Nacque probabilmente intorno al 1511, nel territorio di Verona, forse a San Bonifacio. Suo padre Giovanni Matteo operava infatti al servizio della famiglia dei conti locali, che ripetutamente il M. citò nelle sue lettere, come pure ricordò gli stretti rapporti di amicizia con esponenti di note famiglie veronesi come i Guarienti, i Morando ed i Macararo. Non abbiamo molte notizie e documenti sulla sua giovinezza, anche se, sempre dal suo tardo epistolario, apprendiamo che ricevette i fondamenti religiosi all’ombra del vescovo di Verona, Matteo Giberti, forse frequentando la sua “schola accolytorum” e seguendo gli incontri che si tenevano nel suo palazzo, come egli ricordò a proposito di Reginald Pole. Egli avrebbe frequentato l’ateneo patavino, passando poi a Bologna, dove si laureò in ambedue i diritti nel 1542. Quest’ultima città restò sempre nei suoi ricordi come un luogo straordinario, per il clima che vi si respirava e per le conoscenze fatte. Tra tutti ricordò la vicinanza con il futuro cardinal Paleotti, al cui seguito egli aveva potuto partecipare, mentre molto utile gli fu la considerazione ottenuta presso i nipoti del vescovo di Rieti, Mario Aligero. Questi lo presentarono allo zio e cominciò così per lui la lunga carriera di vicario vescovile, dalla quale mai più poté uscire per raggiungere la sospirata cattedra personale. Per otto anni restò nella diocesi reatina per poi passare al servizio del vicelegato Girolamo Sauli, seguendo per lui delle questioni inquisitoriali a Bologna. Non si sa molto di più su questi anni, ma la sua figura dovette raccogliere qualche consenso, dato che gli venne consentito di avere una copia completa della delazione di Pietro Manelfi, utile per i suoi incarichi futuri. ... leggi Nel 1551 si trasferì a Rimini, in qualità di vicario del vescovo di quella diocesi, dove fece delle visite pastorali e raccolse nuove amicizie. Nel 1553 fu anche creato giudice apostolico e rappresentante del card. Ranuccio Farnese, arcivescovo di Ravenna, per tutelare gli interessi ravennati nella diocesi riminese. A questo punto il suo destino venne ad incrociarsi con quello del potente patriarca di Aquileia, Giovanni Grimani. La sua famiglia controllava il patriarcato dal 1495 attraverso le nomine in favore di Domenico, di Marino ed infine di lui, che restò in carica fino alla morte, avvenuta nel 1593. Giovanni si avvicinò ai dibattiti religiosi che riempivano la città di Venezia e si rese gravemente sospetto in materia di eresia, denunciato dal temibile Grechetto. Ebbe anche l’incauta idea di scrivere nel 1549 una lettera a Udine al suo vicario, difendendo un predicatore che aveva parlato di grazia e predestinazione. La diocesi era in una situazione delicatissima, in quanto abbracciava territori posti oltre il confine veneto e la casa d’Austria non intendeva tollerare l’autorità di un prelato veneto sui suoi sudditi, mentre Venezia controllava con ogni mezzo il suo diritto di mantenere il titolo a favore di membri delle famiglie nobili veneziane. Roma accettava di accondiscendere alle richieste veneziane non fidando nella politica imperiale in materia religiosa, specie dopo l’avvento della Riforma. Tuttavia la nuova Inquisizione non poteva che guardare con preoccupazione ad un prelato compromesso con sospetti di eresia e posto a capo di una diocesi confinante con territori aperti al dissenso religioso. Giovanni Grimani inoltre era ben poco attento a governare direttamente la propria diocesi, dove si presentò molto tardi e solo per pochi giorni, nel 1585. Per decenni protestò di non potersi recare in sede senza che gli fosse concesso il diritto di pallio e magari il cappello cardinalizio, come suo fratello. Egli visse nello splendido palazzo di Venezia, pervicacemente attento alla difesa delle proprie prerogative, non ultima quella di chiamarsi principe di Aquileia, titolo che fu causa di malumori e proteste da parte imperiale. Per sanare in qualche modo la pericolosa fama di amico di eretici e mostrare la propria buona volontà, il patriarca cercò un vicario che fosse ben accetto a Roma, in particolare ai