MICHELSTAEDTER CARLO RAIMONDO

MICHELSTAEDTER CARLO RAIMONDO (1887 - 1910)

filosofo, poeta, pittore

Immagine del soggetto

Carlo Michelstaedter in un ritratto dello studio Rossi di Genova, 1905 (Gorizia, Biblioteca statale isontina, Fondo Carlo Michelstaedter, IX G-b).

Immagine del soggetto

Autoritratto con cravatta, disegno a lapis di Carlo Michelstaedter (Gorizia, Biblioteca statale isontina, Fondo Carlo Michelstaedter, IV, album E, c. 8v-9r).

Nato a Gorizia nel 1887 da Alberto ed Emma Coen Luzzatto, morì suicida nella sua città natale, a soli ventitre anni, il 17 ottobre del 1910. Cresciuto in seno a una famiglia della borghesia ebraica goriziana assimilata, discendente da insigni rabbini come Abraham Vita e Isaac Samuel Reggio, si formò presso il severo Staatsgymnasium asburgico nel quale apprese la lingua tedesca, i classici greci e latini, la matematica, il disegno e la filosofia. La sua educazione religiosa ebraica appare però piuttosto superficiale. Dipingeva e disegnava per proprio diletto, non senza abilità. La sua passione erano i bozzetti e le caricature. Conseguita la maturità, meditò di iscriversi alla Facoltà di matematica presso l’Università di Vienna, ma poi decise di trascorrere un anno a Firenze per dedicarsi alla pittura. Qui si iscrisse al prestigioso Istituto di studi superiori, dove ebbe come eccellenti maestri Guido Mazzoni, Pio Rajna e soprattutto il grecista Girolamo Vitelli, al quale avrebbe chiesto l’assegnazione di una tesi a conclusione del suo curriculum studiorum. Dal ricchissimo epistolario che ci ha lasciato emerge l’immagine di una vita intensa, appassionata, ma anche punteggiata da momenti di grande sconforto, amori interrotti, lutti improvvisi (come quello del fratello maggiore Gino e dell’amica Nadia Baraden) e intense delusioni. L’estrema sensibilità testimoniata dall’opera grafica, pittorica e poetica, pubblicate postume, contende il primato ad una penetrante e lucida intelligenza, educata con competenze filologiche, letterarie e linguistiche di prim’ordine. ... leggi Tutti questi aspetti non sembrano però trovare in M. un’armoniosa sintesi nella costruzione della sua personalità, originariamente tesa verso il futuro e poi raccolta e dilatata infinitamente in un istante atemporale. Squilibri affettivi e conflitti familiari irrisolti, abbinati ad una percezione delle tumultuose problematiche storiche e sociali emergenti alla vigilia della prima guerra mondiale, rappresentano forse la spia di un disagio molto più profondo che egli si assume il compito di elaborare filosoficamente nella sua tesi di laurea sui concetti di “persuasione” e “rettorica” in Platone e Aristotele, categorie attraverso le quali M. costruisce un’acuta critica della modernità. Un conflitto che assume i connotati di un’impossibile assimilazione alla società borghese dell’epoca ed urge ad un rifugio nella dimensione morale dell’autenticità anticipando per certi versi la rivolta esistenzialistica che sarà di Heidegger e di Sartre, pur con linguaggi differenti, a partire dalla lezione di Nietzsche. Una disperata ricerca di salvezza lo conduce lungo un itinerario originalissimo dai presocratici a Gesù, da Sofocle a Leopardi, da Ibsen a Beethoven, mentre, sullo sfondo, campeggia la lezione di Schopenhauer con le suggestioni del buddismo, ma anche il recupero della tradizione mistica ebraica, la “qabbalà”, a cui M. cercò di accedere, almeno per via indiretta, a testimonianza di un tentativo di riappropriazione della tradizione familiare rappresentata dal rabbino Abraham Vita Reggio. Gli esiti del lavoro teorico, concluso il 16 ottobre del 1910, sono forse impresentabili per un’ordinaria commissione di laurea, ma la densità dell’opera e il suo rigore si sarebbero dispiegati realmente solo molti anni dopo la morte dell’autore, principalmente per merito dei suoi amici fiorentini: Vladimiro Arangio Ruiz e Gaetano Chiavacci, e non senza fraintendimenti o forzature. Bisognerà attendere gli anni Settanta del Novecento per avere le prime edizioni complete dell’opera per le cure di Sergio Campailla e una più ponderata critica. A tutt’oggi la sua morte è avvolta nel mistero. Un esito imprevisto? Una coerente conclusione filosofico-esistenziale? Un incidente? Giovanni Papini, a pochi giorni dal decesso, ascoltati forse gli amici fiorentini, ma senza aver letto probabilmente nulla di quanto scrisse M., coniò il fortunato slogan giornalistico del «suicidio metafisico», una tesi che nel corso degli anni, ad una più attenta lettura, non sembra più sostenibile. Giovanni Gentile liquidò filosoficamente M. come immaturo e privo della necessaria sistematicità, riservandogli benevolmente il titolo di «poeta». Oggi il nome di M. è stato accolto a pieno titolo nel novero dei grandi pensatori del Novecento come quello di un antesignano postumo, nel senso di conosciuto solo dopo la morte, e quindi inattuale, tradotto in molte lingue e studiato sempre più assiduamente.

