SAVORGNAN GIULIO

SAVORGNAN GIULIO (1510 - 1595)

ingegnere militare

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Ritratto di Giulio Savorgnan, olio su tela di Domenico Tintoretto (da L. Casella, I Savorgnan. La famiglia e le opportunità  del potere, Roma, Bulzoni, 2003).

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Le prime costruzioni all'interno della fortezza di Palmanova, particolare da una carta dei territori di Gorizia e Gradisca stampata da Giovanni Giusto, 1617 ca.

Primo degli undici figli che Girolamo Savorgnan ebbe dalla sua quarta moglie Orsina di Girolamo Canal, già vedova di Marcantonio Marcello, G. nacque nel 1510. Trascorse i primi anni della sua vita tra Osoppo, residenza privilegiata della famiglia nella Patria del Friuli, e Venezia dove in alcuni periodi i Savorgnan erano costretti a spostarsi nell’incertezza degli eventi che interessavano il Friuli in quegli anni di guerra tra la Repubblica e gli imperiali. Istruito sotto la guida di illustri precettori domestici, «primi professori di ogni scienza di quel tempo» come sostiene il Liruti, ai quali il padre aveva affidato l’erudizione dei figli, partecipò di una cultura fatta dello studio dei classici latini e greci, come ci informano le lettere di Marcantonio Amalteo, chiamato anch’egli a quel compito. Negli anni dell’adolescenza iniziò quella più ampia formazione militare che richiedeva che l’esperienza delle armi venisse fatta sul campo, al servizio dei maggiori capitani e signori italiani. Mettendo a frutto il legame che i Savorgnan avevano da tempo con i signori di Mantova, nel 1527 Girolamo scrisse a Vincenzo Gonzaga la sua intenzione di mandare G. al suo servizio e ne comunicò contestualmente la sua intenzione al Pien Collegio veneziano, ricevendone approvazione e lodi per la scelta fatta. Presso quella corte il giovane G., inizialmente impiegato come paggio, avrebbe appreso la “bona crianza” anche se il tirocinio che l’anziano condottiero friulano maggiormente ricercava per il figlio era quello della pratica delle armi: «vero è ch’l desiderio mio saria stato che sotto li felicissimi auspitij di Vostra Eccellenza esso Iulio più presto se havesse ecercitato ne le arme che a star li in Corte et iudico chel seria stato più atto a servir Vostra Illustrissima Signoria, si potesse far che landasse ne la Compagnia de sui cavalli legieri, mi saria gratissimo et maxime in questa guerra» scriveva al Gonzaga. ... leggi Affrontate le prime necessarie fasi di apprendimento nelle corti, ma soprattutto sul campo di battaglia, il bagaglio di esperienze maturate da G. avrebbe dovuto essere speso in seguito a vantaggio dei propri castelli e delle proprie terre e al servizio di Venezia. Nel 1528, sul finire della sua vita, Girolamo informava la Repubblica circa i compiti militari che intendeva riservare per i figli, lasciando precise disposizioni circa l’organizzazione della fortezza di Osoppo. G. risultava l’elemento di spicco su cui si appuntavano le speranze di una brillante carriera e a cui il padre lasciava i suoi ordini: «Giulio, tu haverai l’impresa delle guardie et de le fabriche et de le fortificationi di questo monte et osserverai li ordini infrascripti», anche se affiancato dal fratello maggiore Costantino. La carriera di G. tuttavia si costruì ben oltre quella dimensione di stretta territorialità locale che aveva caratterizzato l’operato dei suoi predecessori e lo segnalò come uno dei più autorevoli ingegneri militari, figura di rilievo del ripensamento delle difese dello Stato veneziano seguito alla cruciale sconfitta di Agnadello. Partendo infatti dal tirocinio delle guerre di Lombardia alle quali si trovò al seguito di Paolo Luzzasco, capitano del signore di Mantova e dove nacque quella che si sarebbe rivelata una duratura amicizia con il duca di Urbino, Francesco Maria della Rovere, condottiero di Venezia, si ritagliò un posto di primo piano sia per l’autorità delle sue cariche militari sia per l’importanza delle sue opere fortificatorie. L’esperienza del S. si costruì lungo l’arco di un trentennio in