membri della congregazione del Sant’Ufficio. La scelta cadde così sul M., che venne promosso ad una diocesi ben più importante, ma dovette affrontare una situazione molto intricata, stretto tra le richieste romane, la sua personale esperienza ed il dovere di rispettare l’autorità del Grimani, che frequentemente attraversò la sua azione, anche se lo protesse in alcune occasioni difficili. La nomina del M. porta la data del 7 giugno 1557, mentre l’ingresso solenne a Udine avvenne nella chiesa di S. Antonio il 6 agosto, anche se il primo atto di curia nel quale egli compare è del 21 giugno. Come primo atto pastorale egli emanò un documento in cui riassunse alcune prime direttrici di lavoro, richiamando prima di tutto il clero del patriarcato ad un costume nuovo. Sotto il suo controllo anche la cancelleria apparve più organizzata ed efficiente, giovandosi particolarmente dell’opera del notaio Maffeo Dalla Porta che collaborò per anni con lui in strettissima comunione di intenti, anche come inviato in segreto oltreconfine con missive e incarichi delicati. Un collaboratore ancora ignoto è colui che ebbe l’incarico di compilare e custodire il suo copialettere, oltre a redigere altri documenti delicati. I quaderni con le copie della sua corrispondenza personale erano due, ma è sopravvissuto solo quello che va dal 1563 al 1576. G.G. Liruti scrisse di aver posseduto ambedue, ma di aver prestato a qualcuno il primo, e di non ricordare più chi fosse, non riavendolo quindi in restituzione. Il M. volle cambiare lo stile della precedente gestione, lottando per accentrare il governo ancora abbandonato alla consueta frammentazione giurisdizionale e pervaso dagli accomodamenti tradizionali. Egli lottò immediatamente per richiamare i sacerdoti al rispetto del celibato, anche se in un’occasione lasciò trasparire una minima esitazione al cospetto di una bella famiglia di un vecchio sacerdote, che in ogni modo doveva perseguire. Un prete protestò dicendosi sorpreso per la notizia che il nuovo vicario non voleva più che i preti tenessero donne e curassero i propri figli. Questa testimonianza nella sua disarmante semplicità trasmette con immediatezza la situazione del clero locale, che egli doveva piegare alle nuove esigenze pastorali, clero che ben si rispecchiava nel suo stesso vescovo, incline agli affetti terreni. Istituì quindi le commissioni per le ordinazioni sacerdotali, anche se molti preti potevano essere consacrati a Lubiana, grazie al privilegio del vescovo locale di ordinare liberamente, e confessò più volte che non sapeva come cambiare le cose, stante la povertà culturale e religiosa dei sacerdoti disponibili e la necessità di bilanciarsi tra istanze di cambiamento e necessità di mantenere la struttura delle cure d’anime. La sua fu una scelta quindi di attenta gradualità, resa necessaria dalle circostanze, frutto di fatica estrema. Intaccare il tradizionale sistema di investitura beneficiale era difficilissimo, intessuto com’era da consuetudini inveterate, da rispetti e interessi delicatissimi. Con cinico disincanto egli si trovò a considerare che solo minacciando sotto l’aspetto economico i responsabili delle chiese si poteva sperare che costoro si mettessero in regola o si facessero sostituire da qualcuno idoneo. Far risiedere i preti beneficiati non sarebbe stata sempre la soluzione migliore, vista la loro qualità, e del resto egli stesso era coinvolto in queste difficoltà, come tutti, staccandosi con molto dolore, per dare il necessario esempio, dal beneficio di Santa Maria la Longa, lamentandosi per il danno economico e le scarse risorse rimastegli. Condivideva così pienamente le problematiche del tempo, anche se era obbligato a mostrare coerenza e distacco, pur vedendo personaggi ben protetti continuare nell’uso delle commende. Del resto ritorna costantemente nel suo epistolario il lamento per le scarse entrate a sua disposizione, sia per l’esercizio di curia sia per i bisogni personali, e non infrequentemente durante il suo periodo di governo sarebbe stato fatto oggetto di accuse di avarizia, di interesse pecuniario. Si difese