Figlio di Francesco e di Bianca Dall’Oglio, nacque a Pordenone intorno al 1485. Nel 1447 la famiglia era stata nobilitata dagli Asburgo, signori della città; il padre morì presto e G. venne allevato dal fratello maggiore Antonio, di molti anni più anziano di lui. Studiò nella città natale con Francesco Amalteo e a Venezia alla scuola di umanità di Marcantonio Sabellico; poi frequentò la facoltà giuridica dell’Università di Padova, probabilmente senza laurearsi. Nel 1508 scoppiò la guerra tra l’imperatore Massimiliano I e Venezia; Pordenone venne occupata e il R., insieme con la classe dirigente filo-asburgica della città, prese la via dell’esilio. Un parente acquisito (cognato di sua sorella), monsignor Luca de Renaldis, era un influente consigliere del governo austriaco e certamente fu grazie alle sue raccomandazioni che i fratelli Rorario entrarono al servizio dell’imperatore. Per le missioni che vennero loro affidate viaggiarono molto: Francia, Germania, Napoli (1516), Roma, Spagna. All’inizio del 1519, quando Massimiliano I morì, il R. era a Barcellona, al seguito di Carlo V; il nuovo sovrano lo nominò consigliere e commissario imperiale, titoli che il fratello aveva conseguito in precedenza. All’inizio del 1521 G. R. prese parte alla dieta di Worms; poi si trasferì subito in Austria, dato che il 26 maggio seguente assistette a Linz alle nozze del fratello minore di Carlo V, l’arciduca Ferdinando, con Anna d’Ungheria. La pace di Worms tra l’impero e Venezia prevedeva il rientro dei fuoriusciti nelle località passate sotto una nuova dominazione e la restituzione dei beni loro sequestrati. ... leggi Il R. tornò a Pordenone nell’estate dello stesso anno; subito dopo lasciò il servizio degli Asburgo per impiegarsi nella curia papale, come altri cortigiani austriaci attirati a Roma dall’elezione di Adriano VI, già precettore e consigliere di Carlo V (9 gennaio 1522). Probabilmente in questa occasione entrò nello stato ecclesiastico, prendendo solo gli ordini minori. Sotto Clemente VII il R. divenne segretario del cardinale Lorenzo Campeggi, che accompagnò nella nunziatura di Germania dal 1524 al 1527. Aveva ottime relazioni alla corte dell’arciduca Ferdinando: le autorità veneziane lo consideravano ancora un agente austriaco, tanto che lo facevano spiare nei suoi periodici ritorni a Pordenone. Ormai accumulava parecchi benefici ecclesiastici; nel 1527 fu nominato vicario imperiale nel capitolo d’Aquileia, nel 1528 parroco di Cormons; era titolare di prepositure e canonicati in Austria e nel ducato di Milano, che gli procuravano un buon reddito. Dal 1525 peraltro aveva una relazione fissa a Pordenone con la concittadina Camilla Savina, che gli diede almeno cinque figli. Le rendite ecclesiastiche servivano per abbellire il palazzo di famiglia, la cui decorazione tra il 1530 e il 1535 venne affidata al grande Giovanni Antonio da Pordenone. Alla fine del 1534, pochi mesi dopo l’elezione di Paolo III, il R. ebbe una missione assai difficile presso il principe di Transilvania János Szapolyai, che dopo la battaglia di Mohács (1526) una parte della nobiltà aveva eletto re d’Ungheria, in contrapposizione a Ferdinando d’Asburgo. L’incarico suscitò la reazione del governo di Vienna: quando nell’estate del 1535 il pordenonese passò per la capitale austriaca, dopo aver compiuto la sua missione, rischiò di venire arrestato, tanto più che il papa, mutata la sua politica verso gli Asburgo, gli aveva annullato le credenziali senza nemmeno avvertirlo. Il R. aveva ricevuto da Szapolyai parecchi regali e riconoscimenti, tra i quali un diploma di nobiltà per il pittore Pordenone. Per chiarire la propria posizione, insieme con il cardinale Bernardo Cles, principe-vescovo di Trento, nel marzo 1536 si recò a Napoli dove si trovava Carlo V, al ritorno dall’impresa di Tunisi. A Roma ormai si cominciava a tenerlo in scarsa considerazione; nel 1538 un maldestro tentativo di ricondurre al cattolicesimo Filippo Melantone, il maggior collaboratore di Lutero, rivelatosi un colossale fraintendimento, gli procurò discredito negli ambienti della diplomazia pontificia. Nondimeno nell’estate del 1539 il R. fu incaricato di una nuova missione in Ungheria e Polonia. Avrebbe dovuto proporre a Szapolyai un’alleanza con Ferdinando d’Asburgo in funzione antiturca e rinnovare al vecchio re di Polonia Sigismondo I la stima e la considerazione di Paolo III, consegnando al principe ereditario Sigismondo Augusto la spada e il berretto, regali benedetti dal papa. La seconda parte della missione, portata a termine nella primavera del 1540, fu molto facile. Quella in Ungheria risultò un completo fallimento, perché il R., contro le istruzioni ricevute, difese apertamente gli interessi austriaci: a Roma questo suscitò molta irritazione e così finì la sua carriera nella diplomazia pontificia. Ritiratosi a Pordenone, nel 1545 rinunciò agli ordini inferiori, sposando Camilla Savina. Ciò