«Ne l’an nonantedòi / Mi àn fabricàd in doi. / Soi nassùd a Lonzàn / In çhase di Frisacc, / E stad a scuèle là del capelàn…» [Nell’anno novantadue / mi hanno fabbricato in due. / Sono nato a Lonzano / in casa di Frisacco, / e sono stato a scuola dal cappellano…]: così lo stacco della luna nuova di dicembre del 1842, Ècomi [Eccomi], che nel travaso in volume diventerà La me’ biografie [La mia biografia]. Z. nacque a Lonzano di Nebola, nel comune di Dolegna del Collio (Gorizia), il 27 dicembre 1792 da Ettore e da Giacinta Bonini. La famiglia era però radicata a Cividale, alla cui nobiltà era stata iscritta nel 1737, nobiltà confermata dal governo austriaco nel 1829. L’incremento del patrimonio era dovuto a Gio. Pietro, nonno del poeta. Sarà il padre Ettore, mai ricordato dal figlio nei suoi versi, a determinarne la rovina: nel 1814 anche la proprietà di Lonzano, cospicua di terreni e fabbricati, sarà alienata. Nel ramo paterno si osserva una vena di «sangue anomalo e inquieto» (Chiurlo), al quale allude ancora, con una civetteria che scattivisce e rimuove, La me’ biografie. Il curriculum scolastico, avviato a Lonzano, ha una seconda tappa a Cividale: il collegio dei padri somaschi (dal 1801 al 1808), che nella memoria sedimenterà solo per la severità dei metodi. Uno studio indolente, e non più solerti saranno i due anni di liceo a Udine, nel precipitare delle risorse della famiglia e nella precarietà del frangente storico. Il 19 ottobre 1810 Z. fu accolto come “alunno” presso la pretura del Passariano, dal dicembre 1912 al maggio successivo fu tra i veliti (la milizia italiana, con compiti di fanteria leggera, creata da Napoleone nel 1805) del Regno italico a Venezia e a Milano. Ma le istanze e la caparbietà della madre riuscirono a liberarlo dal servizio. ... leggi Nel 1814 Z. si impiegò presso l’Intendenza di Udine: un lavoro che si protrasse fino al 1854, non senza progressi di carriera. Del 1817 è il matrimonio con Lucia Campanili, oriunda di Cordovado (e del 1817 è la morte del padre). Nel 1817, l’anno della fame (ma con un raccolto che avviò la ripresa), la madre, ceduta la casa di Cividale, si trasferì a Udine in borgo Villalta, nella contrada dello Spagnolo, ricompattando l’unità della famiglia. Del 1818 è la nascita del figlio Ettore, che studierà medicina a Padova e a Vienna, per esercitare la professione, dal 1848, a Venezia, sposandosi con una popolana diciottenne all’insaputa del padre. Nel 1843 morì la madre e lo scorcio estremo fu tramato da lutti ravvicinati: il figlio Ettore nel 1861 (con il carico della vedova e dei quattro orfani ai quali provvedere), nel 1866 la sorella Carolina (un silenzioso sostegno intellettuale) e la moglie. Una parabola nella morsa delle sofferenze e del bisogno. A distanza di pochi mesi, il 23 febbraio 1867, l’apoplessia colpì anche il poeta. Funerali spogli, una città distratta, assorbita (e lacerata) da altre cure: premeva la visita di Garibaldi, premevano le elezioni politiche. Il motivo del disagio economico filtra, palpabile e corposo, nelle lettere. Specie nelle lettere indirizzate alla fabbriceria di S. Maria in Corte di Cividale, alla quale Z. doveva un (peraltro modesto) livello annuale, in uno stillicidio di richieste di dilazione: «Avrei fatto il saldo del conto vecchio, ma la scorsa settimana il Natisone mi arrecò un danno sensibilissimo in una piantagione…» (2 maggio 1833), «Mia madre, dopo una malattia di nove mesi, da due giorni è agonizzante, e forse non giungerà a sera prima di lasciare la vita…» (8 giugno 1843), «un disastro imprevedibile e fatalissimo per la mia povera famiglia mi obbligò per forza maggiore a mancare di parola…» (23 febbraio 1861: è la morte del figlio), «Per carità mi conceda ancora un poco di respiro. Sono in procinto di assumere una impresa che mi darà frutto…» (febbraio 1863). Non è lecito dubitare della oggettiva verità di questi strazi, anche se il carattere dell’uomo sa farsi querimonioso. Ma si osservi, nella sostanziale contiguità, uno stralcio maccheronico del 18 aprile 1863: «Ego sum nimis ingredeatus, quoniam annata sporcas. Nichil de vino, nichil de galetas, nichil de un cadium. Quid facere possimus? Ergo ego feci fotografare immaginem meam jam tempestatam de rugas, spisulonosque asendentes et desententes. Domine, ecce imaginem meam ‘Monstruum horrendum, ingens, farftucterumque’. Duas checas valet et est