sempre con successo, dimostrando la sua buona condotta, ma è innegabile il suo sofferto rapporto con il denaro, tema comune del resto a tanti ecclesiastici di allora, divisi tra l’impegno religioso e il mantenimento della dignità che il ruolo allora richiedeva. Per formare nuovi sacerdoti egli tentò inutilmente negli anni di ottenere risorse per la fondazione di un seminario, come pure sostenne la necessità di chiamare a Gorizia i gesuiti, capaci anche di operare con il popolo in ben tre lingue: tedesco, italiano e slavo. Ebbe ottimi rapporti con i diversi ordini religiosi presenti in regione e fu anche incaricato di procedimenti delicati in collaborazione con i responsabili francescani. Fu attento ad ammonire agostiniani ed altri quando i conventi mostrarono dei problemi, ma sempre con attenta mediazione e capacità politica. Duro invece fu lo scontro con i cappuccini, quando questi negli anni Sessanta fecero la prima comparsa in diocesi, diffondendo anche la pratica delle quarant’ore. In questo caso si sentì il peso della sua diffidenza verso un ordine fortemente pauperistico, per giunta gravato da sospetti a causa di Bernardino Ochino, nonché diffusore di una pratica devozionale che disturbava con il gran concorso di gente notte e giorno, e in particolare di donne in chiesa in ore sospette. Ben presto però il suo sguardo si fece molto più attento e gli ottimi risultati raggiunti da questi frati lo convinsero e lo resero anzi amico di quest’ordine, quanto mai utile alla sua politica di rinnovamento dei costumi e di conformità dottrinale. Come già aveva fatto in altra sede, egli adottò come uno dei suoi strumenti privilegiati di governo le visite pastorali. Fin dal suo arrivo nel 1557 egli principiò a viaggiare per conoscere la diocesi e per intervenire sui primi problemi. Non poté passare il confine con i territori arciducali, dovendo quindi fidarsi degli arcidiaconi locali e delle corrispondenze. Dopo un attacco mossogli nel 1563 in base a questo suo modo di agire dal cardinale G.F. Commendone, egli cercò di visitare anche Villaco e la valle del Gail, ma dovette rapidamente ripiegare e successivamente tornò ai modi consueti, mandando al caso, per singole occasioni, tra mille cautele, il fido Maffeo Dalla Porta. Non molto rimane della sua documentazione di visita, anche se è attestata l’esistenza all’epoca in curia di una raccolta dei verbali. Il cancelliere infatti fece un’attestazione ufficiale riguardante sia questo registro sia l’uso di visitare con frequenza e rigore. Il M. inoltre ribatté sempre con durezza a quanti lo accusavano, come era del resto abbastanza frequente, di pesare troppo con le spese sulle comunità visitate. Come dappertutto, egli dovette lottare duramente per affermare il proprio ruolo preminente, a fronte delle mille giurisdizioni esenti e degli inveterati costumi dei particolarismi locali. Il suo spigoloso carattere non gli risparmiò conflitti aperti e difficili con tutti. Il primo scontro lo ebbe, appena arrivato, con il luogotenente di Udine per chiarire gli ambiti del suo diritto di rappresentante del patriarca, tanto da spostare tribunale e curia a San Daniele, feudo vescovile. Così pure lottò lungamente con i capitoli, in particolare con quello di Cividale, il cui decano, egli diceva, pensava di esser quasi un vescovo. In verità quel capitolo era abituato a godere di un largo controllo sulla sua giurisdizione, esercitando il diritto di visita e di scelta del clero. In questa situazione lo scontro non poté che essere molto duro e non si volle accettare la preminenza decisa del M., al punto che alcuni canonici portarono la propria causa fino a Roma, aprendo una contesa pericolosissima per il Grimani e per loro stessi. Così nel 1560 i canonici cividalesi fornirono all’Inquisizione centrale il testo di una lettera sulla giustificazione, che un incauto Grimani aveva inviato nel 1549 al suo vicario, il cividalese Giovan Battista Liliani. Se già prima a Roma si erano avuti dei sospetti sulla retta fede cattolica del patriarca, tanto da costringerlo alla purgazione canonica, dopo questo fatto i