MALATTIA DELLA VALLATA GIUSEPPE

MALATTIA DELLA VALLATA GIUSEPPE (1875 - 1948)

bibliofilo, poeta, giornalista

Nacque il 25 marzo 1875 a Barcis (Pordenone), dove frequentò le scuole elementari, per poi girare a piedi l’Italia settentrionale con uno zio venditore ambulante. Nel 1890 era a Torino, agente in un negozio di temperini di Maniago. Dopo il servizio militare, espletato tra Milano e la Sardegna, rientrò a Torino, per restarvi fino al 1901, quando emigrò a Solingen, corrispondente in italiano e in francese in una fabbrica di coltellerie. Di nuovo a Torino dal 1902 al 1905, ma come viaggiatore, nel 1906 era in Friuli, a Udine, «in una sua botteguccia di via Mercerie, dove rasoi forbici temperini facevano compagnia discreta a libri usati e a edizioni da pochi soldi» (Ermacora). Autodidatta (aveva avviato da solo lo studio del latino, del tedesco e del francese), ma «bibliofilo colto, affabile e premuroso nell’esercizio delle sue funzioni» (Ermacora), compilò un bollettino dalla testata onerosa (come del resto onerosa era l’insegna della «botteguccia», «Libreria Dante»): «Il Gutenberg». Con lo scoppio della guerra si ritirò a Barcis, dove nel 1919 fu vicesegretario del comune, nel 1920 sindaco, nel 1921 presidente della Cooperativa di consumo e della Società di mutuo soccorso. Un impegno assiduo, e fattiva è la produzione giornalistica, calata nei problemi concreti, esito di una esperienza diretta degli stenti, e perciò tesa a incidere sulle cose. Nel 1944, con l’incendio della casa e la distruzione della biblioteca, crudele rappresaglia nazista, trovò il proprio epilogo la vicenda umana di M., ad archiviare con la violenza il conforto, la nicchia/rifugio del libro prezioso e del documento, della corrispondenza eletta. ... leggi Lo scorcio conclusivo non è che una affaticata e comunque caparbia, testarda appendice: M. ritentò l’avventura del libro usato a Venezia e a Venezia morì il 7 dicembre 1948. Dell’ambiente torinese, nel quale si colloca la formazione dell’autodidatta M., della realtà della fabbrica con le sue ricadute sui rapporti interpersonali e delle figure che di questi rapporti si fanno interpreti, non si avvertono tracce in M., che resta estraneo alle sollecitazioni del nuovo. Ma non è generico il magistero di Carducci (il «più grande poeta civile dell’Italia moderna…», «in fatto di poesia storica ci ha lasciato l’esempio unico e dettò forse la suprema ed ultima parola…»). L’«erudizione» di M. «spaziava sui problemi più eterogenei» (Ermacora), e appassionata è la conoscenza dei classici greco-latini e dei grandi delle letterature straniere, il culto di Dante, ma il paradigma si risolve in una risicatissima (e anche eterogenea) galleria: «La Poesia ’no voul mediòcri, / Al è Orazio che a lu dìs: / Nome Shakespeare, Dante, Omero, / Goethe, Shelley, i no perìs!» [La Poesia non vuole mediocri, a dirlo è Orazio: solo Shakespeare, Dante, Omero, Goethe, Shelley non vengono meno]. Canone peraltro smentito dalla farragine di altre liste. I versi italiani si raccolgono in due opuscoli di modesta estensione, Edelweiss del 1904 e I canti della Valcellina del 1924. Di Edelweiss è significativa l’epigrafe, Luce, Lavoro, Verità, a evocare miti e parole d’ordine di fine secolo. Una pur rapida rassegna osserva la nota patriottica, l’istanza civile, scorci di stagioni, affetti domestici, ma prevale la corda riflessiva. Il tarlo del sapere, la vanità della ricerca (e della vita), il dubbio, e una concezione materialistica del cosmo, che avverte l’insufficienza della religione, ma anche la pochezza dell’uomo: «Ma la nostra / vita non è che l’ironia crudele / d’una ignota potenza, cui dobbiamo / obbedir fatalmente. Un giuoco arcano / di molecole e d’atomi…». Sono più ambiziosi I canti della Valcellina. Non senza asprezze («il pianto / Dei nostri padri, // Morti maledicendo alla nequizia / Degli umani avvoltoi, rapace / E bieco rostro…»), con tocchi che non rifuggono dal verismo acre e perciò partecipe («Non le vedrete più salir col chino / Capo per l’erta, pallide, grondanti / Sudore, sotto il peso della gerla / E del dolore…»): così in Redenzione. Per la nuova strada della Valcellina (già in Edelweiss), che carduccianamente coniuga attualità e registro sostenuto. Importa però il mutato atteggiamento religioso, il diverso stigma che colora la «materia», non più opposta allo «spirto». In piena evidenza è la patina aulica, il lessico dalla grana arcaicizzante: «delùbro», tempio, «fedreiani», pastori, «inulta», invendicata, «pago», villaggio, «pugnar», combattere, «viri», uomini. Dove è ovvio il magistero, magari indistinto, di Carducci. L’attività di M. giornalista (e saggista: le ricerche di storia patria, per le quali varrà il precedente prossimo di «Pagine friulane») è