Nacque a Cormons (Gorizia) il 30 luglio 1894. Il padre Innocente era falegname, la madre Orsola Minen lavorava in filanda. Una infanzia povera, ma il cerchio familiare alimentò i primi interessi per la narrativa popolare. Z. studiò al K.K. Staatsgymnasium di Gorizia, dove ebbe modo di stringere amicizia con Ugo Pellis e Francesco Spessot, più maturi di età, Emilio Turus e Giuseppe Marangon, ma dove risultò decisivo l’incontro con il professor Giorgio Pitacco, che lo avviò alla raccolta di fiabe e di leggende: dapprima (dal 1908) a Cormons, poi (dal 1913) anche in altri paesi del Friuli orientale. Il 26 maggio 1915 Z. fu internato a Liebenau (e poi a Troppau) in Slesia. Iscritto all’Università di Graz, si laureò in lettere a Padova nel 1919, per avviare subito una lunga carriera in ambito scolastico: a Trieste, Gorizia, nel 1922 a Roma presso il Ministero della pubblica istruzione, nel 1925 come preside a Tolmino, nel 1931 a Belluno. Dopo una parentesi a Rieti, fu trasferito a Brescia, sempre nella veste di preside, da dove si staccò per incarichi temporanei a Bergamo e a Cremona. Dal 1934 al 1937 fu a Vienna, direttore dell’Istituto Dante Alighieri, e a Vienna predispose una Guida allo studio della grammatica italiana (per la rivista «Radio-Wien», poi a cura dell’Istituto Dante Alighieri). Morì a Brescia il 26 agosto 1960. A sedici anni Z. pubblicò la prima fiaba, nel 1914 diede alle stampe Istoriis e liendis furlanis [Storie e leggende friulane], una raccolta di racconti popolari ricca e coesa, con un preambolo di Pellis, al quale la raccolta è dedicata. ... leggi Un preambolo scherzoso, che disegna, nell’aldilà, una sorta di Parnaso friulano, in attesa di festeggiare il nuovo libro. Nel preambolo, però, hanno evidenza alcuni nodi di rilievo per l’intera vicenda di Z. Il contatto organico con la tradizione popolare da subito mette in campo la personalità dello scrittore: «Ma çe che jè une vere creaçion artistiche jè la forme…» [Ma quello che è una vera creazione artistica è la forma…], forma e vera creazione da assegnare allo scrittore, che si muove tra rilevamento, elaborazione e poi anche “invenzione” del racconto popolare, su un crinale sottile, ma anche metodologicamente ambiguo. Limpido ad ogni modo è il postulato ideologico: la raccolta è vista (e quindi concepita) come una affermazione nazionale ed è preciso il richiamo alla romanità («Al ûl dî che chel fûc, che Rome benedete a ja impïat, al art ’cemò biel, fuart, vivarôs, sun chei grançh modons romans…» [Significa che quel fuoco, che Roma benedetta ha acceso, arde ancora bello, forte, vigoroso, su quei grandi mattoni romani…]). Con il sigillo epigrafico di un richiamo a Mistral, padre della rinascita occitanica: «Un pòpul par mal che gi vadi, co ’l manten pure e vive la pròprie lenghe, al â une grande fuarçe tas mans e ’l pôl sperâ!» [Un popolo per male che gli vada, quando mantiene pura e viva la propria lingua, ha una grande forza nelle mani e può sperare!]. L’istanza nazionale è netta, a guerra non ancora dichiarata, e istanza identica sosterrà nel 1919, a guerra appena conclusa, l’istituzione a Gorizia della Società filologica friulana: Z. è tra i fondatori. Privo di reticenze sarà l’allineamento con il regime: convinta e rotonda è, nel 1925, la dedica a Mussolini di Visioni di vita friulana. Z. è raccoglitore scrupoloso anche di leggende di guerra, per le quali è più chiaro lo scopo pratico (anche pratico), il legame con il contingente, la creazione di una mitologia. Interessa peraltro notare come il «trasferimento del materiale folklorico dal