comportò la perdita dei benefici ecclesiastici e tutta una serie di costosissime suppliche ai diversi uffici della curia romana, nella speranza di salvare almeno qualche rendita: per esempio, il figlio Rutilio, divenuto prete nel 1546, venne proposto come successore del padre nella parrocchia di Cormons. In questi anni R. riprese con vigore l’attività letteraria, che in realtà non aveva mai abbandonato completamente. Negli anni giovanili, dal 1513 al 1520, aveva composto dialoghi latini modellati su quelli greci di Luciano; ce ne sono pervenuti dieci, ricchi di riferimenti agli avvenimenti contemporanei e di spunti anti-veneziani. Probabilmente la polemica politica era ancora più forte in altri dialoghi che l’autore stesso preferì eliminare; tra questi però non va compreso l’Iulius exclusus, circolato anonimo a stampa in molte edizioni, che P. Paschini attribuì al pordenonese (il dialogo è assegnato comunemente a Erasmo da Rotterdam). Le altre opere furono scritte, o almeno rifinite, dopo il 1540, in un breve giro di anni, a cominciare dalla satirica Oratio pro muribus, dedicata al giurista padovano Ottonello Pasini, che fu l’unica opera di R. a essere stampata quando era ancora in vita (Augsburg, 1548). Nel 1543 aveva completato l’Heroica historia, in 21 libri, che mette in buon latino le leggende del ciclo carolingio, ma anche l’Orlando furioso dell’Ariosto. Nel 1543-44 furono composti i due libri Quod animalia bruta saepe ratione utuntur melius homine, dedicati il primo agosto 1544 a Cristoforo Madruzzo, vescovo di Trento e nipote del cardinal Cles, e poi nuovamente il primo marzo 1547 ad Antoine Perrenot de Granvelle, ministro di Carlo V. Questa rimane l’opera più conosciuta di R.: fu ritrovata e pubblicata un secolo più tardi dall’erudito francese Gabriel Naudé (Parigi, 1648) e ristampata in Olanda e Germania nel 1654, 1666, 1702, 1728. L’interesse per lo scritto derivò essenzialmente dalle discussioni post-cartesiane sull’anima degli animali in cui il libro venne utilizzato, mentre l’autore si era ispirato alla tradizione classica (Plutarco, Plinio il Vecchio) e all’esperienza personale di viaggi e incontri. Il R. del resto fu un umanista di stampo più quattrocentesco che cinquecentesco (almeno per l’Italia), legato a modelli ciceroniani, come dimostrano le orazioni latine relative alla sua attività diplomatica (a János Szapolyai, a Ferdinando I, a Sigismondo Augusto di Polonia). Usò l’italiano nella corrispondenza e per gli appunti (brogliaccio intitolato Chroniche di Pordenon, BMCV, Cicogna, 2942), ma non per gli scritti propriamente letterari. Nel Quod animalia bruta inserì un’appassionata difesa del latino, dato che l’uso del volgare per lui era soltanto il chiaro esempio di una stupidità veramente bestiale: «Ci può essere un linguaggio più oscuro di quello di Dante Alighieri e uno più limpido di quello divino di Cicerone?». Degli ultimi anni del R. si conosce molto poco. Il 16 febbraio 1549 a Pordenone, in casa Mantica, fu tra i testimoni della donazione dei beni ai nipoti che il vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, ricercato dall’Inquisizione, fece prima di fuggire dall’Italia: si trattava di un antico collega di nunziatura e non ci sono motivi per supporre che il R. condividesse le sue idee religiose. Morì nel 1556, o sul finire del 1555.
ChiudiBibliografia
G. RORARIO, Oratio pro muribus, Augsburg, Ulhardt, 1548; ID., Quod animalia bruta ratione utantur melius homine, Parigi, Cramoisy, 1648 (= a cura di M. T. MARCIALIS, Lecce, Conte, 2001), (= préf. de J. ÉCOLE, Hildesheim, Olms, 2005); ID., Le opere, I-II, a cura di A. SCALA, Pordenone, Edizioni dell’Accademia S. Marco, 2004.
LIRUTI, Notizie delle vite, II, 245-285; G. KAWERAU, Die Versuche Melanchthon zur katholischen Kirche zurückzuführen, Halle, Verein für Reformationgeschichte, 1902, 38-40, 57-64; P. PASCHINI, Un pordenonese nunzio papale del secolo XVI, «MSF», 30 (1934), 169-216; ID., L’autore del dialogo satirico intorno Giulio II, «Atti dell’Accademia degli Arcadi», n.s., 13-14 (1934-35), 85-98; C. STANGE, G. R. und Julius II, «Zeitschrift für systematische Theologie», 18 (1941), 535-588; A. BENEDETTI, Antonio Rorario, commissario imperiale presso il viceré di Napoli, «MSF», 46 (1965), 165-180; S. CAVAZZA, G. R. e il dialogo “Julius exclusus”, «MSF», 60 (1980), 129-164; M. T. MARCIALIS, Filosofia e psicologia animale: da R. a Leroy, Cagliari, STEF, 1982; S. CAVAZZA, G. R., umanista pordenonese, in Società e cultura del Cinquecento nel Friuli Occidentale. Studi, a cura di A. DEL COL, Pordenone, Edizioni della Provincia, 1984, 331-353; A. SCALA, G. R.: un umanista diplomatico del Cinquecento e i suoi ‘Dialoghi’, Firenze, Olschki, 2004; ID., G. R. scrittore di storia in volgare: gli Annales del codice Cicogna 2942, «Atti dell’Accademia S. Marco di Pordenone», 4-6 (2002-2004), 107-146.
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