cardinali ebbero in mano una prova tale da compromettere per sempre ai loro occhi il patriarca. Situazione complicata ulteriormente dalle conseguenze del viaggio in regione di Pier Paolo Vergerio avvenuto nel 1558, viaggio che aveva mostrato la facilità di diffondere in questa regione idee e libri proibiti. La Serenissima agì con forza contro i canonici colpevoli di tanto maneggio, ma ormai la causa del Grimani era definitivamente compromessa. A nulla valse infatti la sentenza liberatoria ottenuta con infinite alchimie e pressioni da una commissione del concilio riunita a Trento nel 1563. Il M. rese grandi lodi a Dio per questa sentenza favorevole e si fece festa a Udine e in regione, ma la successiva ascesa del cardinale Michele Ghislieri al soglio pontificio vanificò ogni speranza. Il vicario restò così stretto dalle pressioni romane a operare efficacemente e duramente, salvo poi ad essere frenato quando i lamenti degli interessati riuscivano a trovare udienza presso i potenti, a Roma e a Venezia. Questa situazione lo amareggiò parecchio e rese molto difficile tutto il suo governo. Non amò infatti questa sede, rimpiangendo sempre Bologna e Venezia, città molto più vivaci e appetibili. Giudicava selvaggi i luoghi e la lingua, si sentiva isolato, ma non intendeva deflettere dalla sua linea di comportamento. Nicolò Macheropio tentò di consolarlo con dei versi e anche altri letterati e nobili, come i Frangipane, ebbero stretti rapporti con lui e scambiarono gentilezze e comunanze culturali. Con il tempo in ogni modo si allentarono le tensioni con i diversi capitoli ed egli fu anche ascritto a quello di Aquileia. Tuttavia, ad ogni tentativo del M. di rivendicare il suo diritto di governo, rispose costantemente la resistenza dei canonici, con tratti a volte anche drammatici. Un problema molto delicato, ed a lui assai poco gradito, fu il controllo che il concilio aveva rivendicato ai presuli sulle case religiose femminili, sottratte al governo dei rispettivi ordini maschili. Va detto che in realtà egli, fin dalla prima visita pastorale nel 1557, aveva affrontato la questione dei monasteri. Era ben consapevole della reale situazione di queste istituzioni, e si mostrò spesso molto diffidente nei confronti di quelle donne che visitò e tentò di riformare, non sempre con successo, anche se riuscì via via a far accettare e rispettare l’obbligo della clausura. Alcune resistettero con maggior successo alla sua azione, per ragioni diverse. Il monastero di Aquileia, per esempio, si trovava fuori dal territorio veneto e raccoglieva gratuitamente le figlie di molte famiglie importanti, tanto che restò esente dal controllo patriarcale fino alla soppressione avvenuta nel Settecento, protetto dalla stessa sede pontificia. Le clarisse di S. Chiara a Udine costituirono per lui un ostacolo ancor più doloroso e imbarazzante. Egli sapeva infatti che tra quelle mura si era consolidato un nucleo di suore convertite alla Riforma e vicine all’anabattismo antitrinitario, ma non poté mai scalfire la protezione delle famiglie, come alla fine del secolo avrebbe verificato il ben più potente Francesco Barbaro. Con i frati dei diversi ordini dovette confrontarsi anche per esercitare il dovuto controllo su confessori e predicatori. Sui primi la sua azione non poté ottenere molti risultati, stante la resistenza di tanti e la molteplicità dei problemi da affrontare. D’altra parte tenne fortemente a rimarcare il suo diritto nei confronti di quanti erano chiamati a tenere i classici cicli annuali di predicazione. Le comunità ritenevano loro competenza la scelta del predicatore di turno, pagato dalle casse comuni e scelto in base alla sua fama e al successo presso gli uditori. I predicatori invece dovevano essere ormai controllati dai superiori degli ordini e dai vescovi, data l’influenza che potevano esercitare, anche come confessori straordinari, e data la delicatezza del loro ufficio di insegnamento dottrinale, di promozione devozionale. Il M. fece tenere un registro con i permessi di predicazione e volle gradualmente intervenire anche sulle scelte. Con la città