Nacque l’8 aprile 1691 a Villa di Mezzo di Paularo nella valle d’Incaroio, da una famiglia di “basse fortune”. I genitori Pietro e Maria Del Negro, gli fecero impartire un’elementare istruzione prima di mandarlo a Villaco per apprendere la lingua tedesca e impratichirsi nella tessitura in una delle botteghe che producevano manufatti che si esportavano soprattutto in Germania; in seguito si fece assumere come garzone a Tolmezzo presso la ditta di Giovanni Prabotti e verso il 1712 figurava come agente venditore di Cillenia Zanis Roia. Nel 1717 si metteva in proprio trasformando la casa paterna dell’abate di Moggio in un piccolo opificio per la pettinatura del lino da destinare alle ditte che realizzavano il prodotto finito. Una produzione che fu d’esempio perché controllava non solo l’attività dei semilavorati ma lo stesso prodotto finito. Apriva così due altre manifatture a Gleria di Moggio e a Caneva di Tolmezzo ricche di energia idrica con cui far azionare le macchine; tra il 1722 e il 1725 faceva lavorare 150 telai con 200 tessitori e 2500 filatrici con una produzione di 3000 pezze di tela. Se dal 1724 il L. adoperava in larga misura i lini tedeschi, dall’anno successivo iniziò a servirsi della piazza di Venezia ricca di lini importati dall’Egitto. In quell’anno il governatore di Moggio riferiva ai V Savi alla mercanzia che il laboratorio di «renzeti rigadi all’uso di Germania» produceva 3000 pezze, così il gastaldo e i giudici di Tolmezzo certificavano che L. impiegava colà centocinquanta famiglie che prima «erano costrette di viaggiare con sommo disagio ad esteri paesi per trovare lavoro, ora godono in propria casa con doppio avvantaggio l’emolumento dell’arte». Nel 1726, contestualmente ai risultati raggiunti e al coinvolgimento del porto veneziano, sia nell’incetta di materie prime, sia nel collocamento delle pezze finite che raggiungevano Napoli, Cadice, Costantinopoli, Genova, otteneva dai Savi un doppio ordine di privilegi: l’esenzione sui dazi delle materie prime e limitatissime tassazioni in uscita delle pezze, oltre al favore, rilevatosi di grande importanza, di servirsi del foro veneziano per ogni controversia; lo ius privativo impediva inoltre a chiunque di intraprendere un’attività parallela nel giro di sei miglia con l’esclusione di Tolmezzo e Moggio. ... leggi Queste certezze gli avrebbero consentito di ristrutturare e ampliare gli impianti e di costruirsi una grandiosa abitazione a Tolmezzo (eretta tra il 1739 e il 1746) con gli annessi opifici e tuttora in buona parte esistente. La costruzione dalla facciata lineare, ariosa quella che dà sul cortile, è affiancata da due lunghi corpi di fabbrica cui si aggiungevano tutti i locali per lo stoccaggio e le lavorazioni; la cappella, eretta proprio l’anno della morte di Jacopo (1747) come gli altri edifici è opera probabilmente di Domenico Schiavi, mentre le fastose decorazioni dell’interno sono successive, anche se in linea con la personalità del committente. Scrive il Cassetti che i visitatori rimanevano colpiti per «quella gigantesca struttura, quei savissimi ed eleganti scompartimenti e l’ampiezza dei fondachi, e le vaste officine, e la molteplicità delle macchine, e i servizievoli giochi dell’acque». Uno straordinario “fuori scala” nel contesto tolmezzino non solo dell’epoca. Il concreto appoggio e apprezzamento della Serenissima faceva si che nel 1726 lo stesso L. inviasse una significativa lettera ai V Savi: «mi giubila l’animo nel sentirmi benedetto da oltre 3000 famiglie per tutta la Carnia e lungo il Friuli […] e mi fa rammentare con tenerezza che nel breve giro di soli sette mesi, dal novembre passato fino allo scorso giugno, delle 3000 pezze che erami assunto di fabbricare in un anno, e le quali ascesero in questo frattempo alle 3100, 2492 sono state già felicemente disperse in questi serenissimi stati, in più parti delle Romagne, nelle stesse austriache province, e nel crescente Trieste». Un’operatività che si avvaleva di una gestione totalizzante giungendo a completare il circuito economico con una sua moneta spendibile nelle botteghe a lui