varia e disseminata, ma merita il rilievo l’occhio che non esorcizza la sofferenza, il «maledetto fardello» «delle miserie e delle iniquità», «questo grandioso poema scritto colle lagrime e col sangue d’una umanità conculcata». La scrittura nei suoi acuti più accesi, come il linguaggio politico del tempo, pesca nell’ambito religioso («anatemi», «apostolato»), ma asseconda anche la vena lirica, la macchia di colore («la vallata dell’azzurro Cellina») e, a legare con i versi, non mancano i brani che sostano, assaporando il dettaglio, sul paesaggio. Pur con un forte gusto della storia, pur con interessi marcatamente antiquari, per la raccolta e la custodia vigile delle vecchie carte, nei confronti della tradizione letteraria M. non manifesta entusiasmi, ma distacco, una delusa freddezza: «il Friuli aristocratico o venuto fuori dalle Università, non vanta nessuna vera e grande voce di poesia…». Un bilancio magro, se si prescinde dal consenso per la villotta, un bilancio che di una intera vicenda non salva che Erasmo di Valvason e Ermes di Colloredo, con una riconoscimento obbligato, tra gli «scrittori di versi», per la «gaia musa vernacola dello Zorutti», per quanto altrove si diano elenchi più generosi e prolissi. I testi friulani di M., a dispetto dei rapporti personali, si direbbero privi di agganci, di dialettica con il mondo che li circonda, esito di una macerazione privata, della solitudine che sigla, non senza orgoglio, l’esperienza dell’autodidatta. All’orizzonte popolare attinge, nei limiti del guscio metrico, la litania infinita delle Villotte friulane moderne, caleidoscopio curioso, imprigionato nel ritmo troppo agile della quartina: appelli politici (ma lo sguardo di regola non supera il cerchio più angusto del municipio), sollecitazioni etiche (contro la bestemmia, contro l’alcool), appunti di poetica, sui rapporti lingua-dialetto e sulla futilità delle antitesi nominali, scoppi d’allegria, malinconie, offerte d’amore, pronostici, inventari toponomastici (non senza derive fantasiose: «Udin, certo al voul dì ôde; / Cioè ch’al serf a ode lontàn; / Coma spécula e vedetta: / Da vid grec, video romàn» [Udine, certo vuol dire vedere; cioè che serve a vedere lontano; come specola e vedetta: da vid greco, video romano]). Nel 1997 Un picel mac [Un piccolo mazzo] ha riunito poesie e prose disperse, disperse ma con insospettate rifrazioni interne, con non previste solidarietà. La natura, il tempo che scorre e che, scorrendo, si riflette nel mutare delle stagioni, nel paesaggio, promettendo una continuità che non include l’uomo, vincolato al tempo lineare, dove la fine non si annoda a un rinnovato principio, dove la morte non è promessa di rinascita. La lima del tempo che precipita investe anche i rapporti domestici, di norma dislocati nell’ombra del lutto: soprattutto nel montaggio privilegiato di madre e figlio, che non è pegno di vita, ma indizio di fine. Come nella nota (e giustamente nota) Vècia ária barzana [Vecchio motivo barciano]: «Liêt a cusiva cialze e a ciantuzzava / Penserosa una vècia aria barzana; / Coma ànime ch’i soffr, se lamentava / De four la neif e al vint de tramontana. // Sentà sora una bància, un canaùt…» [Lei rammendava calze e canticchiava / pensierosa un vecchio motivo barciano; / come anime in pena si lamentavano / fuori la neve e il vento di tramontana. / Seduto su una panca un bambinetto…]. Il guizzo scherzoso, la scrittura intesa come diversivo, è di norma eluso (o escluso) dai versi, ma dà forma alla narrativa. M. raccoglie (e insieme elabora) motivi tradizionali, con l’intenzione sottesa di arricchire (e non solo documentare) il patrimonio della sua gente. Più marcatamente burleschi sono gli aneddoti paesani. Come La guata [La rete da pesca], che mette in scena un uomo e una donna, contenti e beati nella loro casetta persa in fondo a una bella valle friulana. Un idillio che precipita nella farsa. La donna, ossessionata dal corredo messo insieme con le sue mani, al momento della presunta (e anzi finta) morte del marito, non si induce a sacrificare nemmeno una delle camicie riposte e decide di avvolgere il corpo nella rete da pesca. E il lamento funebre raggiunge il vertice della comicità con l’uomo che alla fine risponde alle parole di dolore della donna. Si stacca però, a contrasto, l’immagine ultima, il resoconto duro, che non concede campo al perdono, l’incendio nazista che cancella la casa, la trama minuta di una vita: «I todescs che Diu giù maladisse al 10 de avost del 1944 i me àn brusà la ciasa cun dut chiel chi al era dentre…» [I tedeschi, che Dio li maledica, il 10 agosto del 1944 mi hanno bruciato la casa con tutto quello che c’era dentro…]. Con l’impressionante filmato che segue: un rigore descrittivo che è pura angoscia.