 

L’opera filosofica

L’itinerario teoretico di M. cominciò a delinearsi in maniera oscura e intuitiva fin dalle prime esercitazioni scolastiche all’Istituto di studi superiori di Firenze. Le sue competenze linguistiche e filologiche, abbinate a una straordinaria sensibilità artistica, gli permettevano di affrontare temi come il concetto di “tragico” in Lessing e Baretti, e il ruolo del “coro” in “Sofocle e Manzoni” con esiti più che promettenti. Fu proprio con il docente di letteratura greca che M. intese affrontare il suo lavoro finale. Il tema era quello dei concetti di persuasione e rettorica in Platone e Aristotele ma, a partire dal 1909, il materiale crebbe e si accumulò in maniera caotica e strabordante e fu necessaria una prima tappa propedeutica: l’elaborazione del Dialogo della salute. Nella forma di un dialogo platonico, i due amici del liceo, Nino (Paternolli) e Rico (Mreule) sono convocati alla ricerca di un’intuizione che Alessandro Arbo ha così sintetizzato: «La vita come differimento continuo, dove la brama rappresenta la spia di un preoccupante vuoto, un non-essere, un desiderio che è segno di una carenza ontologica», una condizione dissimulata continuamente dal mito della vita superficialmente felice, ossequiosa delle convenzioni sociali, e da un’esaltazione estetizzante. È una lezione che M. ha appreso anche dall’insegnamento paterno, e contro la quale evidentemente reagisce portando alla superficie della coscienza un’angoscia costitutiva dell’esistenza individuale di fronte al nulla. «L’individuo – prosegue Arbo – continua a lottare senza alcuna garanzia di vincere, perché la salute non è un possesso stabile, non si può raggiungere una volta per tutte, né costituisce il necessario punto d’arrivo della volontà». Questo dialogo, arricchito da una parallela ricerca poetica, permise al goriziano di «far precipitare» alcune importanti categorie linguistiche che sarebbero state fondamentali per l’elaborazione della tesi e costituì il cammino di avvicinamento alla ricerca di una soluzione. Soluzione invero sbilanciata e recuperata solo “via negationis” nel senso che, effettivamente, i concetti di “persuasione” e di “persuaso”, che dovrebbero indicare l’alternativa gnoseologica ma anche esistenziale alla mistificazione della “rettorica”, non vennero poi tematizzati in maniera adeguata nemmeno nella tesi di laurea. Bene ha sottolineato Cristina Benussi il carattere di “Bildungsroman” dell’opera che emerge da un attento accostamento fra la parabola biografica e l’elaborazione della scrittura michelstaedteriana nell’allineamento di tutti i materiali scandagliati in quegli anni secondo un punto di vista del tutto proprio e originale. Infatti la filosofia che M. cercava non era un’esercitazione accademica, bensì una riappropriazione del proprio io, un modello di sapere che unifica filosofia e vita. Nei tre capitoli della tesi, M. ricostruiva la genesi storica dei sistemi filosofici (La rettorica), dei modi attraverso cui il sapere si irrigidisce nella pretesa dell’oggettività (La costituzione della rettorica), e analizzava poi le relazioni fra aspetti teoretici e implicazioni esistenziali di questo pensiero (La rettorica della vita). A questo modello ricostruttivo e degenerativo del sapere e della vita, egli contrapponeva il modello del “persuaso”, cioè della singolare fatica di una sintesi vitale fra sapere ed essere, fra autenticità e impegno morale. Eppure, gli esiti di questa illuminazione sono insostenibili per ogni vita, e il persuaso mantiene il suo ruolo solo in faccia alla morte che dilata l’istante all’infinito ma che, inevitabilmente, lo travolge e lo rimuove dalla stessa vita. La via della persuasione è un’intima e personalissima maturazione che perviene ad un’istanza etico-volontaristica attraverso le lezioni di Parmenide, Leopardi, Schopenhauer e Nietzsche, ma anche Cristo e Beethoven, Socrate e Ibsen. L’esito è un appello a lottare contro ogni retorica, contro ogni inautenticità, senza mai accontentarsi “della qualunque vita”, forse contro ogni omologazione e ogni assimilazione. Tre sembrano essere però i temi dominanti che egli ha mutuato, forse inconsciamente, dal suo “milieu” ebraico, tutti e tre in genere trascurati dalla critica tradizionale e che conferiscono a M. quel carattere di “eccentricità” che lo caratterizza rispetto alla produzione filosofica occidentale classica: la lotta all’idolatria (sia essa economica, sociale o metafisica), il realismo esistenziale dell’Ecclesiaste (che del resto bene si coniuga o converge con l’esperienza leopardiana) e l’aspirazione alla giustizia come dovere infinito dell’individuo (nel senso di una impossibile giustificazione dello status quo e della storia in termini di un’anticipazione escatologica già avvenuta).

