SCHIFF GIOVANNI

SCHIFF GIOVANNI (1872 - 1947)

ecclesiastico, poeta

Immagine del soggetto

Monsignor Giovanni Schiff (pre Zaneto).

Nacque a Porpetto (Udine) il 17 gennaio 1872, primo di quattro figli, e in giovane età si trasferì a Malisana, dove il padre lavorava come gastaldo in una tenuta. Compiuti gli studi presso il Seminario di Udine, venne ordinato sacerdote nel 1896; esercitò il ministero a Virco fino al 1909, in seguito a Malisana, e infine, dal 20 agosto 1911, a Percoto. In quest’ultimo paese, durante il primo conflitto mondiale, diresse la scuola comunale abbandonata dalle «patentate vecchie maestre» e nell’immediato dopoguerra, oltre a un più innocuo circolo filodrammatico, costituì una lega bianca di contadini e una cooperativa di consumo. Le pagine del libro storico danno conto di un sostegno caloroso e non paternalistico alle iniziative di affittuari e mezzadri (lavoratori «attaccati alla loro organizzazione, e instancabili nella marcia ascensionale verso il raggiungimento dei loro diritti»), non soltanto in ragione delle loro aspirazioni ideali e della ricerca della giustizia, ma anche per l’intento sociale e l’aperto schierarsi contro quei notabili e proprietari terrieri che, per converso, non avrebbero mancato di ostacolare l’operato del sacerdote. In ambito ecclesiale la sua presenza acutamente critica si fece sentire nei controversi anni conclusivi dell’episcopato di mons. Antonio Anastasio Rossi. Nel 1927, in un memoriale alla Segreteria di stato, controfirmato dai parroci di Santo Stefano Udinese e di Trivignano, S. muoveva una sferzante accusa, articolata in numerosi punti, nei confronti dell’operato del presule e del vicario generale dell’arcidiocesi, contestandone in particolare la mancanza di impegno nei confronti dell’Azione cattolica. ... leggi A causa della sua gravità, la denuncia venne menzionata, ma parzialmente smentita, anche nella relazione redatta dal visitatore apostolico mons. Longhin per la sacra Congregazione concistoriale. Nuove manifestazioni di dissenso, ma stavolta nei confronti dell’autorità politica, si osservano nel profluvio di versi friulani che comparvero sui settimanali cattolici «Il piccolo crociato», «La nostra bandiera», «Bandiera bianca», «La Vita Cattolica», ai quali S. iniziò a collaborare firmandosi per lo più con lo pseudonimo ipocoristico di “Zaneto”. Le prime prove poetiche in friulano risalivano probabilmente alla fine del precedente secolo, ma furono le nuove collaborazioni a procurargli un successo ampio e immediato, tanto che già nel 1929 gli venne offerta una penna d’oro a titolo di riconoscenza da parte del comitato della stampa cattolica e del settimanale diocesano, a motivo della «attiva, continuata, luminosa opera di bene da lui svolta con le sue belle e fresche poesie» e «per la formazione morale ed intellettuale del popolo». Una diffusione felice, dunque, complici una lingua vicina al parlato (anche nelle sue presunte impurità), una scelta di rime efficaci per la memorizzazione, una metrica semplice seppure vincolata, forse, a esigenze tipografiche («Ecco duncie il gno programe: / Gran misture in viars minôrs, / chè i viars luncs e fasin piardi / la pazienze ai stampadôrs; / sbrissin fûr da la colone / e Toscan linotipist / al devente serio e trist, / se son plui di siet vot pîs», 9 gennaio 1927 [Ecco dunque il mio programma: grande mistura in versi minori, perché i versi lunghi fanno perdere la pazienza ai stampatori; scivolano fuori dalla colonna e il linotipista Toscano diventa serio e cattivo, se sono più di sette-otto piedi]), alcuni temi cari all’oratoria moralistica dell’epoca (il ballo, la moda procace, il malcostume), in un orizzonte serenamente conservatore che si appaga della vita contadina. Il filone politico-sociale è più consistente negli anni Venti, quando tocca anche apici di polemica esplicita: I nestris salvatôrs [I nostri salvatori] (sui politici friulani, 15 maggio 1921), Ai disertôrs [Ai disertori] (contro i contadini che non aderiscono alle leghe, e «che uè no si vergògnin / di molà jà i bragôns / denànt i lôr parôns» [che oggi non si vergognano di calare le brache davanti ai loro padroni], 26 marzo 1922), Austriacants i predis? [Austriacanti i preti?] (sulle critiche all’operato dei sacerdoti nel corso della prima guerra, 4 marzo 1923), Il partit popolar [Il partito popolare] (dove, dopo un prudente plauso a Mussolini, si ribadisce il programma popolare e si mette in guardia dal pericolo massonico, 8 aprile 1923), Si foròpin: no si còpin! [Si sforacchiano: non si ammazzano] (contro la violenza; traducendolo, cita Rousseau in merito al duello: «Sintit, sintit, cumò / sior Jacumin Russò» [Sentite, sentite ora il signor Giacomino Russò], 20 maggio 1923), Bez e bombis [Soldi e bombe] (contro la cultura dell’odio politico propagandata dal fascismo anche attraverso la scuola e le maestre, 3 giugno 1923). Corrosive appaiono anche altre polemiche, come quella antinobiliare, che prende di mira le contesse udinesi ma anche il servilismo dei coloni; o quella