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Bibliografia

Edelweiss (Versi 1898-1904), Venaria Reale, Streglio, 1904; Villotte friulane moderne (Amorose, sociali, storiche, filosofiche e letterarie). Con uno studio su Dante in Friuli, e, probabilmente, in Valcellina. Note storiche e filologiche, documenti inediti di storia locale, ecc., nonché Saggio di vocabolario della parlata friulana di Barcis, Maniago, La Tipografica, 1923 (ristampe anastatiche: Udine, Libreria antiquaria “Serenissima”, s.d.; Barcis, Comune di Barcis, 1996); I canti della Valcellina, Udine, Libreria Carducci, 1924; E. MIRMINA, Giuseppe Malattia della Vallata. Saggio critico e antologia, Barcis, Comune di Barcis, 1988; Un picel mac. Poesie e prose friulane disperse, a cura di R. PELLEGRINI, Maniago, Comune di Maniago, 1997.

DBF, 473; Mezzo secolo di cultura, 154-155; T. PE[TRI], Bibliografia della poesia friulana contemporanea, «Rivista della Società filologica friulana», 3 (1922), 181-183; B. CHIURLO, La letteratura ladina del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 19224, 65; CHIURLO, Antologia, 422; C. ERMACORA, Aspetti e gente della Val Cellina, «La Panarie», 8/44 (1931), 83-93; ID., Giuseppe Malattia della Vallata, in Valcellina, Numero unico per il XXXI congresso della Società filologica friulana a Claut, Udine, Doretti, 1956, 3-4; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 171-172; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 284-285; E. MIRMINA, Nel paese dell’anima dell’aedo della Valcellina, Udine, Comune di Barcis/Centro friulano di studi I. Nievo di Udine, 1989; I sielc’ peravali’, 22; R. MALATTIA, Giuseppe Malattia della Vallata. ... leggi La vita e le opere, Barcis, Provincia di Pordenone/Comune di Barcis/Centro friulano di studi I. Nievo di Udine, 1994; 1944 Dies irae Valcellina. L’incendio nazista di Barcis, a cura di A. COLONNELLO, Pordenone, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 1994, 117-206 (con testimonianze orali, dove importa soprattutto, 185-189, L. MALATTIA, «Il libro dei bottoni». La distruzione della biblioteca di Giuseppe Malattia della Vallata); RIZZOLATTI, Di ca da l’aga, 157-162; T. SCAPPATICCI, L’emigrazione nell’opera di Giuseppe Malattia, in E lo ridice ancora via pel ridente corso. Premio letterario nazionale Giuseppe Malattia della Vallata 2006-2007, Barcis, Comune di Barcis/Premio G. Malattia della Vallata/Circolo culturale Menocchio, 2008, 23-41. Per la lingua: P. RIZZOLATTI, La parlata di Claut tra veneto e friulano. Contributo allo studio dei dialetti della Valcellina, in B. BORSATTI - S. GIORDANI - R. PERESSINI, Vocabolario clautano, Pasian di Prato (Udine), Campanotto, 1996, 15-112.

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