pocus…» [Io mi trovo in grande difficoltà, perché l’annata è magra. Niente vino, niente bozzoli, niente di un cacchio. – Che fare? Io dunque ho fatto ritrarre la mia immagine già tempestata dalle rughe, e rivoli ascendenti e discendenti. Signore, ecco la mia immagine “Mostro orrendo, grande e spaventoso”. Vale due lire ed è poco…]. Sono enormi le distanze dall’esito più alto che il maccheronico abbia avuto in Italia: il Baldus di Folengo, nel quale i dialetti settentrionali reagiscono variamente, ma non senza la disciplina di regole riconoscibili, con il latino dei classici. L’impasto di Z. è più dimesso: gli ingredienti dialettali sono a contatto con il latino della Chiesa, in una atmosfera che non dimentica la sacrestia. Z. non si sottrae alla possibilità di fare commercio della propria figura, coinvolgendo gli amici nella operazione. Sono palpabili l’affanno, il gesto inceppato nei giorni che si accavallano grevi, ma allo specchio penoso fa argine il risarcimento della scrittura: la tonalità burlesca è a suo modo un riscatto, a fronte di una angustia che non manca di darsi in piena luce. Una personalità divaricata quella di Z., polare nelle sue manifestazioni, nel suo essere. Un contrasto colto bene da Camillo Giussani, giornalista sanguigno e aggressivo, nel quadro folto (e sconcertante per il capriccioso ricorso a pseudonimi che coprono le fisionomie reali: il poeta si trasforma in Porutti): una apertura a forbice tra l’uomo e il personaggio che si imprime nei versi. La Udine del tempo conservava larghe tracce rurali («si vedevano ancora alla sera rientrare buoi, carri ed aratri che avevano lavorato nella campagna oltre le mura»: Giussani) e rispettava ritmi costanti, rituali monocordi, in una appagata ciclicità, con le stagioni a iterarsi senza scarti e senza magie, dove solo il «mutamento di un numero arabico nell’Astrologo di Piero Porutti segnava il principio dell’anno nuovo» (Giussani). Una sonnolenza che subisce uno strappo con i moti del 1848. E qui importa la reazione di Z.: non per l’esercizio metrico («Vive l’amòr di patrie! / Vive la libertàd!…») procurato nella congiuntura (lo bilancia nel 1858 Il bon pari [Il buon padre], un sonetto gracile e in ultima istanza anonimo, destinato a un volume sontuoso dei padri mechitaristi di Vienna, Das Kaiser. Album Viribus Unitis, dopo un fallito attentato all’imperatore Francesco Giuseppe), ma per il profilo che affiora da una lettera del 26 aprile: «Noi poi intrepidi abbiamo sentito la campana della lunga agonia, e intrepidissimi abbiamo sostenuto i tuoni svariati del conflitto. Il rimbombo del cannone nemico e nostro, il fischio dei razzi, gli urli della gente che dalle mura e dalle Torri incoraggiava i nostri combattenti, ci avevano messo in corpo un certo coraggio che io giammai mi avrei atteso». La lettera dichiara una emozione palese, ma confessa anche l’aspirazione a un quieto vivere senza scosse: «Il popolo va tranquillandosi, il militare tratta con riguardo; compra e paga; ma la sciagura di tante famiglie ci rattrista. Dio faccia che il male non progredisca. Speriamo!». Il bisogno di un rientro nella maglia protettiva della ferialità trova un sigillo nella chiusa, preoccupata per l’approvvigionamento che assorbe e neutralizza l’apprensione patriottica. Istantanea trasparente di un uomo e della sua ritrosia all’impegno: ma non alla socievolezza. È del 1818 l’esordio letterario: due sonetti per nozze; del 1819 ancora un componimento per nozze, a individuare un filone ricco di esiti (e di estemporaneità, di inevitabile oblio). Del 1821 (si intende per il 1821) è il primo «Strolic furlan» [Astrologo friulano], al quale si legano le fortune di Z., «strolic» per antonomasia. Con dedica a Girolamo Asquini: «E da chi potrebbe esso sperare una più benevola accoglienza che da Voi, che coltivate con tanto valore lo studio delle antiche lingue, e particolarmente della Celtica, dalla quale, non v’ha dubbio, origin trae la Friulana?». Dal 1821 si distende il calendario di Z., in una trafila peraltro non compatta: 1821 (Vendrame), 1824 (Pecile), 1827 (Murero), 1828 (Murero), 1830 (Vendrame), 1833 (Murero), 1834 (Murero), 1835 (Murero), 1836 (Murero), 1839 (Vendrame), 1841 (Vendrame), 1842 (Vendrame), 1844 (Vendrame), 1847 (Vendrame), 1848 (Vendrame), 1851 (Vendrame), 1852 (Vendrame), 1854 («mezan», Vendrame), 1855 («mezan», Vendrame), 1856 («mezan», Vendrame), 1859 («Raspadizzis», Vendrame), 1862 («mezan», Seitz), 1866 (Zavagna). La parentesi segnala il tipografo e marca la misura ridotta dello «Strolich mezan», annotando per il 1859 l’inusuale «Raspadizzis», raschiature, avanzi. Con indizi di stanchezza dunque nel segmento ultimo. Alla serie maggiore si affianca, tra il 1838 e il 1867, la litania minima dello «Strolich pizzul», che assottiglia ulteriormente il formato, comunque da bisaccia, la consistenza e il numero degli stacchi metrici, previsti in apertura con il pronostico sull’anno, all’altezza delle lunazioni (con il pronostico meteorologico e una riflessione sul costume) e dei cambi di stagione, ma al calendario intercala fogli bianchi per gli appunti, sottolineandone il carattere pratico. Va da sé che lo schema, mutuato da precedenti locali ma soprattutto veneti, dissolve via via ogni rigidità, sempre fornendo notizie utili (su fiere e mercati) e le irrinunciabili previsioni. È uno «Strolich pizzul» che, nel 1867, conclude la vicenda, non senza un cenno politico nella chiave insolita della serietà: «Çhars amìs, prin di lassâus, / Uèi di cûr racomandâus, / Par sèi vers Italïans, / Sòre il dutt di stâ lontans / Dai bagords, des ostarìis; / No blestèmis, no eresìis / Vès di vivi in sante pâs / In chest mond finchè a Dio j’ plâs. / Tignî cont e no stranfâ, / E po ves di lavorâ: / Guai se l’òzi us salte aduess! / Cui che duàr no çhape pess» [Cari amici, prima di lasciarvi, / voglio di cuore raccomandarvi, / per essere veri italiani, / sopratutto di stare lontani / dai bagordi, dalle osterie; / non bestemmie, non eresie / dovete vivere in santa pace / in questo mondo fin a quando a Dio piace. / Risparmiare e non sprecare, / e poi dovete lavorare: / guai se l’ozio vi salta addosso! / Chi dorme non piglia pesci]. Va da sé che l’almanacco, rispetto ai versi per nozze, offre garanzie superiori di tenuta (copre l’anno nel suo arco) e di pubblico vasto, ma l’evento pubblico sollecita ad ogni modo la presenza del poeta: per l’ingresso e per la morte dell’arcivescovo Zaccaria Bricito, per la morte di Iacopo Tomadini. Le fortune rotonde di Z. sono accertate dalla penna velenosa di Giussani: le sue «lepidezze» lo fanno «sempre caro e ricercato», «accolto con festa in tutte le case aristocratiche e della grassa borghesia, perché uomo faceto e piacevolissimo», mentre lo «Strolic», «su’ cui proventi facevano calcolo, per essere pagati, il beccaio ed il fornaio», ottemperando a non taciute finalità pratiche, «girava per le mani di tutti e faceva tanto ridere la gente di spirito oltre che gli imbecilli». Sono accertate meglio ancora da una cospicua messe di aneddoti, che cristallizzano la sagoma di un personaggio estroso e bizzarro, pronto alla battuta bonaria o graffiante, che, con il tocco dell’ironia, sa restituire alle cose della vita le loro proporzioni. Un personaggio proverbiale. Gli aneddoti d’altra parte fissano anche una formula critica: un modo di leggere i versi e, con circolarità perfetta, di sancire il temperamento del loro autore. Resta tuttavia delicato il nodo delle tirature e della diffusione: una lettera da Sequals, che ha però taglio scherzoso, ne sanziona – in termini iperbolici – la capillarità, geografica e sociale. Ma si scorra un brano del Preambul al secondo volume delle Poesiis, stampato nel 1847 da Vendrame: «Oress che dug fasess come che han fatt / Ciarz di lor cul pajami devan’ tratt, / O ben che vessin che’ pontualitat / Di Udin, di Pordenon, di Cividat, / di S. Vit, di Glemone, di Tarcint, / Di Trïest, di Cormons e di Trevis / […] / ’O no dis di Gurizze / […] / ’O lasci fur Tulmiezz e Puartgruar… / La pene è strache e sutt il calamar…» [Vorrei che tutti facessero come hanno fatto / alcuni pagandomi in anticipo, / o che avessero la puntualità / di Udine, di Pordenone, di Cividale, / di San Vito, di Gemona, di Tarcento, / di Trieste, di Cormons e di Treviso / […] / Non dico di Gorizia / […] / Tralascio Tolmezzo e Portogruaro… / La penna è stanca e asciutto il calamaio…]. Con una topografia fitta (e non priva di sottintesi pubblicitari), per quanto la distribuzione sembri affidarsi all’intreccio personale, giocando su numeri bassi. Dove emergono limpidi i modi torrentizi della scrittura, con il previsto guizzo finale. Lo «Strolic» allinea la sequenza dei suoi giorni, dei suoi santi, dei suoi mercati, delle sue fasi