Livio il 29 giugno 1442 (Guarneriano 71: «Guarnerius scripsit. Amen. Raptim»). La scrittura di G. è una corsiva all’antica, che rivela una formazione grafica comune ad altri scriventi del suo ambiente, quali i colleghi Giacomo da Udine o Cristoforo Susanna, e un rapporto molto stretto con la scuola di Guarino. Essa rispondeva in quel momento all’intenzione più volte dichiarata di una trascrizione veloce (“raptim” o “raptissime”) di testi ricevuti in prestito, piuttosto che alla confezione di copie di lusso. In seguito, quando la carica di vicario gli mise a disposizione consistenti mezzi finanziari e un discreto apparato di cancelleria, G. poté avvalersi sia dei suoi collaboratori d’ufficio, sia di copisti, miniatori e legatori di professione. Fra i copisti che collaborarono con G. in un arco di tempo trentennale, sono riconoscibili di volta in volta il canonico Nicolò da San Vito al Tagliamento, che si sottoscrive in cinque codici dal 1439 al 1451; notai e cancellieri come i fratelli Leonardo e Iacopo di Gabriele Pittiani, Nicolò di Giovanni Pittiani, Federico Marquardi, Odorico e Lorenzo Pilosio; un professionista quale Battista da Cingoli che aveva aperto bottega in Friuli e che lavorò anche per i luogotenenti veneti (il Vindobonense 39 è un Virgilio commissionato da Gerolamo Barbarigo); giovani studenti della scuola di notariato di Udine, quali Niccolò de Collibus, Marco di Giovanni da Spilimbergo; Giovanni Belgrado, che usano una “littera antiqua” di livello non inferiore a quella del da Cingoli; un chierico come Niccolino da Zuglio, che entrò a far parte della «famiglia» di Guarnerio nell’ultimo decennio. Alle varie fasi della formazione della biblioteca corrisponde anche una diversa tipologia dell’ornato (quasi assente nell’ultimo decennio), che è stata efficacemente illustrata da Giordana Mariani Canova. I manoscritti del periodo aquileiese sono ancora decorati «alla moderna», con un tipo di ornato fogliaceo tardo-gotico legato ai tradizionali moduli veneto-bolognesi in uso sia a Venezia sia in Terraferma nel secondo quarto del Quattrocento. A partire dal 1450 o poco prima (punto di riferimento è il Guarneriano 8, che si apre nel primo foglio con una splendida cornice con decorazione floreale e a nastro intrecciato dove si inserisce lo stemma del committente) inizia la realizzazione di una serie di codici decorati «all’antica» nei due tipi fondamentali dei bianchi girari e del nastro intrecciato. È quest’ultimo in particolare che, a giudizio della Mariani Canova, rappresenta «una splendida originalissima invenzione, da ritenersi nata proprio nella ristretta cerchia degli umanisti veneto-padovani, intorno a Francesco Barbaro e a Guarnerio». Non vi è dubbio che l’incontro con il Barbaro durante la luogotenenza di quest’ultimo in Friuli tra il luglio 1448 e il giugno 1449 abbia dato a G. nuove importanti occasioni di scambio di testi e di contatti con miniatori e legatori che operavano nell’ambiente veneziano. La presenza in Udine di Francesco Barbaro non fu senza influenze anche per le scelte letterarie di G. «In qualsiasi modo si voglia leggere il rapporto tra Barbaro e G.», scrive Laura Casarsa, «non può essere del tutto casuale che proprio dal 1448 in poi la biblioteca abbia assunto una diversa fisionomia». Dal punto di vista dei contenuti culturali la biblioteca di G. si colloca nel contesto straordinariamente fecondo dell’umanesimo veneto che, per quanto riguarda il Friuli, ebbe in modo particolare nella scuola di Udine (accanto a quella di Cividale) il principale punto di riferimento e di diffusione. A tale proposito un ruolo fondamentale fu quello svolto da Giovanni da Spilimbergo, al quale è probabile che G. debba parte della sua formazione umanistica (i testi scolastici del maestro Spilimberghese, di una trentina d’anni più anziano di G., sono in gran parte conservati nel fondo Guarneriano); in ogni caso è ampiamente documentato che fu Giovanni l’interlocutore diretto di Guarino Guarini e di Poggio Bracciolini e che gli antigrafi inviati dai due umanisti arrivarono a G. per questa strada. La scuola di Udine rimase un punto di riferimento essenziale per G. anche dopo la morte dello Spilimberghese, al quale fu chiamato a succedere, all’età di venticinque anni circa, Francesco Diana da Cordovado. Il Diana era stato discepolo di Lorenzo Valla, con il quale mantenne stretti rapporti anche in seguito. Per questa via anche G. potè accedere agli autografi del l’umanista, come si evince tra l’altro da una nota a margine del Guarneriano 111, un codice composito che conserva l’Apologo del Valla contro Poggio: «Nota qui transcripseris quod hic non est finis, qui alibi querendus est, si cupis integram disceptationem. Franciscus Dyana habet Antidotum Laurentii e Valle contra quendam Bartolomeum Facium et Antonium Panor mi tam manu ipsius Laurentii emendatissimum» (f. 27r). Fu lo stesso Diana, per esplicita ammissione del destinatario, a procurare a G. il testo delle Filippiche di Cicerone (Guarneriano 61) e una serie di antigrafi di opere valliane copiate nei Guarneriani 16, 24, 111. Numerose altre testimonianze sui rapporti di G. con i maestri delle scuole del territorio (si pensi ad esempio a Odorico e Lorenzo Pilosio, Francesco da Fanna, Niccolò di Iacopo da Spilimbergo) confermano che la biblioteca di G. non è un episodio isolato, ma si inserisce profondamente nel tessuto della cultura locale, che si presenta straordinariamente sensibile e aperta agli stimoli provenienti soprattutto da Venezia e Firenze. Questo contesto e questo ambiente, accanto alle vicende pubbliche e private del fondatore, spiegano la nascita di una collezione che rimane, a giudizio di un grande paleografo come Emanuele Casamassima, «una delle più coerenti dell’umanesimo italiano».

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Bibliografia

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