Nato a San Fermo della Battaglia (Como) nel 1914, si radicò a Erto fin dalla prima infanzia, nel segno di una passione ininterrotta. A Erto (e poi a Vajont) fu per molti anni maestro elementare. Di Erto e Casso era vicesindaco al tempo della catastrofe del 1963, ma non è solo il frangente del dolore a implicarlo nella gestione della cosa pubblica. Il mio Vayont, volume generoso, restio alla disciplina ferma, ne è per largo tratto cronaca minuta e reattiva: le avvisaglie della tragedia, l’angoscia del suo manifestarsi, l’iter tormentato dei processi, della ricomposizione non unanime a Vajont. Dove si dà spazio alla forma del diario, a delibere ufficiali, mozioni e relazioni, articoli di giornale, volantini, dove l’attualità non sempre si assesta nel registro della pacatezza («insensibili vampiri», «mestatori miopi e maligni»). Ma, a precedere l’attualità, rincalzandola, è l’elegia del passato, un passato dallo spettro enorme, che trascorre dall’archeologia alla nota etnografica, dalla memoria orale alle sequenze fitte di documenti, con una ritrosia palpabile per la modernità, per lo scarto dal mondo di ieri, a difesa di una più strenua e integra autarchia, anche culturale e linguistica. Si osservino, nella descrizione della casa, le righe dedicate alla «seccarola»: «Sopra la tavola, a un metro o più dal soffitto, era sistemata la ‘seccarola’. Ora non si sa neanche che cosa sia, ma noi che l’abbiamo colmata più di una volta, ricordiamo essere due travi fisse nel muro, parallele. Sopra vi si accatastavano ‘le legne sfendude con la manera’, perché si seccassero al calore del fuoco e del fumo. Secca così, la legna ardeva come candele. Le faville scintillanti si rincorrevano verso un camino che non c’era: anche perché sarebbe passato vicino al tetto di paglia». Un referto nitido, ma che alle «faville scintillanti» affida il residuo fantastico della nostalgia, chiave del rimpianto. ... leggi Importa però il nodo della lingua, il sistema di appartenenza della parlata, oggetto di discussione (e di tesi che non si incontrano), a «chiarire una volta per sempre che essere pur chiare le infiltrazioni del vicino friulano, ma essere altrettanto vero non trattarsi di infiltrazioni ma di parentela bella e buona quella che lega il linguaggio di Erto con quello della Val Badia (e della bassa Engadina del Canton Grigioni)». Un taglio netto, che poi sfumerà. La «valle martoriata» (Corona) è cornice irrinunciabile anche per la scrittura letteraria. La tragedia del Vajont, la frana del monte Toc, è motivo che torna ed è limpida, perentoria, a provare il rapporto, l’evidenza dei nomi propri: dei nomi di luogo e di persona. Nei versi come nelle prose a battere variamente è la maglia della memoria, privata e collettiva, tra incanto recuperato e brivido della perdita. Fatta eccezione per un volume di cui si dirà, i testi sono dispersi in rivista, a coprire un arco che dal 1962 conduce – con intervalli sensibili –, al 1994: postumo è l’ultimo racconto affidato a «Sot la nape». Una bibliografia che si completa con Silloge, un dattiloscritto, ma con i crismi di una edizione in proprio, con quattordici testi, uno dei quali in ertano (invio datato 9 aprile 1981). Le prose, di regola asciutte, senza ombra di ridondanza, e perciò eleganti, si appuntano sull’aneddoto paesano. Ma si guardi l’avvio di Le lugianige [Le salsicce]: «Al me la contà mi òma, da canài. Ai so tèimp, al viveva un preve che l’eva gnòn Offer. La so serva la géva arlevé doj porc…» [Me l’ha raccontata mia madre, da ragazzo. Ai suoi tempi, viveva un prete che aveva nome Offer. La sua serva aveva allevato due maiali…]. E si guardi l’avvio di Al spirito de Tofoleto: «Chesta l’è ’na storia vecia che la riva fin ai nostre dis tramite mi oma che al me l’à contà mili àins fè, ch’o ere insciamò canài. A’in lie al le eva imparade da sò oma. A’ j era a fèin…» [Questa è una storia vecchia che arriva fino ai nostri giorni tramite mia madre che me l’ha raccontata mille anni fa, quando ero ancora bambino. Anche lei l’aveva imparata da sua madre. Erano a fare il fieno…]. Dove emerge la trafila