lunari, offrendosi come griglia per scorci naturalistici e divagazioni giocose: malizie, epigrammi, grappoli di rime baciate, a coniugare scherzo e idillio. Con una ragnatela di rifrazioni: Plovisine [Pioggerellina], Tempieste [Grandine], No ocòr ploe [Non serve pioggia], Un temporàl [Un temporale], per tacere degli scampoli più brevi, a sfruttare gli effetti di eco, il rimbalzare delle risonanze, mirando a un setaccio sistematico, “enciclopedico”, dei fenomeni e sollecitando la memoria del destinatario. E così La me’ biografie, citata, si dirama in La me’ vite di citàd [La mia vita in città] (1844), La me’ ospitalitàd [La mia ospitalità] (1848), mentre vanno a saldarsi in un festone omogeneo le più o meno picaresche peregrinazioni: Zorutt in Acuilèje [Zorutti ad Aquileia] (1839), Zorutt a Gurizze [Zorutti a Gorizia] (1841), per toccare Trieste, e via via. L’interminabile profusione di rime baciate, la sua frenesia, nel verso per lo più breve e quindi accelerato, cattura con i suoi accostamenti balordi, ma si propone anche come acrobazia, virtuosismo. L’intimità per contro è difesa con gelosia: un risvolto che rivela una sensibilità nuova, l’urgenza del ritegno, il costume discreto e magari benpensante del tempo. Ma con specifici postulati letterari: Z. può confidare la propria «malinconìe», un termine denso di implicazioni settecentesche, ma respinge le più inquiete autoanalisi dei romantici: «Non fo’ come i Romantici / Che scrivono per sé: / Estro, chiarezza ed ordine / Son naturali in me». Il rifiuto del romanticismo si traduce in grottesche, ridicolose epifanie del soprannaturale: Il trovatore Antonio Tamburo, «fetta romantica» allestita in forma narrativa nello «Strolic» del 1836 e messa in scena nel 1848, il vertice più noto. Rare ad ogni modo, stordite dalle screziature argute, sono le enunciazioni di poetica, ma le Scelte poesie giocose, due volumetti del 1832, dove è generoso lo spazio concesso a voci del Settecento, assumono, pur nell’anarchia del percorso, la portata di un piccolo manifesto. La sordità nei confronti del romanticismo è di tutto l’ambiente udinese, ma in Z. è solidale con i suoi lati inibiti, con le sue renitenze all’autobiografia. Solo per brevi tratti, nel perimetro smorzato di un orizzonte casalingo che ripara, ma anche separa dal mondo, si affaccia uno Z. più schivo, che non calza la maschera dello scherzo. Come nel filmato inappuntabile di La sedude [La seduta] (1851): «Sùbit che ’o sint l’unviàr a businâ / Mi mett sul fogolàr dopo gustà / […] / E alì sivilutand e chiantuzzand, / ’O sabori te ’l fuc, comèdi i stizz, / Quei bueriis, pitinizz…» [Appena sento l’inverno mulinare / mi metto al focolare dopo pranzato / […] / e lì fischiettando e canticchiando, / attizzo il fuoco, sistemo i tizzoni, / cuocio castagne, rape…]. È la prospettiva rinfrancante della fiamma, il conforto del sorso dal boccale, uno stillicidio di gesti frusti e consunti, con il fiotto di «filastrochis, matetaz» [filastrocche, amenità] a scatenare una risata che ribadisce la saldezza interna per riversarsi sulla strada. Ma non è contemplato il percorso opposto: dentro le pareti domestiche non si avverte un’eco del mondo, se si esclude il rumore metaforico dell’inverno che incombe. Z. tuttavia preferisce il ghiribizzo sonoro, la cascata di rime che, addensandosi a macchia, sfaldano ogni possibile nesso semantico. Valga un prelievo da La me’ biografie, che pur fornisce lacerti di verità comprovata, dove però la logica obbedisce al principio della dismisura, soffocando la tessera genuina, che qui si esaurisce nel primo rigo: «’O soi stàd militàr, ma no in batàe; / ’O sai fâ la fritàe, / ’O sai bati il tambûr, / Sai giavâ un ragn da un mûr. / ’O soi bon di spadâ, / Di scussâ, di squartâ, / Di tirâ, di molâ: / Di strighïâ il çhavall, / Di fâ il mestri di ball, / Di dâ fûg al canòn / E di sgonflâ il balòn…» [Sono stato militare, ma non in battaglia; / so fare la frittata, / so battere il tamburo, / So cavare un ragno da un muro. / Sono capace di castrare, / di sbucciare, di squartare, / di tirare, di mollare, di strigliare il cavallo, / di fare il maestro di ballo, / di dare fuoco alla miccia del cannone / e di gonfiare il pallone…]. In Z. è comunque secca la difesa dello “statu quo”, la riprovazione dei fenomeni di mobilità, certo autorizzata da precedenti sei e settecenteschi, a loro volta in debito