di Udine ci furono scontri talora molto duri, che forse portarono anche ad una manovra per rovinarlo. In un processo per sodomia infatti venne fatto il suo nome. Questa accusa poteva costare tantissimo, molto più che per eventuali rapporti con donne. L’autorità politica e lo stesso Grimani intervennero e fecero eliminare il documento incriminato. Il pericolo corso mostra però di quale virulenza potessero essere gli scontri in atto come nel 1568, quando gli Udinesi scelsero come predicatore il cappuccino Andrea Ghetti da Volterra, il vicario fu oggetto di durissime contestazioni da parte di personaggi udinesi influenti che ne chiesero l’allontanamento, od ancora nel 1570 quando lo scontro si ripeté per il francescano Geremia Bucchio, personaggio poco limpido e, per fortuna del M., poco attento alle disposizioni in materia di patenti. Più e più volte venne attaccato e si diffusero voci contro di lui, che protestò sempre la sua retta coscienza e la purezza di vita. Per dare attuazione più efficace ai dettati tridentini, riordinare la normativa e coinvolgere meglio il clero, nel 1565 egli indisse un sinodo generale ad Aquileia. Tentò in questa occasione, anche grazie alla scelta della sede, di venire incontro al clero d’oltreconfine e di coinvolgere l’intero territorio diocesano per affrontare i necessari temi di riforma ormai indifferibili. Il M. si procurò esempi a stampa da altre diocesi, anche molto importanti, per esemplare il suo operato e rilanciare efficacemente il suo governo, anche agli occhi di Roma. Vennero invitati alcuni personaggi a tenere delle orazioni di apertura e si arrivò alla stesura di un testo abbastanza complesso, che saldava ordinazioni locali con obblighi conciliari. Nelle norme approvate vennero riprese le disposizioni già emanate da Marino Grimani con integrazioni ed aggiornamenti, alla luce delle esigenze nuove e dei problemi emersi negli anni di governo e durante le visite. Non riuscì però a conseguire quanto sperava, poiché il governo asburgico frappose ogni ostacolo all’esercizio della sua autorità e da Roma si avanzarono moltissime osservazioni, tanto che il vicario protestò osservando che gli oppositori avrebbero eccepito pure sul Vangelo. Anche in occasione del sinodo dunque emerse uno dei problemi più difficili della sua azione di governo, già segnata dal contrasto tra la necessità di riformare e la debolezza insita nella sua posizione gerarchica. La parte della diocesi posta in territorio asburgico non gli era aperta e il governo non intendeva lasciarlo agire. Il patriarcato era ormai ridotto al solo territorio veneto, mentre le pretese continue del Grimani impedivano il successo di ogni pur minimo tentativo di creare un clima diverso. Questo si vide ad esempio in occasione dell’arrivo nel 1565 in questi territori dell’arciduca Carlo, che dovette muoversi con grande cautela a fronte delle resistenze nobiliari e che si adirò con il M., venuto a fargli omaggio a Gorizia nella speranza di stabilire un qualche rapporto, costretto a salutarlo in nome del patriarca principe di Aquileia, titolo che ovviamente causò un’immediata reazione indignata. Da Roma si protestava e si premeva sul patriarca e sul suo vicario perché agissero con forza per esercitare il governo spirituale sull’intera diocesi e reprimessero l’eresia, ma non c’erano strumenti adatti per affrontare questa situazione. Il M. cercò di stringere buoni rapporti con alcuni personaggi di rilievo, come Vito di Dornberg, cattolico e potente, ma fedele agli interessi del suo imperatore, e di colloquiare con quei chierici che si mostravano talora disponibili a collaborare con il patriarca, come il parroco di Bigliana, il pievano di Gorizia o alcuni arcidiaconi. Si giunse così nel 1574 a concedere l’erezione di un arcidiaconato nell’Isontino; ma anche a cavallo degli anni di Lepanto ci furono momenti di più stretta collaborazione con le autorità imperiali, preoccupate di mostrare la propria buona volontà al pontefice. Il M. tentò nel 1571 di ottenere dal Grimani l’assenso ad un coraggioso progetto: voleva tenere la sede per metà anno ad