 

L’opera poetica

Della produzione michelstaedteriana, la poesia è forse la modalità espressiva meno riuscita ed originale del filosofo goriziano. Eppure, a dispetto dei suoi tratti spesso rigidi e formali, incompiuti, retorici o scolastici, essa risulta preziosa per documentare puntualmente la sua parabola biografica e testimonia un originale percorso di ricerca fedelmente riflesso nell’opera filosofica e in quella grafica-pittorica. Ad oggi, l’edizione critica pubblicata presso l’editore Adelphi di Milano raccoglie trentatré liriche, databili fra il 1905 e il 1910. Le prime, frutto di cimenti giovanili a cui forse l’esempio paterno non deve essere stato estraneo, come ha sensibilmente evidenziato Sergio Campailla, mostrano affinità con un orizzonte carducciano e poi ancora dannunziano (Se camminando vado solitario; Alba. Il canto del gallo; La notte), ma col passare degli anni, vi si intravede una maturazione e un avvicinamento alla più affine sensibilità leopardiana con la quale M. avrebbe intrattenuto un intenso e puntuale confronto. Tale “rovesciamento dialettico” è già evidente nelle liriche del 1907 (Cade la pioggia; A che mi guardi fanciulla). Questo percorso sfocia poi, soprattutto nell’ultimo anno di vita, in un’esposizione più libera e profonda di un’esperienza personale che non sembra omologarsi a quella del circolo vociano fiorentino, a cui alcuni critici l’hanno accostata. Piuttosto, sempre con riferimento a Leopardi, ma su un quadro precipuamente ibseniano (si pensi al tema del mare), M. articola una propria grammatica esistenziale onirica. A riprova che la distillazione del verso poetico sia stato supporto di esperienza biografica e filosofica, come del resto gli rimproverò il padre, basterà pensare ai pochi titoli come: Marzo, Aprile, Giugno o alla maggioranza di essi privi semplicemente di intitolazione. Notevoli sono infatti gli elementi che si ritrovano, pari pari, sia nel Dialogo della salute, sia ancora ne La persuasione e la rettorica, che solo in questa veste però acquisiscono piena intelligibilità (si veda ad esempio Il canto delle crisalidi e l’intero canzoniere dedicato A Senia). Il verso michelstaedteriano approda ad una terra promessa che non è però terra, e nemmeno cielo, come ha osservato acutamente Sergio Campailla, bensì un “terzo regno”, quello appunto del mare, il quale, pur nella sua condizione di continua incertezza e a volte drammatica o tumultuosa tempesta, potrebbe rappresentare, metaforicamente, il segno più universale di un dramma, quello dell’impossibilità di assimilazione della sua riemersa identità ebraica.