lunga della oralità (e dove si sgretolano i confini tra reale e fantastico). Ma, anche quando il contatto con la narrativa orale è trasparente, preme con la sua finezza la volontà di rielaborare, di assestare: la cifra di uno stile, sia pure mimetico. È più esposta la corda emotiva nei versi: «Sèint l’usignol, dho par San Svalt, la sera / sciante, co’l chèur, la soa e me tristètha…» [Sento l’usignolo, giù per Sant’Osvaldo, la sera / cantare, con il cuore, la sua e mia tristezza…]. Brezzoline crepuscolari del Vayont raccoglie versi italiani e testi ertani (identici gli estremi cronologici, dal 1946 al 1972) e ineludibile è il confronto tra i due codici. Il preambolo sottolinea «come l’idioma gentile sia più facile, scorrevole, armonioso, millesimale, da cogliere sfumature impensate, mentre l’ertano è rude, scabroso, meno ricco del friulano, con una divisione appena decimale, se il paragone può calzare». Il titolo può fuorviare, evocando atmosfere di primo Novecento, ma altra è l’intenzione: «Accendete le fiammelle. Le ‘brezzoline’ ravvivino le fiaccole! Che diventino fuochi! Fuochi d’amore per la cara lingua ertana, la favella che i nostri Vecchi ci hanno lasciato in eredità». La scrittura italiana è nel vincolo della tradizione: per la metrica (quartine di ottonari o endecasillabi a rime alterne o incrociate, sonetti, ottave dalla disposizione a specchio ABCDDCBA), per il gusto del sintagma rotondo, con l’attributo in rilievo («annose querce», «fronde opulente», «pena pur ima», «plaga silente», «turgidi argini», «alteri gelsi per la sposa vite»), per un lessico ormai desueto («polve», «speme», lo stesso «nivore»), che respinge l’attualità (o la annette con sarcasmo: «e maxi e mini gonne, alla rinfusa, / nere garriscon come le bandiere»). Marcato è il ruolo dell’apocope («canzon», «ostacol»), del pronome in enclisi («dicemi», «ergesi», «parlasi»), di forme pronominali come «ei» e di forme verbali come «giva», «ivan», «isti». Una lingua provocatoriamente in attrito. Ma altra è la suggestione dell’ertano, che pure si muove tra storia e paesaggio, tra l’urgenza della cronaca e l’universo narrativo popolare, in schemi di regola chiusi. «Nei versi di Martinelli si coglie il piacere, e l’orgoglio, di scrivere nella parlata ertana e di farne apprezzare la cantabilità ruvida e dolce insieme, e la ‘diversità’ (sottolineata anche con scelte grafiche inconsuete)» (Colonnello), una parlata «assai interessante e colorita», che M. riesce a piegare «alla sua fresca, pura e gentile forma espressiva» (Ciceri). Si veda a riprova Nadel [Natale], del 1965, che ha la delicatezza di una ninnananna: «Ce bel Pupin, / chest fantolin, / ch’al me dhron / ochy sul brath. // Col me fié, yù ge salt / al mostath; / co le man, yù ge salt / i pedins: / in me l’è dut che trema, / par la gioia dal chéur. // Al so chéur ge bat cetin, / e int’al sùan, al rit» [Che bel bambolino, / questo fantolino che mi dorme qui sul braccio / Col mio fiato, io gli scaldo la faccia; / con le mani, io gli scaldo i piedini: / in me è tutto che trema, per la gioia del cuore. / Il suo cuore gli batte calmo, e nel sonno, sorride]. M. è morto nel 1993.
ChiudiBibliografia
Brezzoline crepuscolari del Vayont, Presentazione di G. D’Aronco, Maniago, Tip. Mazzoli, 1972; Il mio Vayont, Presentazione di G. Corona, Pordenone, Comune di Vajont/GEAP, 1976.
DBF, 499; Mezzo secolo di cultura, 165; Mezzo secolo di cultura Sup 1, 22; CHIURLO - CICERI, Antologia, 800; [A. CICERI], Recensione a Il mio Vayont, «Sot la nape», 29/3-4 (1977), 131-132; Mezzo secolo di cultura Sup 2, 40; D’ARONCO, Nuova antologia, III, 146; Mezzo secolo di cultura Sup 3, 51; Mezzo secolo di cultura Sup 4, 53; I’ sielc’ peravali’, 52, 57; Osvaldo Martinelli Fozza: una vita operosa e poetica, «Friuli nel Mondo», marzo 1994, 8; Mezzo secolo di cultura Sup 5, 72. Sulla lingua: P. RIZZOLATTI, La parlata di Claut tra veneto e friulano. Contributo allo studio dei dialetti della Valcellina, in B. BORSATTI - S. GIORDANI - R. PERESSINI, Vocabolario clautano, Pasian di Prato (Udine), Campanotto, 1996, 15-112.
Nessun commento