Aquileia, in modo da togliere ogni argomento a quanti contestavano di non poter accedere ad un tribunale, a degli uffici posti in territorio veneto. Il vicario aveva già fatto preparare le stanze e stava allestendo il trasloco, ma da parte del patriarca ci fu un deciso rifiuto verso questa soluzione e tutto dovette rientrare. Per giunta il cardinale Girolamo Rusticucci fece sapere che il papa stesso preferiva che si sospendesse questa iniziativa. Uno scontro durissimo e complesso avvenne nel 1570, quando da Roma si decise di utilizzare anche in questa sede lo strumento straordinario della visita apostolica. Ad un M. consapevole di aver sempre visitato e, a fronte di reiterate richieste, furente per non aver mai ricevuto un’autorità apostolica per visitare i territori sottratti al suo controllo, si prospettò la situazione di venir messo sotto inchiesta per non aver agito nel goriziano. Per giunta venne inviato Bartolomeo di Porcia, molto vicino al cardinale Carlo Borromeo, accorto diplomatico e abate commendatario di Moggio, che egli non stimava affatto e con il quale aveva avuto uno scontro proprio per il suo rifiuto di farlo entrare nel territorio dell’abbazia. Il M. si rifiutò di presenziare all’apertura della visita ad Aquileia e restò in rancoroso riserbo a Udine, contestando lo stesso strumento di queste visite, messe sotto la responsabilità di chi non conosceva i territori, mentre, secondo lui, non veniva aiutato ad operare chi di diritto ne portava la responsabilità. Fin dal suo ingresso in diocesi il vicario aveva, accanto al riordino degli uffici e delle prassi di curia, dato avvio al tribunale dell’Inquisizione. Il già citato viaggio del Vergerio evidenziò i tanti problemi che si frapponevano alla sua azione ed anche suscitò malumori e sospetti verso un modo di agire che non si considerava troppo efficace. L’omaggio raccolto a Duino dal capodistriano con tanti parenti e amici venuti fin lì a incontrarlo, oltre agli incontri avvenuti lungo la strada, furono per i cardinali la dimostrazione di quanto queste zone fossero compromesse e della scarsa sorveglianza esercitata. Fu uno sforzo difficile in un momento in cui egli aveva avviato la sua azione di riforma, anche con confronti serrati, affrontare la necessità di condurre un’inchiesta a tappeto sul territorio diocesano, poco supportato dal vescovo suffraganeo Luca Bisanti, che egli del resto mostrò sempre di considerare ben poco. A supporto della sua azione, da Roma gli giunse almeno il titolo, di cui già aveva goduto a Rimini fin dal giugno 1558, di commissario specialmente delegato per l’Inquisizione, titolo che si aggiungeva a quello meramente onorifico di protonotario apostolico, e per tutto il suo periodo di governo a Udine mostrò con decisione la sua preminenza nel tribunale, anche al di là del diritto connaturato alla sua carica. Come il M. sottolineò più tardi, egli si trovò nell’infelice situazione di dover far convivere due momenti contrastanti: il terrore del giudice e la dolcezza del pastore. Nonostante l’amicizia con i responsabili dell’ordine, non sembrò fidarsi troppo degli inquisitori francescani e si legò piuttosto in un rapporto di intensa fiducia con il domenicano Santo Cittinio, malvisto nel suo stesso convento per il suo rigore. Dalla metà degli anni Sessanta egli lo chiamò a partecipare ai lavori del tribunale, con il titolo di commissario suddelegato per il patriarcato. Nella sua azione di repressione il M. si espose con durezza e affrontò alcuni scontri molto difficili con alcune famiglie, specialmente quando tentò in più occasioni di intervenire contro il monastero di S. Chiara a Udine. Già dal testo della delazione di Pietro Manelfi egli aveva saputo delle simpatie manifestate dalle suore verso le nuove idee religiose. Con il secondo arresto nel 1566 dell’eretico Bernardino Della Zorza, il Sant’Ufficio ebbe molti elementi che indicavano il profondo e continuo coinvolgimento di alcune suore con il movimento anabattista. Le protezioni delle famiglie e dell’ordine furono efficaci per impedire ogni passo ulteriore e, quando il M. nel 1572 rifiutò