antimeridionale, invero più greve, che abbozza caricature di arroganti gregari del regime: appuntati e brigadieri, impiegati e funzionari, e innumerevoli maestre (ma anche predicatori). Se si prescinde dall’ostinato impiego del friulano, poi scelto in aperta insubordinazione alla politica linguistica del fascismo, nel tempo le divergenze si fanno via via più latenti, stemperandosi in ironie che percorrono le strade di paese, danno corpo ai vizi capitali in tipi fissi (l’avaro, l’ubriaco, l’ingordo), ne stigmatizzano con sagacia le intemperanze. Il programma del 1927 manifesta intenzioni più riguardose («Lassarai simpri di bande / la pulitiche e i partîts» [Lascerò sempre da parte la politica e i partiti], 9 gennaio 1927), ma nello stesso anno in alcuni versi sulle donne moderne si fa strada, al di là degli spunti misogini, una nuova offensiva al fascismo: «Il fezz, ciamese nere, / i pîs su lis stivelis, / la cotuline curte / sfodrade di curdelis. / La muse di spirtadis, / il pass di bersalgîr, / che plui di cualchi volte / ur fâs manciâ il rispîr. // Il fa di me ne frego / la crude cialadure / il metisi in corteo / ur fas cambia nature. / Lis feminis se s’ciampin / dal lor ambiènt tranquîl / van a finì cul piardi / il non di sess gentîl» [Il fezzo, camicia nera, i piedi negli stivaletti, la gonnina corta foderata di cordicelle. La faccia da spiritate, il passo da bersagliere, che più di qualche volta fa mancare il respiro. Il fare da ‘me ne frego’, lo sguardo crudo, il mettersi in corteo fa cambiar loro natura. Le donne fuggono dal loro ambiente tranquillo, vanno a finirla col perdere il nome di sesso gentile] (Sul lavadôr [Al lavatoio], 18 settembre 1927). Pur divenendo più bonaria, la satira di Zaneto rimase sufficientemente fastidiosa da far intervenire la censura delle autorità: venne dunque costretto dal regime all’italiano, da lui abilmente e sistematicamente adulterato con mescolanze venete e interferenze friulane (ma già nel 1921, con La lenghe di Zorùt [La lingua di Zorutti], aveva stigmatizzato la mania di parlare italiano: «Conosci, cara Mènia, / quel bravo caporalo / che tempo fa mi dava / un splendido grumalo?» [Conosci, cara Mènia, quel bravo caporale che tempo fa mi dava uno splendido grembiule?]; e ancora: «Iò cuanche mi fevelin / di stizzi, di fersora, / d’asèo, di radiçho, / di drento e di fora; // di basi e bastonàe / di tosi e di putèi / mi salte su la fote / e ur darès jù un bon mèi» [A me monta la rabbia e gliene direi quattro quando mi parlano di “stizzi”, di “fersora”, d’“aseo”, di “radiçho”, di “drento” e di “fora”, di “basi” e “bastonàe”, di “tosi” e di “putèi”], 13 novembre 1921). Tuttavia resiste imperterrito, e tra gli ultimi, nella pratica della predicazione in lingua locale, dopo essersi concesso anche di biasimare i confratelli che cedono («Ma, siors plevans, di grazie, / no sino duc’ furlans? parcè tant toscanàiso / cui vuestris parochiàns?» [Ma, signori parroci, di grazia, non siamo tutti friulani? perché toscanate tanto con i vostri parrocchiani?]). Dopo il 25 luglio 1943 riprese a scrivere sulle pagine del settimanale diocesano: «Cadono troni e regni / iò pur soi stât colât, / ma in chest moment mi drezi / libar di tirà flât. // Il ‘fermo’ a la me musse / lu à dât il prefet ‘Teste’ / che o crôt pur lui che al vevi / romài sbasât la creste» [Cadono troni e regni, pure io ero caduto, ma in questo momento mi rialzo, libero di respirare. Il “fermo” alla mia asina lo ha dato il prefetto “Teste” che credo abbia pure lui ormai abbassato la cresta]. S. morì a Percoto il 4 luglio 1947, poco dopo essere stato insignito del titolo di cappellano di Sua Santità (agosto 1946) e aver enceniato le insegne di monsignore. L’immediatezza e la scioltezza dei suoi versi ne comportano l’esclusione dalle principali antologie. Naturalmente Chiurlo lo tralascia con sicurezza dalla propria, definendolo «il più facile verseggiatore friulano» dopo Zorutti, ma segnalando che egli, «tutto preso dalla polemica morale-religiosa, s’è dimenticato affatto della poesia». Mancano peraltro studi complessivi, mentre la sbrigativa antologia ufficiale, ripetutamente edita, copre un arco temporale limitato, escludendo numerosi testi degni di interesse sotto il profilo storico e documentario.

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Bibliografia

G. SCHIFF, Poesiis di Zaneto, Udine, AGF, 19863.

DBF, 731-732; CHIURLO, Antologia, XIII; Mezzo secolo di cultura, 250; PELLEGRINI, Tra lingua e letteratura, 222, 289; E. ELLERO, Mons. Giuseppe Nogara, arcivescovo di Udine, durante il pontificato di Pio XII. Ipotesi storiografiche, «Storia contemporanea in Friuli», 23 (1993), 91; ID., S. E. Mons. Anastasio Rossi arcivescovo di Udine dal 1919 al 1927. Ipotesi storiografiche, ibid., 26 (1996), 39, 67-68; R. MELCHIOR, Giuseppe Driulini, «M&R», n.s., 18/1 (1999), 166-169; PELLEGRINI, Ancora tra lingua e letteratura, 389; L. FERRARI, La Chiesa friulana tra dopoguerra e fascismo, in Friuli. Storia e società IV, 267.

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