con modelli italiani. Una polemica ostentata già nello «Strolic» d’esordio: «Si viod al dì di uè plui d’un vilan, / Che lassade la uàrzine e il massanc, / Rutand di ai, e miezz crepad di fan / Al càpite in citad a purgà il sanc…» [Si vede al giorno d’oggi più di un contadino, / che lasciato l’aratro e il pennato, / ruttando di aglio, e mezzo crepato di fame / capita in città a purgare il sangue…]. Non contempla indulgenze la «prèdiçhe moràl» del 1848, che del contadino incide un disegno fosco, tutto scompostezza e intemperanza, dove è congrua la corda della nostalgia: «Benedets i uèstris vièj, / Che pensàvin un mond mièj! / No si ’n viòd te’ nestre ète / Cui scufons, ca-la blanchete, / Veneràbii, religiòs, / Mansuets e rispetòs / Cu’l paròn e cu’l fatòr, / Ai lôr çhamps ’vèvin amòr. / Cumò ses civilizads, / Olès jessi rispetads; / Mangiàis ben e bevis mièj, / E se rìdis dei pùars viej» [Benedetti i vostri vecchi, / che pensavano molto meglio! / Non se ne vedono ai nostri tempi / con i calzerotti, con la casacca, / venerabili, religiosi, / mansueti e rispettosi / con il padrone e con il fattore, / per i loro campi avevano amore. / Adesso siete civilizzati, / volete essere rispettati; / mangiate bene e bevete meglio, / e ve la ridete dei poveri vecchi], dove, a recuperare il senso, basterà il dettaglio della caduta di più docili e integrali tratti subalterni. Non mancano peraltro i testi che considerano in modi fattivi i problemi della campagna. Come L’agricolture del 1844, che non a caso attacca con una censura del vecchio modello padronale, un assenteismo rovinoso, pur se il discorso declina ancora il gusto dell’elenco e la rima baciata ha la conseguenza di alleggerire la serietà dei temi, ma non di esorcizzare la vocazione autoritaria: con i «galiots / Che tàin bachetis par fâ sivilots» [galeotti / che tagliano rami per fare zufoli], con i «laris campagnuj / Di lens, di fuèe, di sorg e di fasùj» [ladri campestri / di legna, di foglia, di sorgo e di fagioli], «No usâ remissiòn: / Ròmpiur i brazz» [Non usare remissione: / rompere loro le braccia]. Ma Z., che pure è legato alle coscienze più vive del tempo, da Francesco Dall’Ongaro a Pacifico Valussi, da Giuseppe Ferdinando del Torre a Caterina Percoto, responsabilmente compromessi con l’istanza risorgimentale, si sottrae a forme più esplicite di impegno. Si sottrae alle sollecitazioni dello stesso Tommaseo, non elusivo nella perentoria asciuttezza di una prima nota: «Pietro Zorutti conserva puro il dialetto natio; alle proprietà della lingua aggiunge le grazie dello stile; lo stile avviva non poche volte con immagini scelte e pensieri. S’astenga dal lubrico: tenti il dialogo e la commedia; e le cose sue saranno tradotte nella lingua comune d’Italia», dove l’apprezzamento è subito temperato da quel sibillino e ultimativo «S’astenga dal lubrico». È più distesa una seconda nota: «Sarebbe peccato invero se quella popolare rinomanza a’ suoi versi meritatamente acquistata, egli non ispendesse a prò del paese diletto in modo ancor più memorando; se allontanando dal canto ogni immagine lubrica, e lasciando agli epuloni sbadiglianti codesti sporchi trastulli, e’ non si desse a consolare le fatiche affannose del popolo con imagini pure e degne dell’italiana bellezza». E categorica risulta la consegna: «E’ dovrebbe ripigliare quell’opportuna consuetudine degli almanacchi… dove conversare famigliarmente col povero, de’ bisogni della sua vita, e specialmente di quelli dell’anima sua; senza provocarlo né a scorato dolore né ad arrogante baldanza, ma con la parola ispirata ispirando quella dignitosa umiltà che desidera il merito, non la mercede». Un programma che non tace la sua sostanza moderata: strumento consolatorio, ma nel rispetto del pudore, condiscendenza per il «povero», ma nel rispetto della gerarchia, che si riassume nella cifra della «dignitosa umiltà», dove il sostantivo ha rango forte. La risposta A siòr Nicolò (in coda all’almanacco del 1842) è sommessa, nell’osservanza di uno specifico registro stilistico. Non è però di maniera il cenno agli scopi pratici: «E lu scriv par furlàn / Par uadagnâmi il pan; / Che al ven a jessi istess, / Che ’o disess che lu scriv par interess» [e lo scrivo in friulano, / per guadagnarmi il pane, / che viene a essere la stessa cosa, / che dicessi che lo scrivo per interesse], anche se la povertà del poeta, con i