Nacque alla fine del secolo XIV, forse nel 1395 o nel 1396, da Valentino III de’ Valentini, abitante in Mercato Vecchio di Udine, e da Elisabetta di Maniago. La data di nascita si calcola a ritroso, dal giorno della morte, avvenuta il 23 aprile 1458, in Udine, a un’età che i biografi antichi dicono di sessantadue anni. E. ebbe numerosi fratelli e sorelle, poiché Elisabetta era la terza moglie di Valentino, del quale si conoscono sei figli maschi e cinque femmine. Le informazioni più copiose, sebbene non sempre sicure, sulla vita della beata si traggono dalle leggende agiografiche, scritte nei mesi e negli anni susseguenti alla morte. Non mancano tuttavia tracce di lei e della sua famiglia in alcuni documenti d’archivio: testamenti o altre carte relative a transazioni economiche. In un anno non precisabile con certezza, ma da collocarsi nel secondo decennio del Quattrocento, E. sposò Antonio Cavalcanti, un mercante di panni, rampollo di una famiglia fiorentina stabilitasi a Udine nella seconda metà del Trecento. Dal matrimonio nacquero almeno sei figli: tre femmine, Elisabetta, Caterina e Allegrina o Lirina, e tre maschi, Antonino, Speranzio e Carlo. Quest’ultimo era verosimilmente il figlio maschio maggiore e comunque divenne il membro più ragguardevole della famiglia dopo la morte del padre avvenuta nel settembre del 1441, e il ritiro a vita religiosa della madre, da collocarsi attorno al 1452, dopo un decennio di “regimen domus”, durante il quale stipulò anche contratti di collaborazione commerciale e artigianale, specialmente nel settore della pellicceria, con altri Udinesi. La data, 1452, si evince dalla documentazione notarile, ma corrisponde anche ad alcune allusioni della letteratura agiografica. È solo a partire da tale anno, infatti, che E. viene menzionata dai notai come terziaria, o mantellata, dell’ordine eremitano di S. Agostino. ... leggi Il terzo ordine fu propagandato in quei decenni dai frati di molti ordini mendicanti, specialmente tramite la predicazione ma anche attraverso rapporti personali più capillari e sotterranei, per fornire risposte organizzative alle vocazioni devozionali laiche e soprattutto femminili. Fu successivamente citata sempre come terziaria nelle carte notarili di cui fu attrice. Secondo una verosimile tradizione agiografica, ella fu la prima a indossare l’abito dei terziari agostiniani in Udine, e come “fondatrice” è ricordata in una sorta di cronotassi delle terziarie inclusa in un manoscritto, ora alla Biblioteca Apostolica Vaticana, che tramanda la sua leggenda agiografica. Ella fu sollecitata a divenire mantellata dalla predicazione di frate Angelo da San Severino, maestro teologo, e da quel momento parve imboccare con assiduità un cammino di perfezione imperniato sulla penitenza e sull’ascesi, nutrito di letture spirituali in lingua volgare (sicuramente E. possedeva libri, e fra le sue letture si citano Domenico Cavalca e Ugo Panciera) e di devozione eucaristica e confortato dal vincolo prevalente, sebbene non esclusivo, con i frati eremitani del convento di S. Lucia di Udine. Non si deve escludere che E. abbia precocemente mostrato propensioni alla vita di penitenza e di preghiera, come potrebbe tradire la decisione, confermata da documenti notarili, di compiere il pellegrinaggio a Roma per il giubileo del 1450. Tuttavia gli agiografi ripercorsero e reinterpretarono anche i decenni precedenti alla luce degli ultimi sei anni di vita da terziaria, obliterando gli aspetti più esplicitamente connessi con la commistione secolare e accentuando i toni di una vocazione e una “conversatio” di ispirazione monastica, che E. nella realtà non pare aver mai vissuto nei termini descritti secondo i tradizionali stilemi agiografici (disprezzo del mondo, segregazione, rispetto assoluto dei voti solenni di povertà, castità, obbedienza…), né la quattrocentesca regola delle terziarie udinesi di per sé imponeva. Dunque, è necessario guardare a lei in modo complesso, da una parte raccogliendo gli sparsi dati che la documentazione d’archivio presenta, dall’altra osservando la sua figura