 

L’opera grafica e pittorica

Ultima ad essere conosciuta al grande pubblico, in ordine di tempo, è stata l’opera grafica e pittorica di M. quando, nel 1974, i disegni e i dipinti, depositati insieme alle carte presso la Biblioteca statale isontina, furono per la prima volta fatti conoscere agli studiosi convenuti all’IX congresso dell’Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei di Gorizia. Nell’occasione, venne anche allestita una mostra e un volume curato da Sergio Campailla. Vi era una certa reticenza a trattare del tema perché, secondo il decreto di Benedetto Croce, l’anima di un filosofo, un poeta e un pittore, non potevano convivere adeguatamente nella stessa persona. Eppure in M., al di là di formule classiche e stereotipate, tipiche del cimento dell’autodidatta ed esercitazioni prive di originalità, vi è invece anche una mano talentuosa precocemente ritratta. In particolare, come ha giustamente osservato Fulvio Monai, «è la caricatura che ne dimostra non solo lo spirito acuto di osservazione ma soprattutto la graffiante capacità di far emergere i lati essenziali del carattere delle persone, e di mettere in evidenza i guasti interiori». Sulla formazione artistica del giovane M. si è cercato di indagare in più direzioni, ma dai suoi scritti e dall’epistolario poco emerge circa i suoi rapporti con l’arte a lui contemporanea e praticamente nulla riguardo quegli artisti che a Vienna, a Parigi o a Monaco furono protagonisti di una vera e propria rivoluzione del gusto e del linguaggio agli inizi del Novecento. A dire le cose come stanno però, M. si orientò dopo gli studi ginnasiali verso Firenze, non per iscriversi all’università, bensì, come ha giustamente osservato lo stesso Campailla, per frequentare la Scuola di nudo e quindi l’ambiente dell’Accademia di belle arti. La sua mano e il suo occhio erano già predisposti a un’educazione formale. In ogni caso, nel comparare la parabola del suo pensiero attraverso le esercitazioni scolastiche e i prodotti della sua creatività poetica, grafica e pittorica, possiamo senz’altro ravvisarne le linee di coerenza, tanto che, si potrebbe dire, egli pensava sia nel comporre poesie, sia ancora nel disegnare o, addirittura, che il disegno fosse per lui una fonte di meditazione. E così come il dettato filosofico, anche l’opera grafica e pittorica esibisce il percorso di una personalità autonoma, un caso artistico sottratto a specifiche dipendenze e disinteressato alla scuola o all’innovazione come espressione della propria ricerca. Non per questo egli fu avulso dal suo tempo, ed anzi, dobbiamo sottolineare anche in questo caso, egli fu addirittura per certi versi un antesignano: basti pensare alla straordinaria Processione di ombre, schizzata a lapis nel 1903 a soli sedici anni, la quale innegabilmente anticipa, sempre secondo Monai, il tratto dei tipici disegni di Klimt databili cinque o sei anni più tardi. Da questo punto di vista, M. rientra pienamente nell’ambito dell’espressionismo, pur senza averne consapevolezza ed anzi, come ha notato Licio Damiani (1978): «La sua opera figurativa rappresenta in Friuli la più alta e significativa esperienza espressionista in forme autonome e assolutamente spontanee».

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Bibliografia

Le carte autografe di Carlo Michelstaedter, comprese quelle inedite, e la letteratura critica cresciuta negli anni sull’opera del filosofo, sono conservate presso il fondo Carlo Michelstaedter della Biblioteca statale isontina di Gorizia.