Dalmazia e nelle Terre “da mar” della Repubblica, bisognose di difese sicure contro la minaccia del Turco. Nel 1539 venne mandato al presidio di Cattaro con trecentocinquanta fanti, successivamente venne nominato governatore militare di Zara dove rimase per sei anni fino a quando venne destinato a Corfù con il compito di sovraintendere alle fortificazioni. Fu più volte governatore generale della Dalmazia, organizzò le milizie dalmate nel 1546 e vi ritornò nel 1569. Venne inviato a Creta con l’incarico di rafforzare Candia; nel 1567 fu a Cipro per dirigere la costruzione di Nicosia e per il restauro di Famagosta. Nel 1571 venne chiamato al comando delle milizie del Lido di Venezia, con la carica di Amministratore generale sopra i Lidi, affinché provvedesse a organizzarne la difesa. Nel 1587 fu nominato soprintendente generale delle artiglierie e delle fortezze veneziane, una carica ad personam che non prevedeva un termine di scadenza e che era stata espressamente creata per attagliarsi alle qualità e all’esperienza ormai raggiunta dal S. che, a quel punto della sua carriera, si presentava come una delle più autorevoli e ascoltate figure della difesa dello Stato veneto e univa nella sua biografia professionale competenza tecnica, strategia difensiva e visione politica. In questa veste avrebbe seguito la sistemazione delle piazzeforti della Terraferma veneta: di Verona, del Bergamasco e di Peschiera e, negli ultimi anni della sua vita, della friulana Palma. Nonostante si trovasse sempre più a lungo distante da Venezia, G. non perse infatti mai di vista lo svolgersi dei progetti veneziani riguardanti la difesa del confine orientale e la fortificazione del Friuli. Il problema della salvaguardia dei confini friulani, sia attraverso una più efficace protezione degli stessi, sia attraverso una più sicura fortificazione del territorio, era da anni all’attenzione della Repubblica e il S., anche da lontano, aveva continuato ad occuparsene. In una lettera scritta da Zara nel 1570 e pubblicata sotto il titolo di Discorso circa la difesa del Friuli, G. sottolineava la difficoltà di studiare un sistema difensivo efficace per quella linea di territorio così detta “porta aperta”, soprattutto per ciò che riguardava le invasioni turche. Ad avvalorare la sua tesi c’era il ricordo delle difese opposte «nelle guerre vecchie dal ’500 in là», tutte riuscite inefficaci ad impedire le rapide offese di un nemico che, una volta superata la debole linea fortificatoria, risultava imprendibile poiché, come ricordava, «correr dietro a loro è come pigliare il vento». Ma se da un lato il problema difensivo era legato all’imperativo di fermare le scorrerie dei Turchi, dall’altro si collegava alla necessità di arginare l’espansionismo austriaco, sia nella Terraferma sia nell’Adriatico. Il S. nel 1583 portava ancora una volta all’attenzione della Repubblica l’urgenza, per altro ben nota al governo marciano, di giungere ad una rettificazione del confine con l’Austria grazie alla quale avrebbe potuto essere portato rimedio a tutti quei conflitti e reati che sul confine da tempo si attestavano; avrebbero potuto, in altre parole, «cessare le molestie dei banditi et contaminazione degli animi che avviene nel praticare così intrinsecamente». Egli suggeriva infatti nel 1583, con la sua Lettera sui confini, una definizione della linea di demarcazione più soddisfacente di quella adottata a Worms come condizione imprescindibile di sicurezza delle terre friulane. Dunque una via politica prima che militare che avrebbe dovuto portare a cedere Monfalcone e il territorio a sinistra dell’Isonzo in cambio di Gradisca e di altre ville austriache a destra di quel fiume. Si sarebbe venuti così a definire un confine regolare che seguiva il corso del fiume e che G. riteneva fosse l’unico utile a salvaguardare la sicurezza dei territori veneziani di Terraferma: «Il quarto confine notabile, da la parte di Levante è et dovria essere il fiume del Lisonzo, cioè dal ponte di Gorizia sopra l’Isonzo fino al suo sboccare in mare». Dieci anni più tardi, fallito ogni