suoi corollari pitocchi, è topica. E alla richiesta di impegno Z. reagisce in termini fermi, pur se con il pigmento delle tessere burlesche: «E lu scriv par che’ int, / […] che, se ’j ven cuàlchi fastidi, / Çhol su il lunari par butâle in ridi» [E lo scrivo per quella gente, / […] che se le viene qualche fastidio, / prende in mano il lunario per buttarla in ridere]. Nitida è la rivendicazione di una scrittura come diversivo, ma anche come trincea, nicchia: la risata che risarcisce dalle miserie della vita. Già lo «Strolic» del 1821 individua un destinatario con una cornice precisa e non generiche istruzioni per l’uso: «Lu compri donçhe il pari di famèe / Par giòldilu la sère dongie il fuc, / Lu compri don Chisciote a Dulcinèe, / Lu compri il leteràt, lu compri il cuc, / Lu compri… ma soi stuf di freâ la pànze; / Comprailu se no altri par creanze!» [Lo compri dunque il padre di famiglia / per goderlo la sera vicino al fuoco, / Lo compri don Chisciotte a Dulcinea, / Lo compri il letterato, lo compri il balordo, / Lo compri… ma sono stufo di pregare con tanta insistenza; / compratelo se non altro par creanza!], nello schema di per sé capriccioso e indiavolato della sesta rima. L’oblio, pur momentaneo, e il frizzo pungente riscattano dalle difficoltà: «Vadi in malore la malinconìe! / Starìn onestamentri in alegrìe» [Vada in malora la malinconia! / Staremo onestamente in allegrie] (1842). La poesia si pone al servizio dello svago ed elegge a sede deputata il focolare, che emerge con prevedibile ricorsività: «Chest l’è timp fatt a proposit / Par stâ unids sott il camìn, / Mangiâ buèriis, bevi vin, / Contâ flabis, e sorâ» [Questo tempo è fatto a proposito / per stare insieme sotto il camino, / mangiare caldarroste, bere vino, / raccontare fiabe, e burlare] (1821), «Un bon fûg e un bon muzùl / E c’al svinti tant che al ûl» [Un buon fuoco e un buon bicchiere / e il vento soffi quanto vuole] (1827), e via via. Sul focolare, e sulle sue ipostasi ideologiche, ha battuto l’acido di Pasolini, ma il focolare di Z. è luogo che ancora raduna e in qualche misura fonde, pur se di «strolic» in «strolic» la fiamma forse smarrisce il suo calore, ma fuoco e vino (con il corredo dei frutti secchi nella loro piega simbolica) sono archetipi, pegno di vita. E in filigrana regge il tempo ciclico con il fluire delle stagioni, premessa e insieme tela dell’almanacco: della sua serialità, che è un movente del successo, ma anche un limite per la durata. Lo stesso Z. ha operato ripetuti tentativi per svincolarsi dall’effimero, per vincere la legge del consumo breve, convogliando l’effusione delle sue rime nel regime meno precario del volume. Già in calce alla edizione di Colloredo del 1828 compare un sostanzioso blocco di versi di Z., accatastati senza che si prospetti un filo, un’ipotesi (o una necessità) di “canzoniere”, ma comunque sottratti alla logica seriale, per suo statuto circolare, ma anche caduca. Z. si aggancia all’esponente più illustre della tradizione, prospettandosi come anello nuovo, non senza un sottinteso di diagramma in ascesa. Nel 1836-1837 Z. allestirà due volumi di Poesiis, altri tre nel 1846, 1847 e 1856, ma le raccolte saranno soprattutto postume: Poesie edite ed inedite sotto gli auspici dell’Accademia di Udine, a cura di P. Bonini e G.G. Putelli, con la riproduzione delle sei litografie di G.L. Gatteri, nel 1880-1881, Raccolta completa delle poesie friulane edite e inedite, a cura di V. Ostermann, con illustrazioni di L. Rigo, nel 1880 e 1880-1881, e Le poesie friulane sotto gli auspici dell’Accademia di Udine, a cura di B. Chiurlo, nel 1911, diventata edizione di riferimento. Le poesie riunite in volume cancellano la cadenza dell’almanacco e dal tepore del focolare scivolano nell’atmosfera più fredda e compassata della biblioteca: dal formato di consumo, maneggevole e feriale, alla dimensione più grande, che prevede altre modalità di lettura. Una edizione selettiva quella di Chiurlo, che esclude «ciò che è indiscutibilmente borra insignificante», ma attenta a non elidere, con scremature troppo rigorose, il «valore rappresentativo di tempo e d’ambiente», pur se i tagli non sono indolori: con una sola eccezione, che non basta a rappresentarli, sono espunti i pronostici dello «Strolic pizzul» e sono drasticamente sfoltiti i versi per nozze, con una revisione drastica (e non priva di oscillazioni) della