piano dell’oralità a quello della scrittura» conosca una successiva ricaduta sulla oralità: «il lavoro di raccolta e di interpretazione operato dai folkloristi è tornato per mille canali fra la gente, ne ha condizionato il gusto ed è divenuto fattore attivo nei processi di selezione operati nel corpus della tradizione orale. Le inchieste di questi anni fra gli anziani di San Rocco, qui a Gorizia, o fra gli anziani di Gradisca si aprono spesso con le storie edite da D. Zorzut e poi mille volte riproposte per infiniti rivoli» (Gri). A Instoris e lïendis seguì, nello stesso 1914, Ridìculis, ridàculis, novelline dal taglio comico (impossibile rendere il gioco verbale: hanno cadenza analoga, nel successivo Sot la nape, «Cinisìntula, Brustulìntula», Cenerentola, e «Slìpete-Slàpete», un paese immaginario), con dedica a Spessot. Pur se «la sua produzione artistica originale può dirsi cominciata con Ridìculis-ridàculis, dove già le narrazioni popolari hanno subìto un’elaborazione personale che invano si nasconde sotto la consonanza con l’anima del popolo» (Chiurlo), alla scrittura in proprio Z. pervenne nello scorcio estremo del suo internamento, con pagine che nel 1919 confluirono in La furlane cunt-un par di altris sturiutis [La friulana con un paio di altri raccontini]: il brano eponimo in Visioni di vita friulana assumerà veste teatrale, eccezionalmente in versi. Una realtà non radiosa è protagonista anche di Sturiutis furlanis [Raccontini friulani], del 1921: «In alcune di esse si sente l’eco della guerra da poco terminata ma ancora presente nelle sue dolorose conseguenze, in altre l’influsso della narrativa della Percoto, di Fucini o di autori stranieri come Mistral e Daudet» (Sgubin). Ma l’impresa maggiore si situa nella zona centrale degli anni Venti: una intensa ricerca sul campo che estende il suo orizzonte alla Carnia, nel rispetto della varietà locale, pur nella usuale e impalpabile dinamica di rilevamento ed elaborazione, ricerca sul campo che ha il suo terminale nei tre volumi di Sot la nape [Sotto la cappa del focolare], con l’impegnativo sottotitolo I racconti del popolo friulano, che la Società filologica friulana pubblica tra il 1924 e il 1927 (per riproporli nel 1982 con prefazione di Sgubin). In coda al terzo volume per ogni racconto sono indicati l’anno del rilevamento, la località, il nome dell’informatore, con i dati anagrafici, la scolarità e la professione. Riassume bene intenzioni dell’autore e attese dell’ambiente, che risultano in sintonia, la recensione di Giovanni Lorenzoni: «Palpita in questi racconti l’anima del popolo friulano nelle sue credenze e nelle sue superstizioni, nella sua più semplice storia e nelle sue più svariate tradizioni, ma, più che tutto, nella ingenuità della sua dizione, scevra di artifici stilistici e di ricercatezza di effetti. E in ciò appunto sta l’arte dello Zorzùt: nell’aver saputo, egli narratore accorto ed elegante quando crea, in questi racconti del popolo mantenere quel profumo di rusticità vergine che certo diedero loro i buoni villici del piano e della montagna quando li venivano raccontando all’ascoltatore attento». Dove il discrimine tra informatore e raccoglitore si conferma labile. Z. si sentirà autorizzato a produrre congiuntamente leggende «raccolte e riferite in veste alquanto personale pur conservando loro, per la necessaria aderenza della forma al contenuto, appieno il ‘tono’ popolare», e leggende «costruite su nuovi motivi», «create dall’estro artistico dell’Autore, con elementi derivanti o suggeriti dalla narrativa popolare»: così in Stait a