tentativo di composizione diplomatica, si sarebbe iniziato a fortificare Palma. Già in precedenza il S. aveva suggerito di costruire «una fortezza o forse due o forse più», focalizzando le sue proposte su un territorio ben preciso (Strassoldo o Brazzano), ma le ristrettezze finanziarie in cui versava la Repubblica e l’urgenza di rafforzare la linea difensiva occidentale avevano sempre costituito ostacolo a quei progetti. Tuttavia una commissione di cinque senatori e alcuni tecnici, tra i quali G., venne inviata per localizzare il luogo più favorevole alla fondazione della nuova fortezza. Il 7 ottobre 1593, anniversario della vittoria di Lepanto, viene ricordato come la data dell’inizio dei lavori di quella che per i tempi era indicata come una fortezza esemplare, modello della nuova arte fortificatoria. Per il S. rappresentò l’ultimo progetto: collaborò alla scelta dell’ubicazione, alla progettazione e durante la costruzione ebbe compiti di supervisione del cantiere. Il significato che quest’opera assunse per lui fu ampissimo e traspare dalle sue stesse parole, inviate al Doge nel 1594: «sia pur certa Vostra Serenità che ho posto e ponerò studio in quest’opera di Friuli, non per altro che per dover quella servire al fine della difesa universale, et della mia patria et miei luoghi propri insieme». Un anno più tardi il S. moriva. Non avrebbe avuto il tempo di vedere come la perfezione ideale del suo progetto fortificatorio sarebbe stata via via compromessa da carenze nella realtà organizzativa, da problemi economici e di popolamento, da un difficile inserimento nel tessuto territoriale. Usciva dalla scena dopo aver «di continuo affaticata la vita, consumata la robba et destinati li nipoti al servitio buono di questo Serenissimo dominio», come ricordava in una lettera del primo luglio 1595, avendone tuttavia tratto in cambio una grande autorità personale e un accrescimento del valore politico della famiglia. Gli interessi del suo casato, delle sue proprietà e Osoppo in particolare rimasero infatti sempre al centro della sua attenzione. Nei periodi, più o meno lunghi, che tra un incarico e l’altro trascorreva in Friuli, egli non tralasciò di occuparsi di rappresentare la famiglia nelle incombenze pubbliche o amministrative che rientravano tra i compiti di un feudatario, partecipando alle sedute del parlamento o amministrando la giustizia, come nel 1560, quando condannò a Bertiolo, annessa alla giurisdizione della contea di Belgrado, alcuni carreggiatori per furto di frumento. Tra il 1572 e la nomina a sovrintendente generale, il S. trascorse lunghi periodi nella Patria, facendo di Osoppo un centro dove coltivare gli interessi di studio e sperimentarne le applicazioni costruendo “machine”, ospitando illustri architetti e scienziati del tempo, come Bonaiuto Lorini o Filippo Pigafetta che lasciò un eloquente ricordo del suo soggiorno osovano. Nella dedica indirizzata a G. S. che apre l’edizione in volgare del 1581, curata dallo stesso erudito vicentino, del Mechanicorum Liber di Guidobaldo del Monte, il Pigafetta parla del forte dei Savorgnan come di «una bottega d’arme», di «un magazino di macchine bellicose», ma anche di un luogo dove passavano uomini di cultura e di potere, dove «vanno et vengono signori et principi et ambasciatori […] talché la sua casa viene ad essere un ridotto di persone virtuose et un albergo di soldati, et di dottori». G. infatti aveva in quegli anni fatto di Osoppo il centro dove coltivare l’esercizio delle arti militari ma anche i dettami della vita cavalleresca («si armeggia, si va alla caccia, et in ogni attione si esercita vita cavalleresca» scriveva sempre Pigafetta) e dove intrattenere discussioni scientifiche. Le stesse che inducevano il S. a frequentare assiduamente a Venezia lo studio e la biblioteca di Giacomo Contarini, uno dei ridotti culturali privati più rilevanti per la statura scientifica dei personaggi che lo frequentavano, per le discussioni che vi si intessevano, particolarmente per il dibattito tecnico scientifico – imperniato sulla matematica, sull’arte