grafia. Chiurlo peraltro si attiene a volte a versioni ritoccate da Z., mettendo a testo varianti posteriori, ma non senza occasionali recuperi delle stesure di partenza, con un discutibilissimo movimento pendolare. Nel corpo dello «Strolic» del 1828 viene inserito il sonetto caudato La bella di Tolmino, una poesia di cui Z. non riconosceva la paternità, pubblicata più tardi da Joppi su «Pagine friulane». La sequenza asseconda la cronologia, nel rispetto della scansione del lunario, per restituire il sapore dell’epoca e non alterare il gioco di «quella compagine, fatta di mestizia e di giocondità, di sentimento naturalistico e di gaiezza rumorosa, che era ordinata a dare un’impressione unica, non ad essere sciolta e considerata a spizzico». A Chiurlo si devono rilievi appuntiti sulla psicologia di Z., sulla sua vita e sulle sue letture (da Béranger a Nalin, a Vittorelli ispiratore dei metri più cantabili). Secondo Chiurlo Z. prende le mosse dallo «Schieson» del trevisano Pozzobon, integrando il filo della «chiacchiera famigliare» e della «satiretta pettegola e piena di color locale» con la «poesia della natura». Un classico per la misura e per la simpatia, pur se della storia delle fortune critiche qui non si abbozzeranno che alcuni paragrafi. Come i contributi di Dall’Ongaro e Valussi ospitati dalla rivista triestina «La Favilla». Dall’Ongaro distingue rime «pastorali, anacreontiche, appassionate» ed «epigrammi acuti», «satire urbane». Schietto è il consenso con la corda idillica, mentre una non sfumata (e anzi ruvida) riserva colpisce il registro comico, in rapporto alla scala dei valori («cede di lunga mano al Porta»), ma soprattutto in rapporto alla morale, dove scattano remore militanti e conative: «Padrone della sua lingua che si piega sotto la sua penna a tutte le forme, faccia egli di darci il bello e il decente, e ci risparmi l’indecoroso e il triviale». Valussi, assorbito dal nodo lingua/dialetto, insiste sull’«acuto epigramma», ma privilegia il grumo «dell’affetto che solleva l’umiltà del dialetto». Z. attraversa senza inquietudini i convulsi anni napoleonici, la più tranquilla e opaca età austriaca, i moti risorgimentali, e sfiora i modesti fervori del 1866. Eppure nel tempo lo spirito epigrammatico ha acquisito apprezzamenti pieni: satira civile, una formula in cui domina il vettore dell’attributo. Con una deroga vistosa: Federico Comelli (pagine memorabili per la prosa friulana ha il suo unico almanacco, «Il me pais» [Il mio paese], caratterizzato da una volontà spartana di pedagogia). Anche Comelli contrappone «satira» e «idillio», ma calando la dicotomia «nell’indole poetica della moltitudine», invariante psicologica e quindi modo della scrittura, per pronunciarsi con schematica durezza: «Prostituire in codesta guisa non solo la dignità dell’uomo, ma quella eziandio del poeta, è quanto di più orribile può farsi in una società supremamente e immedicabilmente corrotta…». Il lessico è a tratti oltraggioso («compiacenza laida e triviale», «cinica scurrilità», «smania d’armeggiare tra le lascivie e i baccani», «verità deturpata di fango», in un florilegio tanto rapido quanto devastante), ma i principi che danno udienza alla voce del cuore e ricusano la malizia, che premono per una scrittura solidale con un progetto di civiltà e di nazione, sono già impostati da Tommaseo e Dall’Ongaro. La parabola delle fortune vira nel 1892, che aggrega la scadenza del centenario della nascita e dei venticinque anni della morte. Quella del Friuli è storia di fratture che prescindono dalla identità linguistica. Il 1866 aveva ribadito il solco interno lungo lo Judrio, un corso d’acqua insignificante, che per secoli aveva distinto un Friuli veneto da un Friuli austriaco. Con le celebrazioni del 1892 Z. e il suo friulano si fanno cifra di italianità, a dispetto dei fragili entusiasmi dell’uomo. Mette conto riferire, estraendolo da una pubblicistica ingente, un bilancio di Domenico Del Bianco («Pagine friulane», 22 gennaio 1893): «L’anno testè chiuso, pel Friuli, sarà memorando. A Lonzano, a Gorizia, nel nome del poeta Pietro Zorutti, friulani d’ogni angolo della nostra patria carissima si strinsero le destre, come fratelli che si amano, come fratelli che più forte sentono il bisogno di manifestare il reciproco affetto quanto più tempo trascorre da un famigliare ritrovo all’altro; Giuseppe Caprin pubblicò