scoltâ, stait a sintî… [Ascoltate, sentite…], del 1954, che a titolo eleva un doppio imperativo da cantastorie. Pur se la narrativa popolare non si riduce, crocianamente, a semplice «tono». Ma è l’articolazione doppia di Stait a scoltâ, stait a sintî…, «senz’altro l’opera della raggiunta maturità artistica» (così Sgubin), a sollecitare il sondaggio. Due sono i cicli esplorati: la vita di Gesù dalla sua nascita alla fuga in Egitto, punteggiata dalla crudeltà dei soldati inseguitori e dai prodigiosi aiuti forniti dal mondo naturale, fino all’evento tremendo della morte in croce, con la ripetuta crudeltà di altri soldati e la partecipazione intensa, per quanto impotente, del mondo naturale; la saga colorita del peregrinare di Gesù e san Pietro sulle strade del Friuli. E importa una verifica del doppio regime: della scrittura prestata al patrimonio popolare, del patrimonio popolare al servizio della scrittura in proprio. Per il primo versante valga uno stralcio da Lis zisilis [Le rondini]: «El Signôr al jere su la crôs; tre oris, tre oris che ’l penave! El ciâf incoronât di spinis e lis mans e i pîz benedèz forâz dai clâuz; da lis firidis al jere vignût fûr a spizzulòn el sanc dal nestri bon Signôr e la înt lì intôr i sbeleave, cioche di vin e di ódie. Ma lì parsore dal so ciâf, e intôr intôr da crôs a svolavin imburidis, ’sivilànt como par lamentâsi, lis zisilis…» [Il Signore era sulla croce; tre ore, tre ore che penava! La testa incoronata di spine e le mani e i piedi benedetti bucati dai chiodi; dalle ferite era uscito a grandi fiotti il sangue del nostro buon Signore e la gente lì intorno gli faceva boccacce, ubriaca di vino e di odio. Ma lì sopra il suo capo, e intorno intorno alla croce volavano all’impazzata, fischiando come per lamentarsi, le rondini…], con l’arcano delle piume delle rondini che da bianche si trasformano in nere. In Sot la nape la leggenda si presentava nella risentita varietà di Forni Avoltri (trasmessa da Anna di Val, casalinga di cinquantasette anni, con cultura elementare), Las zizilos, e la transcodificazione non risulta indolore: «Lu Signùor al ero su la crûos che ’l penavo di tri oros. In chestos tri oros al vevo un gran mac di zizilos che in chè volto es portavo la plumo blàncio, soro di Lui ch’e fasevo dut un grant davoi cu las alos par condolêsi…» [Il Signore era sulla croce che penava da tre ore. In queste tre ore aveva un grande mazzo di rondini che allora portavano la piuma bianca, sopra di Lui che facevano tutto un grande strepito con le ali per manifestare il proprio dolore…], in un registro più asciutto, quasi enunciativo. Secca è la divaricazione tra una umanità becera e brutale e una natura, qui nella icona stordita delle rondini, partecipe e sensibile. E fitti sono i dispositivi retorici, in particolare le figure di ripetizione: dalla “geminatio” («tre oris, tre oris…», «intôr intôr…») alle più diffuse riprese anaforiche (speciale evidenza ha il ritorno formulare di «nestri bon Signôr»), nella ragnatela di una allitterazione battente e di un accusato ritmo binario («cioche di vin e di ódie»). Con ordito identico procede, nello stesso genere, la scrittura d’autore, come nel caso di La violute dai ciamps [La violetta dei campi]: «Cun marcèi, cun cuardis, cun clâuz a corin di cà e di là chei manigòlz come spirtâz; a stan par meti in crôs el nestri bon Signôr…» [Con martelli, con corde, con chiodi corrono di qua e di là quei manigoldi come spiritati; stanno per mettere in croce il nostro buon Signore…]. Nei pressi, all’ombra di una macchia, una violetta, «dute sfluride, blance come ’l lat» [tutta fiorita, bianca come il latte], osserva stupita, e il filmato atroce dell’agonia si specchia nel fiore che, immedesimandosi, muta aspetto: «– Oh, oh, – a dîs plui a fuart la viulute – i ân mitût i clâuz ta mans e i ân forât i pîz! Ze che ’l spizzule el sanc dut intôr! – e intànt che dîs cussì la viulute di blance che jere a gambie colôr e ti devente rosse rosse come une bore…» [– Oh, oh, – dice più forte la violetta – gli hanno piantato i chiodi nelle mani e gli hanno forato i piedi! Come zampilla il sangue tutto intorno! – e mentre dice così la violetta da bianca che era cambia colore e ti diventa rossa rossa come une brace…], e nel frangente della morte, al culmine della simbiosi, «el so colôr al si scurîs simpri di plui fin che ’l dovente violèt» [il suo colore si incupisce sempre più finché diventa violetto] e «di sot dal ciarandòn al si sparnizze intôr un prufùn che ’l racree: e son lis lágrimis da viulute» [da sotto la macchia si diffonde intorno un profumo che conforta: sono le lacrime della violetta]. Gli accorgimenti retorici, nella densità emotiva, restano invariati, tra simmetrie anaforiche e interiezione fibrillante, anch’essa vettore di pathos. Doti innegabili di Z. sono la freschezza, la perizia nel giostrare con disinvoltura tra molteplici varietà di friulano: una competenza straordinaria. Nel lessico si avvertono tessere come «litrò- litos», ettolitri, «puistîr», postino, «ramònighe», fisarmonica, «raoplans», aeroplani, «ronchestre», orchestra, «talagram», telegramma, «tonobul», automobile, dove forse è marcata la pronuncia bassa, con qualche isolata emergenza italiana più cruda (come «fidanzamènt»). Ma si avvertono anche voci di grana genuina: «ti restin senze un bagar» [ti restano senza un soldo], «la cancrenin simpri» [la tormentano sempre], «chiste volte ûl jessi ance lui a lì a fogolâ» [questa volta vuole essere anche lui lì a fare fuoco], «la fuma ta sacheta» [la pipa in tasca]. E si avverte la piega infantile di lemmi come «bubù», abbaiare del cane, «ciacià», maiale. Ma il tratto caratteristico, lo stigma di questa prosa, è il diminutivo, anche quando la vicenda evochi amori teneri e infelici, perfino tragici (La furlane), l’universo amaro di emarginati, disperati, ubriaconi (Sturiutis furlanis), nel gioco a incastro di racconto nel racconto, della voce di ricordi riferiti: «gurmalut», grembiulino, «lagrimutis», lacrimucce, «mostaçhutis», baffetti, «mumintut», momentino, «piurutis», pecorelle, e via via. Con prelievo più largo: «I madins da gnot di Nadàl?… une gnot clare di stelis, un fret di criure, in ca in là luminùz che sparissin tal scur da viuzzis, un fiviluzzâ sot vos vie… e, plui di un che cajù a no ’l ja la pâs…» [La messa della notte di Natale?… una notte chiara di stelle, un freddo intenso, qua e là lumicini che scompaiono nel buio delle viuzze, un parlottare sotto voce… e, più di uno che quaggiù non ha pace…]. Anche in Sot la nape la trama dei diminutivi è fitta. Una oltranza carezzevole, che investe l’intera scrittura di Z.: i racconti originali, come le leggende e le novelline popolari. Se l’«arte narrativa» di Z. «sta tutta nella pittura affettuosa e nostalgica del mondo paesano friulano, travagliato dalla miseria e da fatti di sangue, ma permeato di una calda bontà e di una dignità contadina impermeabile alle seduzioni della ‘civiltà’: un mondo che i mass-media stanno oggi distruggendo» (Faggin), il tocco rugiadoso filtra quel mondo. O di quel mondo offre, con il suo «manierismo» (Faggin), una immagine ideologicamente connotata. Una sostanziale oleografia.