ossidionale, sulla tecnica militare – che costituiva sfondo indispensabile alla nuova politica difensiva dello stato. Cultura scientifica e politica erano in stretta sinergia: il Contarini era deputato alla guardia e fortificazione del Lido quando il S. venne chiamato nel 1571 quale amministratore militare e nel 1574 era deputato agli allestimenti per la venuta di Enrico III re di Francia, quando il corpo di trecento cavalli e cinquemila fanti che era stato mandato in Friuli ad omaggiarlo risulta essere stato guidato dallo stesso S. Nel 1573 G., a nome di tutta la fraterna, ottenne definitivamente l’investitura anche del castello di Ariis. Intorno a questa importante giurisdizione feudale nel 1560 si era aperta una vertenza tra i figli di Girolamo e la discendenza di un fratello di questo che in quell’anno si venne a trovare senza eredi maschi. Ariis tornava quindi nel possesso del ramo principale dei Savorgnan del Monte dopo circa sessant’anni, da quando Girolamo Savorgnan aveva ceduto quel feudo e castello che erano stati tanto importanti per le sorti della dominazione veneziana in Friuli nel primo Quattrocento, per ottenerne in cambio il completo controllo di un’altra fortezza, ancora importante per la difesa come per il transito di uomini e di merci, quella di Osoppo, cuore ideale dell’immagine militare del casato oltre che luogo strategico della Patria. Se, infatti, G., come anche il fratello Mario, si sarebbero premurati di continuare l’opera del padre rafforzando il prestigio della casa nell’esercizio delle armi, nell’assolvimento di compiti importanti nella difesa dello stato, è desumibile che, nonostante gli impegnativi incarichi professionali e la lontananza cui questi lo costringevano o i lunghi periodi di residenza a Venezia, G. rimase comunque riferimento principale per la vita e gli interessi della sua famiglia. Da memorie e disposizioni che lasciò e dalla corrispondenza che scambiò con alcuni familiari sappiamo che si occupò ad esempio di intervenire nella severa ripartizione di ruoli e compiti per la loro discendenza o di rispettare le disposizioni circa la dote delle sorelle, non senza dimenticare di applicarsi ad un’importante opera di scavo, recupero e costruzione di memoria familiare. Il compito cui l’illustre ingegnere militare attese con maggiore impegno, di ritorno da Corfù, Zara e Spalato, nel periodo che trascorse ad Osoppo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, fu quello di consolidare la memoria della casa per tramandarla, riunendo le carte private e familiari, ma anche le copie delle pubbliche scritture che la riguardavano. In una lettera indirizzata a Francesco Michiel, raccontò infatti di star raccogliendo scritture e documenti per ricostruire la storia della famiglia, e di questo compito disse di occuparsi anche Orazio Governa, capitano fedelissimo al suo servizio per quarant’anni, che scriveva a Germanico, nipote di G., di essere stato incaricato dal S. di raccogliere tutto il materiale documentario che lo riguardava. Nel testamento che porta la data del 25 maggio 1595, G. affidava a lui tutti i disegni di fortezze perché li lasciasse a quello tra i suoi nipoti che avrebbe servito Venezia e che si fosse «dilett[ato] di fortificazioni»; istituiva eredi universali Mario e Marcantonio, figli del fratello Marcantonio, secondo un asse di trasmissione fidecommissaria; ad essi affidava anche le «scritture della Casa», i ritratti e «tutte le mie arme». Morì a Venezia alla fine del mese di luglio del 1595; la sua bara venne portata in corteo con tutti gli onori e nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo ne venne fatto glorioso ricordo. La sua salma venne però sepolta in seguito nel forte di Osoppo, in quella tomba che lui stesso si era predisposto. Aveva scritto infatti, con spirito pratico e previdente, nel 1577 a Varmilio di Varmo: «Ho finito la mia sepoltura per non dar spesa ai miei fratelli né fastidio ai miei nepoti».

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Bibliografia

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