Nacque a Fagagna (Udine) l’11 novembre 1826 da Domenico e Antonia Madonizza e fu battezzato con il nome di Luigi Mario. Il padre Domenico morì prima della nascita del figlio, che venne educato dallo zio paterno Gabriele, aderente alla Loggia massonica di Udine. Per riconoscenza verso lo zio paterno, cambiò il proprio nome in Gabriele Luigi. Seguì gli studi classici presso il Seminario di Udine, successivamente si laureò in giurisprudenza all’Università di Padova e si specializzò presso l’Università di Vienna. A Vienna ebbe modo di assistere ai moti del 1848 e alla sanguinosa repressione, che lasciò un segno indelebile nella sua personalità e mise le basi della sua fede liberale. Dal 1849 si trasferì a Udine, dove divenne consigliere comunale e prese parte ai moti risorgimentali come membro del Comitato rivoluzionario. Nel 1851 acquistò possedimenti a Fagagna e a San Giorgio della Richinvelda e iniziò a dedicarsi all’agricoltura, ridando vita, con Gherardo Freschi e Pacifico Valussi, all’Associazione agraria friulana, sul cui «Bullettino» pubblicò un altissimo numero di contributi. Dopo l’annessione del Friuli all’Italia, nel 1866, iniziò per P. una fase di intenso impegno politico. Fu dapprima deputato, inizialmente per il collegio di Gemona e poi per quello di Portogruaro e San Donà; rieletto per tre legislature, nel 1876 prese le distanze dalla Destra liberale, alla quale aveva sempre aderito come liberista: non sostenne il governo Minghetti, in quanto giudicava ormai la politica della Destra incapace di rinnovarsi a contatto con la realtà del Paese. ... leggi Abbandonata temporaneamente la scena politica nazionale (il 15 febbraio 1880 fu eletto senatore a vita del Regno), P. si dedicò alla politica locale e nel 1878 venne eletto sindaco della città di Udine. Nei suoi due mandati (1878-1883 e 1899-1900), ma soprattutto nel primo, volle che il comune collaborasse al potenziamento di opere tali da permettere il decollo economico della città insieme con la provincia, secondo un preciso progetto politico di amministrazione del territorio che doveva fare capo a Udine. Seguendo questa linea, il comune intervenne in consorzi intercomunali e provinciali, nella compartecipazione di costruzione di reti ferroviarie, nel potenziamento della rete stradale, nella realizzazione del canale Ledra-Tagliamento. Nella città di Udine P. promosse lo sviluppo economico, edilizio e igienico (per esempio, sistemazione delle chiaviche, piano regolatore del suburbio, studi sull’illuminazione elettrica, costruzione del macello comunale e dello stabilimento balneare), portando a compimento – sotto la guida dell’ingegnere municipale Girolamo Puppati – anche opere già progettate, ma rimaste sulla carta; diede impulso all’istruzione pubblica, giovandosi della sua esperienza per essere stato ispettore scolastico provinciale nel 1866. P. si fece anche portavoce della volontà di ridare alla città di Udine l’uso del colle del castello, divenuto di competenza dell’autorità militare, incaricando nel 1881 il Puppati di stendere il progetto di accesso al colle dal Giardino e stipulando nel 1883 una convenzione con la stessa autorità competente. Morì all’età di settantasei anni nella casa di borgo Paludo a Fagagna il 27 novembre 1902. [C.B.]
Gabriele Luigi Pecile, viticoltore
Fu un profeta, un’avanguardia e un pioniere della viticoltura friulana. Nel 1863, dopo anni di esperienza nelle sue aziende di Fagagna e San Giorgio della Richinvelda, pubblicò sul «Bullettino» della Associazione agraria friulana, di cui era membro e consigliere assai attivo, una serie di contributi aventi per titolo L’iniziamento d’uno studio sulle vigne del Friuli. P. esprimeva con foga e passione quelle che erano le sue idee, suffragate da riscontri pratici nelle regioni vitivinicole europee ch’egli visitò («viaggiando in paesi lontani si ha sempre in cuore la terra dove si è nati»), e dava sfogo a tutta la sua frustrazione («O veramente il sole che riscalda i colli e i piani del Bordelese è differente dal nostro?»). Criticò aspramente il sistema di allevamento a “piantata” con le viti maritate a tutori vivi, e propugnò l’allevamento “basso” e a palo secco, si fece persino ironico sulla promiscuità delle colture («i contadini… che pretendono ad un tempo dallo stesso campo la polenta ed il legno da cuocerla»). Presentò i vantaggi della specializzazione, lo si suppone quasi collerico quando toccò l’argomento “vitigni” che, in Friuli, sarebbero stati troppi e di qualità assai scadente, mentre sarebbero bastate poche varietà di provata affidabilità qualitativa («Quando io se che con quattro, sei, dieci varietà di buoni vitigni posso fare il miglior vino al mondo, a che mi serve tener conto di miriadi di qualità o poco produttive, o che con un gusto disaggradevole [sic!] mi guastano il pregio del vino?»). Egli pagò di persona: condusse prove nelle sue aziende, girò l’Europa e, soprattutto, la Francia, a raccogliere informazioni e ad acquistare talee di viti, dedicò energie a scritti tecnici («carta, olio di lume e quattrini e… molti chilometri in ferrovia») e, soprattutto, propositivi. Non conobbe critiche e polemiche fini a se stesse. Credeva in quello che, tanti anni dopo, sarebbe stato chiamato “progresso”, fondato sull’istruzione, non solo dei ricchi, e, soprattutto, sull’istruzione agraria di cui fu grande propugnatore. Voleva una viticoltura specializzata, basata su poche varietà suscettibili di dare un prodotto commerciabile, in grado di valorizzare quelle colline orientali (Buttrio, il Coglio) che egli riteneva ampiamente sottoutilizzate («da noi ‘ronco’ è sinonimo di miseria: vi si raccoglie d’ordinario poco vino e meno granturco»), ma di una grandissima potenzialità («il sommo pregio delle vigne è appunto quello di dare il massimo dei valori a terreni che non ne hanno»). Egli fece conoscere il Merlot, il Cabernet, i Pinot e, di sguincio, il Tocai («Non si abbia nè fanatismo, nè irragionevole ribrezzo contro le viti straniere; ma i nuovi vitigni si mettano senza prevenzione a paragone coi nostri, tanto per la qualità, che per la quantità di prodotto»). Nello stesso 1863 ottenne quella Mostra d’uve senza la quale poco si saprebbe dell’ampelografia friulana, ma che gli fornì il destro per criticare, e assai aspramente, tanto la pletora di vitigni inutili quanto l’ampelografia fine a se stessa («studi di lusso»). Malgrado l’oidio, quivi approdato nel 1850, gran distruttore di vigne a piantata e di varietà scadenti, favorisse le sue idee (friulanamente pensava «nol è un mâl che nol sei un ben»), dovette passare quasi un secolo perché il suo sogno si avverasse. Non si poteva cambiare repentinamente un sistema colturale e, soprattutto, di rapporti di produzione che era vecchio di secoli. I friulani adottarono il motto che P. voleva applicato alla coltura della vite: “non ci vogliono mezze misure, o far bene o non fare”. E le sue idee trovarono compiutezza solo quando coloni e fittavoli divennero piccoli proprietari. Dopo tante consulenze gratuite a favore di tutti i friulani (184 sono i contributi solo sul «Bullettino dell’Associazione agraria friulana»), chiese unicamente che non gli fosse negato «in vecchiaia qualche buon bicchiere di vino, che Dio mandi in abbondanza al nostro povero Friuli». [E.C.]
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