ChiudiBibliografia
Instoris e lïendis furlanis çholtis su a Cormòns sul Judri cunt-un dos çhàcaris di Vencul, prefazione di U. Pellis, Gorizia, Paternolli, 1914 (ristampa anastatica, Brazzano, Braitan, 2006, con l’aggiunta di uno scritto di G. Simonetti); Ridìculis, ridàculis. Altris sflocjs par furlan, Gorizia, Paternolli, 1914; La furlane cunt-un par di altris sturiutis, dat fur dal autor, Gorizia, Paternolli, 1919; Sturiutis furlanis, Gorizia, SFF, 1921; Sot la nape… (I racconti del popolo friulano), 1-3, Udine, SFF, 1924-1927 (i tre volumi sono riuniti nella edizione anastatica, Udine, SFF, 1982, Prefazione di E. Sgubin); Baldorie!, Carnevaladis! e Jè ore di screà…, con musica del maestro Andlovitz, Cervignano, Tip. A. Ceregato, 1924, 1925 e 1926; Visioni di vita friulana, Torino, Paravia, 1925; Stait a scoltâ, stait a sintî… Leggende friulane, Prefazione di G. Del Bianco, Udine, Del Bianco, 1954; Tre poèz Cormonês. Ermete Zardini Alfonso Deperis ’Sef Pieri Collodi, Cormons, Poligrafiche San Marco, 1958; Fragranze di campi friulani, Brescia, Vannini, 1960; L.S. D’ASBURGO LORENA, Frasi d’affetto e vezzeggiativi in friulano, a cura di A. DI COLLOREDO MELS - A. BARBARANELLI, Udine, Gaspari, 1996 (Prag, Druck und Verlag Von Heinr. Mercy Sohn, 1915 [opera realizzata da U. Pellis, D. Zorzut, G. Pitacco e P. M. Lacroma]). Da ricordare tra i saggi: Leggende di guerra, «La Porta orientale», 1 (1931), 816-829; Giuseppe Ferdinando Del Torre, «Ce fastu?», 9 (1933), 243-249; Incontro con il poeta del popolo friulano Pietro Zorutti, ibid., 19 (1943), 1-13; Rassegna di Sturiutis furlanis, «Studi Goriziani», 15 (1954), 147-174; Giuseppe Ferdinando del Torre nel centenario del «Contadinel», ibid. ... leggi, 19 (1956), 109-149; Ricordo di una scrittrice friulana: Maria Molinari Pietra, ibid., 22 (1957), 111-120.
DBF, 870; B. CHIURLO, La letteratura ladina del Friuli, Udine, Libreria Carducci, 19224, 92-95; G. L[ORENZONI], Recensione a Sot la nape, «Rivista della Società filologica friulana», 6 (1925), 78-80, e a Visioni di vita friulana, ibid., 135-137; CHIURLO, Antologia, 449-450; G. VIDOSSI, Recensione a Stait a scoltâ, stait a sintî…, «Ce fastu?», 30 (1954), 159-160; F. SIMONETTI - E. CACCIA, Ricordo di Dolfo Zorzut, «Studi Goriziani», 28 (1960), 113-134; G. FAGGIN, Prose friulane del Goriziano, Udine-Trieste, La Nuova Base, 1973, 23-26; Mezzo secolo di cultura, 288-289; E. SGUBIN, Un secolo di poesia e di prosa in lingua friulana a Cormons, in Cormons, 231-239; D’ARONCO, Nuova antologia, II, 197-198; E. SGUBIN, Lingua e letteratura friulane nel Goriziano, in Marian, 597-600; GALLAROTTI, 173-174; FAGGIN, Letteratura, 157-159; G.P. GRI, Tradizioni popolari friulane nel Goriziano, in Cultura friulana, 209-224 (in particolare 216-217 e 218).
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