tramite le lenti degli agiografi, ben sapendo quanto esse siano capaci di deformare i lineamenti di un individuo, ma valutandone nel contempo l’intrinseco significato storico, di per sé corrispondente a un contesto in cui precise esigenze spirituali, nutrite pure di letteratura agiografica assunta direttamente o indirettamente, si tramutavano spesso in atteggiamenti realmente vissuti ed esperiti. Gli agiografi che ne scrissero nel corso del secolo XV sono ben quattro: Simone da Roma, Giacomo da Udine, Giacomo Filippo Foresti da Bergamo (1434-1520) e Giovanni Garzoni da Bologna (1419-1505). Simone da Roma e Giacomo Filippo Foresti appartenevano all’ordine eremitano, Giacomo da Udine era un canonico di Aquileia, Giovanni Garzoni univa alla sua professione di medico spiccate propensioni letterarie, alimentate da solide amicizie con i frati predicatori ed eremitani di Bologna. Tutti e quattro questi personaggi rappresentano, con diversa sensibilità e capacità di scrittura, una declinazione della letteratura umanistica, quella agiografico/devota, forse meno originale e nota di altre nella storia letteraria, ma vigorosa e fortunata nella propria epoca storica. Già il numero degli agiografi, sebbene legati fra loro da dipendenze abbastanza facilmente determinabili, deve far riflettere sul successo quattrocentesco del culto per E. Ma conviene andare per ordine. Simone da Roma scrisse la sua biografia nei mesi immediatamente a ridosso della morte di E., nel vivo della “devotio” suscitata sapientemente dai frati e dell’emozione alimentata dal susseguirsi di episodi miracolosi, registrati da notai e annotati in un libello cartaceo, ora andato perduto. Al di là del contenuto, la Vita redatta da Simone si caratterizza per due elementi: in primo luogo, la scelta del volgare, un medium idoneo a comunicare con un pubblico più largo rispetto a quello dei “litterati” (istruiti nel latino) e abbordabile da un crescente numero di laici capaci di leggere, e, in seconda istanza, la certificazione notarile dell’autenticità delle notizie raccolte e raccontate. Non si tratta di scelte scontate. La produzione agiografica si attestava ancora su un massiccio uso del latino e l’intervento del notaio, pur ormai abituale nelle pratiche di riconoscimento giuridico della santità, svela una preoccupazione direi quasi “storica” nei confronti del racconto, che voleva essere al contempo la testimonianza di una vicenda individuale, ma anche esortativo ed edificante, e poteva essere tale solo se autentico e veritiero. Il notaio era la figura giuridico-professionale e sociale capace di garantire agli occhi di fedeli esigenti i crismi dell’autenticità e genuinità. Ovviamente l’interpretazione di quella verace esperienza di vita era declinata in chiave consona alle visioni e aspirazioni dell’ordine eremitano. Sicché i modelli agiografici di riferimento espliciti, oltre alla Vergine Maria e al Cristo sofferente, sono sant’Agostino, santa Monica, san Nicola da Tolentino. Di sant’Agostino E. interpreta la conversione adulta verso il rifiuto delle mollezze della mondanità; di santa Monica veste l’abito e riproduce il profilo di una donna, madre e vedova, ma capace di ascendere alle vette della santità; con san Nicola da Tolentino (canonizzato nel 1446) si salda il legame della “fidelitas” eremitana all’eredità del santo vescovo di Ippona. Simone da Roma costruisce la sua leggenda in quindici capitoli. Il primo è dedicato alla nobiltà della progenie di E., il secondo alla conversione. Seguono, in altrettanti capitoli, le virtù e i comportamenti devoti: carità, penitenza, astinenza, preghiera, devozione eucaristica, povertà, rispetto del silenzio e dell’obbedienza. Vengono poi descritte le tentazioni perpetrate dal demonio, la pazienza della pia donna, le dieci visioni con cui Dio la gratificò, i cinque miracoli operati in vita, la descrizione del decesso e, infine, quella delle sue esequie funebri, con i relativi prodigi e guarigioni. L’articolazione della leggenda agiografica scritta da Simone descrive una santità possibile, imitabile, quotidiana, alla