afferenti e con la quale venivano parzialmente pagati i lavoranti. Una vera e propria connessione fra tradizione locale, che già nel Cinquecento vedeva la Carnia patria di tessitori, con trasferimenti in loco di culture tecniche dall’estero e la nuova opportunità commerciale di ampio respiro che organizzava quella nebulosa realtà artigiana. La nuova sede sarebbe diventata il raccordo centrale con le altre ubicate in luoghi abbondanti d’energia idrica e di una manodopera numerosa parzialmente impiegata in un’agricoltura di magre risorse e senza i rigidi ordinamenti corporativi delle città. Un trend sempre più positivo avvalorato dalla stessa testimonianza del contemporaneo Antonio Zanon nelle sue famose lettere: «[…] non vi fu mai né nel Friuli, né nella Carnia un’impresa meglio formata, o condotta con maggiore coraggio, fermezza ed abilità di quella del signor Iacopo Linussio, il quale in pochi anni stabilì la più grande manifattura in tele che sia in Europa, tanto in riguardo all’ampiezza e magnificenza delle fabbriche, quanto alla qualità del prodotto: uscendo ciascun anno da essa circa quarantamila pezze di tele di vari e vaghi lavori, ricercate da tutta l’Italia e dalla Spagna». Forse tramite lo Zanon, Nicolò Tron, uno dei maggiori responsabili dell’economia e della finanza veneziane del Settecento, conobbe anche personalmente il L. Quando il Tron, nel 1739-40, fu provveditore di Palmanova, sollecitò energicamente il taglio del canale di Muscoli onde collegare la Carnia e la sua fiorente produzione al mare. Una politica economica e programmatica di grande respiro che vedeva nel L. una delle figure “nuove” per la stessa Repubblica. L’apparato produttivo controllato dalla casa madre di Tolmezzo si avvaleva di ben cinquanta centri di smistamento per la filatura a domicilio, da dove il filato passava a Moggio dove si attuavano le operazioni di purgatura, biancheggiatura e tintura, oltre alle prime lavorazioni del filato greggio. Per ovviare alla carenza di lino l’imprenditore acquistò un altro complesso, la Ca’ Bianca a San Vito al Tagliamento con seicento campi dove coltivarlo. A Tolmezzo si procedeva alla tessitura e alle produzioni più complesse confortate dal perfezionamento dei telai a domicilio e da una nuova meccanizzazione; a Moggio fu inventata una macchina per mezzo della quale una sola donna «potea badare a due e a quattro fili di lino» ottenendo un prodotto qualitativamente fine e consistente. Impiegava altresì famiglie fatte venire da Breslavia e da Costanza per la tessitura del lino, anticipatrici di quelle svizzere e austriache per le tele indiane cui si aggiunsero degli speciali agenti che dalle ditte estere inviavano a Tolmezzo nuove tecniche e produzioni (un vero e proprio spionaggio industriale). L’esportazione dei prodotti aveva raggiunto, come dice il Luzzato, una tale importanza «che una voce delle statistiche doganali di Venezia era intitolata appunto alle ‘Tele del Linussi’», queste imitavano si la produzione tedesca con i rensetti spinadi, rensetti grezi, sangali, terlisoni di Baviera, tele a occhietti, tele tovagliate, ma anche tele cremonesi con seda e successivamente tele damascate, terlise a uso di fiandra, tele bianche di Linz, tele rigate. Del 1739 è pure l’apertura di un lazzaretto a Capodistria per fumigare i fili provenienti dall’Ungheria colpita da un’epidemia contagiosa, seguita nel 1740 da una nuova fabbrica a ovest di Udine. Il 17 giugno 1747 Linussio moriva nel suo palazzo di Tolmezzo e nel testamento disponeva generosi lasciti a favore del duomo che ancora conserva le opere di Nicola Grassi e del Fontebasso, doni della famiglia, oltre alle provvidenze per tutte le pievi della Carnia. La direzione dell’azienda passò al fratello Gianpietro in attesa della maggiore età del figlio maschio Pierantonio. L’azienda procedette, con diversificazioni produttive sino al disastroso terremoto del 1788 e alle altrettanto disastrose conseguenze derivate dal crollo dello stato veneto sino alla liquidazione fra il 1813 e il 1814.
ChiudiBibliografia
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