le sue mirabili Pianure Friulane; Cesare Rossi cantò con dolce eppur virile poesia Da i colli friulani; Riccardo Pitteri inneggiò robustamente Al Friuli…». I libri censiti sono di autori triestini, ma i titoli interpretano i motivi di una unità che assicura valore e spessore al rito del centenario. In un quadro apparentemente unanime per contro, nel 1942, quando si incrociano i centocinquant’anni dalla nascita e i settantacinque dalla morte, non manca di postulati anticonformisti una nota di Ercole Carletti, nel segno pacato del distacco. Con Carletti non viene meno l’adesione, ma Z. è accolto solo nell’ora ombrosa e crepuscolare, nel «gioco di una certa inclinazione che ci viene spontanea verso le buone vecchie cose del paese, verso la ristretta ma serena vita provinciale d’una volta». E non senza riserve: «C’è in lui quasi una carenza di sensibilità per i problemi civili della vita…». La svolta è netta e l’urbanità che la esprime non ne intacca il rilievo. Più aspre insofferenze si manifestano con Giuseppe Marchetti: «Fu un Orazietto di provincia: dotato come l’Orazio più grande, d’una facile vena satirica e burlesca, ebbe voglia come quello – di fare anche della lirica, che non era veramente pane per i suoi denti». Marchetti non accredita Z. di una poetica profonda e coerente, di una tenuta umana e morale, cestinando senza sbavature. Z. cessa di essere emblema di friulanità e la funzione di intrattenimento rivestita dai suoi versi concentra un giudizio acre su tutta la letteratura friulana: «rallegrò col suo Strolic per tanti anni, le sieste e le serate dei nostri nonni e bisnonni, collocandosi, per comune consenso, al primo posto nella nostra modesta letteratura vernacola», dove conseguentemente l’angolo delle «sieste» e delle «serate» si flette al passato. Negli anni la valutazione di Marchetti si farà più morbida (soprattutto nell’ambito cruciale della lingua). Non si addolcirà invece il giudizio di Pasolini, che in Z. intenderà colpire un’idea di poesia, una lingua, una tradizione, un intero contesto: «scrive in un friulano che altro non è che il dialetto della piccola borghesia udinese che vede la ‘campagna’ attraverso gli schemi dell’arcadia o di un romanticismo ‘da gazzetta’». Il lacerto archivia una stagione lunga, che in Z. si era identificata e riflessa. Z. è stato tradotto in italiano, in inglese e in sloveno.
ChiudiBibliografia
Poesie scelte edite ed inedite in dialetto friulano di Ermes co. di Colloredo con aggiunte di Pietro Zorutti, Udine, Fratelli Mattiuzzi, 1828 (ristampa anastatica con nota introduttiva di R. Pellegrini, Udine, AGF, 1992); Scelte poesie giocose raccolte e pubblicate da Pietro Zorutti, Udine, Murero, 1832; Poesiis, Udine, Murero, [1836-1837], 1-2; Poesiis, Udine, Vendrame, 1846, 1847 e 1856, 1-3; Il trovatore Antonio Tamburo. Fetta romantica per musica da rappresentarsi nel Nobile Teatro di Udine coll’aggiunta di due tamburate, Udine, Trombetti-Murero, 1847; Poesie edite ed inedite pubblicate sotto gli auspici dell’Accademia di Udine, a cura di P. BONINI - G.G. PUTELLI, con la riproduzione delle sei litografie di G.L. Gatteri, Udine, Bardusco, 1880-1881; Raccolta completa delle poesie friulane edite e inedite, a cura di V. OSTERMANN, illustrazioni di L. Rigo, Udine, Delle Vedove, 1880, e Cosmi, 1880-1881; Le poesie friulane pubblicate sotto gli auspici dell’Accademia di Udine, a cura e con uno studio di B. CHIURLO, Udine, Bosetti, 1911 (ristampa con una premessa di R. Pellegrini, Udine, Del Bianco, [1990]), con bibliografia; Dodici lettere inedite, Premessa di A. Del Piero, «Ce fastu?», 15 (1939), 243-257; Poesie scelte, Udine-Tolmezzo, Libreria editrice Aquileia, 1946 (ristampa del 1978); Poesie scelte, a cura di G. D’ARONCO, illustrazioni di F. Pittino, Udine, Avanti cul brun!…, 1949; G. D’ARONCO, Note all’epistolario di Pietro Zorutti con l’aggiunta di lettere inedite, Udine, SFF, 1945; ID., Lettere inedite di Pietro Zorutti a Caterina Percoto, «Avanti cul brun!… Lunari di Titute Lalele pal 1949», Udine, Avanti cul brun!… Editôr, 1948, 57-66; G. FRAU, Due lettere inedite di Zorutti, «La Panarie», n. ... leggis., 35 (marzo 1977), 11-19; Epigrammi tradotti da G. JACOLUTTI, Udine, La Nuova Base, 1987; T. DI BIAGGIO, Le lettere di Pietro Zorutti, t.l., Università degli studi di Trieste, a.a. 1998-1999.
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