la sepoltura religiosa alla badessa sospettata ed il riconoscimento della nuova eletta, si aprì un confronto durissimo. Del resto tutta la situazione nei conventi femminili era difficile e il vicario non voleva assolutamente transigere: «A queste monache di Santa Chiara non è mai stata prohibita la messa, quelle della Cella di Cividale la fanno dire, se bene sono scomonicate, da quelli lor frati o d’altri che non ho cercato perché non voglion obedire alla signoria vostra illustrissima et meno a me. A quelle di Santa Maria in Valle la levai io li mesi passati essendo a visitarle et trovando che tutte, da tre infuori, erano uscite fuori del lor monastero, et etiandio dopoi che erano state assolute per un giubileo d’essere uscite prima; queste obediscono in questo anco perché non è chi voglia andare a dirle messa et perché sono state sempre sotto la cura patriarcale. Ricordo alla signoria vostra illustrissima che, nel segnare i capitoli a queste monache di Santa Maria in Valle, ella sappia che sogliono per lor confessore eleggere un frate de’ conventuali di San Dominico, il che a me non par che sia bene et perché ’l papa ha levato a questi la cura di monache, et perché li frati non s’accordano con li preti et nelle confessioni possono fare degli officii contrarii alla mente di chi governa, pur mi rimetto a quello che a lei parerà meglio. Non ci mancano preti atti a confessarle». Il clima si fece tale che egli giunse ad abbandonare Udine ed a trasferirsi a Cividale, dalla fine del 1572 al dicembre 1575, ed il patriarca dovette nuovamente resistere alle pressanti richieste di una sua sostituzione, protestandogli assoluta fiducia, ben sapendo comunque quali problemi sarebbero potuti nascere a Roma se avesse ceduto. Ritornato a Udine, il M. trascorse l’ultimo periodo della sua vita ormai debilitato dalla malaria, che da anni lo tormentava, ed amareggiato per non aver potuto ottenere la promozione a vescovo che riteneva il giusto compenso per una vita spesa al servizio della Chiesa, dovendo accontentarsi della raccomandazione del cardinale Giacomo Savelli perché gli fosse accordata una pensione nel 1571. Non sappiamo se gli fosse giunta voce che nel febbraio 1574 Girolamo di Porcia aveva riferito che «si disegnava per li arciducali di elegger in vescovo di Trieste la persona del M., vicario del reverendissimo patriarca d’Aquileia». Il consiglio dei Dieci decise di far leggere la missiva al patriarca, poi la cosa cadde. Gli rimase la tristezza per l’isolamento che protestava di sentire anche nei confronti di Roma, dove, secondo lui, non si capiva quanto egli si fosse speso in condizioni di grave difficoltà. Il Grimani inoltre guardava spesso con malcelato fastidio ad un vicario che lo pressava di lettere e relazioni e che rivendicava propri spazi di azione. Lavorò fino all’ultimo, magari confinato a letto, e morì a Udine il 27 dicembre 1576. La registrazione del capitolo udinese avveniva seguendo il ciclo della natività, per cui alcuni studiosi hanno registrato la data di morte come avvenuta un anno dopo. Egli, benché malato, non lasciò testamento, nemmeno in favore delle consuete opere di pietà, con un atteggiamento per molti versi sorprendente e forse legato ai difficili anni che aveva dovuto attraversare, all’amarezza, allo spaesamento di una vita ormai troppo amareggiata. Alla notizia della sua morte il capitolo decise di inumarlo nella sepoltura patriarcale posta nella cappella maxima della chiesa, dove già era stato collocato in anni precedenti Luca Bisanti. Il clima in cui fu presa questa decisione il 29 dicembre conferma la scarsa simpatia di cui godeva il vecchio vicario, sottolineando che si faceva tutto solo per onorare il patriarca. Quest’ultimo ricordò il suo collaboratore anche interpretando le sue volontà e destinando i beni rimasti a favore sia del fratello di lui, Cesare, sia dell’ospedale. Venne poi sostituito per breve tempo da uno dei suoi più fidi collaboratori, pre Leonardo Stainer, al suo fianco fin dai primi anni di governo in diocesi.
ChiudiBibliografia
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