portata di un elevato numero di persone, di donne, che si trovavano nelle stesse condizioni sociali della beata, rese talora precarie dalla solitudine o dalla vedovanza. I passaggi nodali erano due: la presa di coscienza della propria condizione di peccato e la conversione a una vita regolata dall’influsso di un ordine religioso, tramite l’adesione alla “tertia militia”. Non tutte, ovviamente, potevano sperare di mostrare l’eroismo virtuoso di E., non tutte potevano aspirare alle prove e alle consolazioni incontrate dalla beata, ma a tutte era offerta la possibilità concreta di una ragionevole e moderata via per giungere alla salvezza; una onorevole e “tranquilla” condizione sociale in equilibrio tra la vita dei laici e quella dei religiosi. E. rappresenta questa soluzione; e per tutto il secolo XV ella impersonò tale modello di santità nel contesto dell’ordine eremitano di sant’Agostino. Il che spiega il successo della sua agiografia e la reiterata scrittura in forme latine progressivamente più ornate e stilisticamente raffinate. C’è da interrogarsi sul grado di consapevolezza che E. potesse avere di questo ruolo. Una singolare disposizione notarile, redatta circa un anno prima della morte, con la quale ella si limitava a confermare la volontà di essere sepolta nella chiesa degli Eremitani forse tradisce sia la coscienza di vivere un’esperienza eccezionale, sia il legame peculiare con i frati di S. Lucia. La seconda delle agiografie di E., quella del canonico aquileiese Giacomo da Udine, è redatta in latino, sebbene conservi numerosi inserti in volgare. Essa è dedicata al pontefice Paolo II (1464-71). La fonte principale di Giacomo resta la Vita di Simone da Roma, le cui notizie sono inserite in una farragine di citazioni di autori, che vanno dai classici, ai padri della chiesa, a poeti più recenti, come Dante e Petrarca. Giacomo intende, da una parte, scrivere un’opera letteraria degna di un papa, dall’altra, egli pare interessato a promuovere un culto cittadino/civico, che tornasse a lode del figlio di E., quel Carlo Cavalcanti, che ormai era il custode della memoria della madre e promotore del suo culto anche tramite la committenza di affreschi (ora scomparsi), che ne dovevano illustrare la vita e i miracoli all’interno della sua cappella funebre, nella chiesa di S. Lucia. I lineamenti della santa terziaria agostiniana furono ripresi e sottolineati dai due agiografi successivi. Giacomo Filippo Foresti pubblicò nel 1497 la vita di E. nel contesto di una più vasta raccolta di biografie di figure femminili illustri (De pluribus claris selectisque mulieribus) e la leggenda di Giovanni Garzoni è immediatamente successiva, come traduzione latina di una versione volgare allestita da Giovanni Paci, priore degli Eremitani bolognesi. In entrambi i casi la fonte primaria resta Simone da Roma. Dopo la fiammata di fine secolo XV, la fortuna di E. sembra declinare all’interno dell’ordine, eclissata nel corso del Cinque-Seicento dall’ascesa di Rita da Cascia. A Udine il centro della devozione rimase il convento di S. Lucia, dove venivano celebrate le festività anniversarie e il culto di E. era parzialmente associato a quello di santa Lucia. Non mancarono periodici tentativi per ravvivare l’attenzione degli Udinesi per la beata, accompagnati spesso da edizioni della sua biografia, come quelle pubblicate da Giovanni Battista Sertorio nel 1599 e da Paolo Carlo Soardi nel 1677. Nel 1675 i Valentinis finanziarono il rifacimento della cappella, assumendone la cura a carico della famiglia. Fra il 1764 e il 1768 fu perfezionata la beatificazione equipollente della beata E., ma i frati eremitani dovettero abbandonare il convento di S. Lucia nel 1772, in seguito alle soppressioni decretate dalle autorità venete. Il corpo rimase nella chiesa di S. Lucia fino al 1806, quando, a causa di ulteriori soppressioni e confische, fu trasferito prima presso le clarisse e poi, nel 1845, nel duomo, dove si trova tuttora, in una cappella laterale della navata sinistra.
ChiudiBibliografia
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