C. MICHELSTAEDTER, Opere, a cura di G. CHIAVACCI, Firenze, Sansoni, 1958; La persuasione e la rettorica, a cura di V. ARANGIO RUIZ, Genova, Formiggini, 1913; Opera grafica e pittorica, a cura di S. CAMPAILLA, Gorizia, Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei, 1975; Scritti scolastici, a cura di ID., Gorizia, Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei, 1976; La persuasione e la rettorica, a cura di ID., Gorizia/Milano, Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei/Adelphi, 1982; Epistolario, a cura di ID., Milano, Adelphi, 1983; Poesie, a cura di ID., Milano, Adelphi, 1987; Il dialogo della salute, a cura di ID., Milano, Adelphi, 1988; L’immagine irraggiungibile. Dipinti e disegni di Carlo Michelstaedter. Catalogo della mostra (Gorizia, 10 maggio-22 giugno 1992), a cura di A. GALLAROTTI, Monfalcone, EdL, 1992; La persuasione e la rettorica. Appendici Critiche, 1-2, Gorizia/Milano, Istituto per gli Incontri culturali mitteleuropei/Adelphi, 1995; Il prediletto punto d’appoggio della dialettica socratica e altri scritti, a cura di G. FRANCHI, Milano, Associazione culturale Mimesis, 2000; Sfugge la vita. Taccuini e appunti, a cura di A. MICHELIS, Torino, Aragno, 2004; L’anima ignuda nell’isola dei beati. Scritti su Platone, a cura di D. MICHELETTI, Reggio Emilia, Diabasis, 2005; Dialogo della salute e altri scritti sul senso dell’esistenza, a cura di G. BRIANESE, Milano, Mimesis, 2009.

S. CAMPAILLA, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna, Patron, 1973; ID., A ferri corti con la vita, Gorizia, Comune di Gorizia, 1974; DAMIANI, Arte del Novecento I, 133-135; C. BENUSSI, Negazione e integrazione nella dialettica di Carlo Michelstaedter, Roma, Ed. ... leggi dell’Ateneo e Bizzarri, 1981; C. LA ROCCA, Nichilismo e rettorica. Il pensiero di Carlo Michelstaedter, Pisa, ETS, 1983; P. PIERI, La differenza ebraica. Ebraismo e grecità in Michelstaedter, Bologna, Cappelli, 1984; G. BRIANESE, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter, Abano Terme, Francisci, 1985; F. FRATTA, Il dovere dell’essere. Critica della metafisica e istanza etica in Carlo Michelstaedter, Milano, Unicopli, 1986; M. CERRUTI, Carlo Michelstaedter. Con alcuni testi inediti, Milano, Mursia, 1987; F. MUZZIOLI, C. Michelstaedter, Lecce, Milella, 1987; R. DE MONTICELLI, Il richiamo della persuasione. Lettere a Carlo Michelstaedter, Genova, Marietti, 1988; Dialoghi intorno a Michelstaedter, a cura di S. CAMPAILLA, Gorizia, BSI, 1988; A. ARBO, Carlo Michelstaedter, Pordenone, Studio Tesi, 1996; A. MICHELIS, Carlo Michelstaedter, il coraggio dell’impossibile, Roma, Città Nuova, 1997; L. FURLAN, Carlo Michelstaedter: l’essere straniero di un intellettuale moderno, Trieste, Lint, 1999; M.A. RASCHINI, Michelstaedter, Firenze, Marsilio, 2000; N. CINQUETTI, Michelstaedter, Padova, Il Messaggero, 2002; Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di S. CUMPETA - A. MICHELIS, Udine, Forum, 2002; P. COLOTTI, La persuasione dell’impossibilità. Saggio su Carlo Michelstaedter, Roma, Ferv, 2004; A. ARBO, Michelstaedter, Carlo, in DBI, 74 (2010), 273-277; Carlo Michelstaedter far di se stesso fiamma, Catalogo della mostra (Gorizia, 17 ottobre 2010-27 febbraio 2011), a cura di S. CAMPAILLA, Venezia, Marsilio, 2010; M. GRUSOVIN, L’eccentricità ebraica di Carlo Michelstaedter, «Per la filosofia. Filosofia e insegnamento», 28/82 (2011), 61-71.

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